UN PLAUSIBILE Romanzo cittadino

Mi chiamo Alcide Trottolin, sono nato a Latina sessantadue anni fa. Mio padre Benigno venne qui nel 1932: per via di certe sue intemperanze con le femmine la sua permanenza a Montetappo di Sopra si era fatta difficile.
Decise tutto in un attimo: qualcuno gli aveva parlato dell’Agro Pontino e di una città nuova di zecca dove tutto sarebbe stato possibile e lui che era uno scavezzacollo, considerò quello un discorso sufficiente, anzi, addirittura eloquente.

Salutò vacche, fratelli e genitori, nell’ordine, e scappò di notte, alla luce di una luna guardiana, facendo attenzione anche agli sterpi che calpestava.
Bisognava filar via in silenzio, forando con gli occhi quel mezzo buio e lasciando la parola solo ai grilli e ai rospi nei fossi.
Ma se pure Benigno non avesse avuto quella meta incerta in testa, “lontano” sarebbe stata la destinazione più gradita.
Lontano da quei lavori, lontano dalla noia della patriarcalità contadina, lontano da gerarchie stabilite da millenni, lontano dalle chiacchiere di un plotone di zie e dalla ritrosia bigotta di alcune cugine. Ma soprattutto lontano da due o tre grembi ai quali aveva fatto visita, illuminandoli, e lontano dai forconi e dagli schioppi di padri inferociti e dai pugni di fratelli bellicosi, troppo compresi nel ruolo.

Non sto a dirvi come riuscì ad arrivare qui, lui mi raccontò di grandi marce a piedi, con la costante preoccupazione che tra chilometri di campi, polvere e sassi gli si disfacessero gli scarponi fregati a suo fratello Efrem.


Mi parlò di carretti cordiali sui quali riusciva a farsi ospitare saltandoci su, parlando e scherzando in continuazione, dando di gomito a chi teneva in mano le redini, strappando risate a mogli solide come alberi e saettando rapide occhiate di miele alle figlie che si mischiavano al fieno.
Era intelligente mio padre, svelto di testa come un umorista ebreo, e ci sapeva fare con la gente: prima che riuscissero a formulare dei labilissimi sospetti sul suo conto, lui li aveva già fregati, aveva avuto da loro quello a cui aveva mirato fin dal primo istante.

Benigno Trottolin nel 1932

Non ci mise molto ad ambientarsi una volta arrivato a destinazione, quel muoversi di folle e di cose nei mesi che precedettero l’inaugurazione di Littoria gli piaceva.
Rispetto al ritmo placido di vita che si era lasciato alle spalle e contro il quale si era costantemente ribellato, lo esaltava il caos organizzato di tutta quella gente che lavorava febbrilmente, spingendo mezzi ingombranti, issando pesi, tendendo corde, gettando bitume, fissando finestre, lucidando marmi, rifinendo i particolari esterni dei palazzi nuovi nuovi e facendo mille e mille altre cose.
Aveva scelto subito di vivere in città nonostante fosse entrato in confidenza con un mucchio di coloni e con le loro famiglie, ma queste persone erano destinate ai poderi, si erano mosse tutte insieme ed erano arrivate nell’Agro per lavorare la terra e per allevar bestiame, nulla di diverso da quello che avevano fatto per secoli.
Loro stavano scrivendo una nuova epopea contadina, Benigno, invece, sapeva di non voler coltivare nulla, men che meno aveva intenzione di coltivare il proprio passato recente e quel tipo di esistenza che già da piccolo trovava di due o tre taglie più stretta del dovuto.
Si mischiò dunque alla minutaglia che si prestava alle tante piccole incombenze necessarie, ai lavoretti di complemento: si piazzò insomma negli interstizi della fondazione, spruzzando intorno la sua cordialità irresistibile e stringendo amicizie.

Piazza del Popolo in costruzione a Littoria

“Oggi è una grande giornata per la Rivoluzione delle Camicie nere….”

Venne il Duce ad inaugurare la nuova città. Con le braccia piantate sui fianchi parlò dal balcone del Palazzo Comunale, flettendosi di tanto in tanto su quel busto noto a troppi gessi dipinti e a decine di migliaia di bronzetti, per lanciare col corpo verso la folla le aspre serenate della sua celebre retorica.
Benigno era lì sotto ad agitarsi e ad applaudire, era fatto così: possedeva riserve fisiche inspiegabili anche considerando la giovane età, ed in ogni cosa che faceva, anche in quelle impercettibili, profondeva tesori in energie, sperperandole senza apparentemente depauperarsi.


