Pinocchio 1932

ROMA 1932

Tutti nel quartiere mi chiamavano Lambo, diminutivo del mio doppio nome Lamberto Vladimiro, classe 1925.

Frequentavo la seconda elementare e tutte le mattine mi incamminavo da casa nostra, che si trovava a Roma, al sesto piano di un palazzo a Piazza dei prati degli Strozzi, da tutti conosciuta più semplicemente come Piazza Strozzi, per arrivare alla mia scuola, la Luigi Pianciani a Piazza Risorgimento.
Impiegavo circa un quarto d’ora, di buon passo, per percorrere quel chilometro e mezzo.
Tutte le volte che mia madre Iside, sì aveva un nome un po’ antico, andava a parlare con la mia maestra, si sentiva ripetere la solita tiritera:

“VOSTRO figlio è intelligente ma studia poco”.

Si diceva VOSTRO, eravamo nel XX anno dell’era fascista e stringere la mano invece di fare il saluto o dare del lei invece che del VOI, nella nostra scuola era punito con una multa di 1 soldo.
Queste multe finivano in un grande barattolo di vetro trasparente e a fine anno il contenuto si tramutava in caramelle che venivano equamente distribuite fra insegnanti e alunni.

Con la riforma monetaria diffusa da Napoleone il soldo divenne pari a 5 centesimi e 20 soldi formavano una lira. Con la formazione dello stato nazionale non furono più coniate monete con questa denominazione ma il termine rimase in uso per indicare la moneta da 5 Centesimi. Questa abitudine era ancora ampiamente diffusa dopo la seconda guerra mondiale.
La Signora Maestra Gigli

La Signora Maestra Gigli era la nostra insegnante, la ricordo molto accudente, pacata, paziente ed attenta a tutti noi suoi allievi.
Per lei insegnare era davvero una missione e questo traspariva da ogni suo comportamento.
La nostra classe era formata da 35 bambini, tutti maschi, perché le classi erano divise per sesso e le bambine entravano da un altro portone.
La Signora Maestra riusciva a trovare un pò di tempo per ciascuno di noi e cercava sempre di trovare nuovi espedienti per coinvolgerci nello studio o per farci frequentare più assiduamente la scuola.

Un lunedì mattina, dopo che ci eravamo tutti alzati in piedi al suo arrivo, la Maestra ci fece sedere e ci disse:

“Ho pensato di organizzare una lotteria della classe: tutti vinceranno un premio, ma uno di voi, e soltanto uno, vincerà il primo premio.
Sarà un premio bellissimo ma dovrete essere presenti tutti i giorni perché all’estrazione, che faremo sabato prossimo, potrà partecipare solo chi ha frequentato per tutta la settimana”.

Foto ricordo della classe 2° elementare (le due righe sulla divisa stavano a indicare proprio la classe). Io naturalmente sono il giovanotto indicato dalla freccia

Quando uscii da scuola mi fermai come al solito dallo gnaccino, il venditore di castagnaccio, per giocarmi i soliti due soldi con lui.

Persi,

come succedeva spesso e gli dissi:
“Ma almeno l’aggiunta, me la dai?” Allora lui con il coltellone staccò un pezzettino piccolo piccolo dal bordo del castagnaccio e me lo porse.
Arrivato a casa già avevo bello che dimenticato la storia della lotteria anche perché io non avevo mai vinto niente, mai.

Passarono i giorni ed alla fine giunse il sabato.

Forse voi giovani non sapete bene che cosa significava il sabato di quei tempi.

Era il sabato fascista.

Varie classi posano nel sabato fascista. Quello indicato dalla freccia seminascosto sono sempre io!

Tutti, e dico tutti, dovevano andare a scuola o al lavoro con la divisa.
Le insegnanti con la sahariana e noi con la divisa da Balilla.
Calzoncini corti, camicia nera con fazzoletto e fez nero sulla testa con emblema del fascio.
Quel sabato mi alzai e cominciai a vestirmi: pantaloncini, maglietta, camicia e scarpe. Poi andai da mia madre con in mano il fazzoletto e il fez.
Lei mi faceva il nodo al fazzoletto, mi aggiustava un poco il fez sulla testa, si allontanava un pochino, piegava la testa, chiudeva un occhio, poi si avvicinava, mi dava l’ultima aggiustatina e una pacchetta sulla nuca e mi diceva:

“Va bene così, ciao: non perdere tempo per strada”.

Un bacio veloce e via di corsa dal sesto piano giù per le scale. Naturalmente l’ultima cosa alla quale stavo pensando era ‘sta benedetta estrazione. Arrivai di corsa perché ero in ritardo per il tempo che avevo perso a cercare le varie parti della divisa: una scocciatura!

In classe cominciò la riffa.

Gasperini

Un mio compagno, un certo Gasperini, venne chiamato dalla Signora Maestra ad estrarre i biglietti con i numeri vincenti.
Il primo estratto avrebbe vinto…. Un magnifico Pinocchio in legno, colorato e tutto snodabile, della stessa nostra altezza (circa un metro e venti)!
Gli altri premi erano libri, quaderni, matite, pennini, inchiostri ecc. ecc.
Il Pinocchio era lì, dietro la cattedra della Signora Maestra, grandissimo, e tutti lo guardavamo con grande cupidigia e un po’ di soggezione.
Era bellissimo, non avevo mai visto nulla di più desiderabile di quel Pupazzone! Ognuno in cuor suo sognava di essere il vincitore.

Il primo estratto è…..

Silenzio lunghissimo….

Tutti a guardare il proprio biglietto facendo svariati scongiuri.
Trenta……
pausa
pausa
pausa
Due!!!

“Porcaccia la miseria zozzissima, è il mio non ci posso credere!!”

“Scusi” (dong!: multa di un soldo), cioè scusate Signora Maestra, ha detto 32?”
“Si 32, 32”

Andai verso la cattedra per ritirare il premio fluttuando di almeno un metro sopra il pavimento. Mi sentivo su un tappeto volante, tutti mi guardavano con un bel po’ di invidia.
Dopo fu tutto un: “Me lo fai tenere un po’? Che bello, beato te! Fammelo almeno toccare”.
Finita l’adunata del sabato fascista, mi avviai spedito verso casa camminando per strada velocemente.
Tutti i bambini che incrociavo mi guardavano con invidia e io camminavo sempre più veloce.
Non vedevo l’ora di mostrare a mia madre il mio bellissimo trofeo, mi sentivo importante e il mio cuore batteva forte per l’emozione.
Arrivato sotto casa salii le scale di corsa tenendo stretto il mio premio.
Arrivai davanti la porta di casa col fiatone, mi fermai un attimo, mi sistemai la camicia, i pantaloni e il fez. Tirai un grosso respiro e suonai il campanello.
Mia madre mi aprì e io:

“Sorpresona! Guarda Mamma, ho vinto il primo premio della lotteria, guarda Pinocchio quanto è bello, è tutto snodato!!”

Mia madre prese il pupazzone in mano, io chiusi gli occhi gongolante, aspettandomi un bel bacio.
Mi arrivò invece una Pinocchiata sulla capoccia (santo fez che mi proteggeva, ma non vedevo più nulla! ), MAMMA ma…

Bong!!

Un’altra Pinocchiata, e il fez quasi mi segò tutte e due le orecchie

“Te l’hanno dato perché sei un somaro, sì, sei un somaro!”

Cominciò a inseguirmi brandendo il Pinocchio come fosse un battipanni (a quel tempo il battipanni si usava più come batticulo).
Corsi verso la camera da letto, quella col lettone, unica salvezza sperimentata.
Mentre mia madre cercava di raggiungermi da un lato io saltavo dall’altra parte: così infinite volte, fino a quando lei si stancò e mi lasciò perdere.

Da quel momento quel Pinocchio non mi piacque più, lo lasciai da una parte e non ci giocai mai più.

**************

INIZI dell’anno 1943

Ci eravamo trasferiti a Magliano Romano, avevamo dei parenti li.
Ci eravamo trasferiti perché avevamo paura dei bombardamenti e poi a Roma non si trovava niente da mangiare.
C’erano le tessere per tutto: caffè, riso, sigarette, pasta, zucchero, ma non si trovava praticamente nulla.

Cartolina di Magliano Romano

A Magliano invece si stava tranquilli e si mangiava bene.
Io ormai avevo quasi 18 anni, ero vicino all’età di arruolamento e mio padre Alberto era riuscito a farmi assumere in Banca, dove era capo ufficio, per cercare di evitare che mi chiamassero alle armi. Era la Banca Commerciale, a Piazza Colonna, nel grande palazzo accanto alla Galleria.
Facevamo i pendolari quasi tutti i giorni ma a volte, quando facevamo proprio tardi al lavoro, rimanevamo alla nostra casa a Prati, visto che la maggior parte delle volte che suonavano le sirene antiaeree succedeva poco o nulla.

Quella sera facemmo tardi e mio padre era riuscito a rimediare, non so come o da chi, nientemeno che un pezzo di abbacchio.
Ci mettemmo subito a prepararlo, dovevamo riuscire a cucinarlo prima che togliessero il gas.
A Roma, in quel periodo, razionavano il combustibile e lo toglievano per alcune ore del giorno e la sera dopo le 20,00.
Lo mettemmo sul fuoco in un tegame col coperchio, ma dopo una ventina di minuti:

paf, niente più gas!

L’abbacchio era desolatamente crudo e sanguinante.
Ci guardammo disperati,

“Avessimo almeno un po’ di legna lo potremmo mettere sulla stufa a finire di cucinare..” disse mio padre.

Mi venne un’idea:

“Papà, c’è il Pinocchio di legno!!”

Così, dopo averlo smembrato lo mettemmo nella stufa. Una grande fiammata, ma durò poco: alla fine l’abbacchio era ancora mezzo crudo e sanguinante..

“Papà a me non mi piace la carne cruda!”

“A chi lo dici figliolo, neanche a me.
Lo sai che facciamo? Spegniamo la luce e mangiamo!”

Così facemmo e così finì per sempre la storia del mio Pinocchio, immolato dopo oltre dieci anni per una causa superiore e andato via

fra luci e crepitii.

Tutti nel quartiere Prati a Roma mi chiamavano Lambo, diminutivo del mio nome Lamberto, il Vlà invece deriva dal mio secondo nome: Vladimiro.
Sono nato nel 1925.
Dall’alto dei miei novantatré, quasi novantaquattro anni continuo a scrivere queste righe su questo interessantissimo blog “Latina Città Aperta”, affinché momenti della vita quotidiana mia, e più in generale, dell’Italia di quei tempi, non siano dimenticati o vadano perduti.
Così che i più giovani possano avere la possibilità di apprenderli, magari di sentirli raccontare per la prima volta.

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