Per lui era già pronto un posto di commesso nell’unica drogheria della città nuova. La Signora Marietta, la futura cassiera, intima del titolare Augusto Sarcinelli, ci aveva messo una buona parola.
Di quella drogheria dieci anni dopo era lui il proprietario: aveva rilevato contemporaneamente l’esercizio e la Signora Marietta.
Si era in guerra ma la cittadina neonata non sembrava avvertirlo ancora; solo intorno a mio nonno, come sempre, l’aria turbinava surriscaldandosi e le cose accadevano.
Benigno emerse perfettamente intatto dalle vicende tragiche degli anni estremi del conflitto. Non disse mai come ci era riuscito, ma approdò al dopoguerra provvisto di un sostanzioso patrimonio: riaprì bottega e col consenso commosso di tutte le sue fidanzate, sposò Marietta.

Littoria era intanto divenuta Latina, anche se non per tutti.

Il giorno in cui nacqui dovettero mettere in giro dei cartelli per avvertire mio padre: era partito già da un po’.
Aveva detto a mia madre che sarebbe andato, in veste professionale naturalmente, alla “Settimana della mortadella” che si teneva a Budrio, in Emilia, ma in città tutti sapevano che se ne stava asserragliato in qualche stanza allietata da penombre e sospiri.
Nemmeno dopo, crescendo, l’ho visto molto: “Lavora come un matto, è sempre fuori a trattare con questo e con quello, sono preoccupata, dovrebbe riposarsi”. Così, fiaccamente, senza provare davvero a crederci, diceva mia madre con aria stordita.
Aveva abbandonato il lavoro in drogheria appena sposata e mio padre le aveva piazzato a casa una donna di servizio, così, da anni mamma tentava senza successo di tradurre in qualcosa di sensato il suo sconfinato tempo libero. Era ingrassata e senza energia, non poteva certo starmi dietro. Allo stesso modo era impossibile tener dietro alla crescita della città che più accumulava a caso quartieri su quartieri, palazzi e strane piazze deserte, e più le si scoloriva la fisionomia.


Non ne eravamo sicuri, ma era quasi impensabile che metastasi edilizie di quel calibro potessero moltiplicarsi senza un qualche intervento di mio padre.
Lui era ovunque, tranne che a casa, naturalmente. A volte compariva improvvisamente a tavola e mangiava con noi. Il suo celebre sorriso si riversava come un sole su me e mia madre, pallide vittime dell’inerzia. Faceva battute divertenti, mi dava di gomito e mi infilava in tasca un rotolo di banconote: “Per le fidanzate!” diceva, strizzandomi l’occhio.

Nel frattempo aveva venduto il negozio di alimentari: ora possedeva due supermercati e la sua energia si manteneva così meravigliosamente integra che i suoi collaboratori gli intimavano scherzando di tenersi alla larga dai banchi dei surgelati per non squagliarli. Lui li prendeva alla lettera: delegava ad altri le faccende più noiose e si dedicava alla sbrinatura di qualche signora sussiegosa.

Io bighellonavo: ero costantemente mezzo rimbambito per la strana, soverchiante stanchezza che mi gravava addosso dalla mattina alla sera.
Battevo i ritrovi del momento sempre scortato da un nugolo di amici senza una lira ma supergriffati. Ho sempre respinto, perché faticoso da approfondire, il sospetto che mi fossero inseparabili perché ero io a pagare ogni consumazione, ogni dose: ero io quello coi soldi.
Benigno intanto, inevitabilmente s’era anche buttato in politica ed era diventato consigliere di maggioranza. Nella sostanza del linguaggio latinense l’espressione “entrare in politica” voleva dire solo che aveva incrementato gli affari. Ora combatteva su tre fronti, due dei quali, lavoro e impegno politico, erano apparentemente leciti e pubblici, raccomandando alla porosa discrezione di tanti il silenzio sulla terza trincea, quella degli amori adulterini.
L’unica battaglia che nei fatti non aveva combattuto, soccombendovi felicemente, era quella sul fronte familiare: lì lo si sarebbe potuto definire più che altro un disertore. Io lo guardavo da lontano, attraverso una nebbia di fiacchezza, e lo vedevo sempre identico a se stesso, una furia della natura, intento a tessere progetti ad alto tasso di dispendiosità, pronto a dar di gomito a chiunque gli potesse servire, concentrato a sedurre, a raccontare barzellette.

Mi ero convinto che generandomi non mi avesse ceduto per intero il suo corredo cromosomico, ma che si fosse tenuto stretto qualcosa che sapeva che gli sarebbe tornato utile in futuro: una particella o qualche altro attrezzo genetico che avesse a che fare con il suo surplus energetico, con la fantastica dinamo di cui avrebbe dovuto cedermi i diritti di sfruttamento.
Col passare degli anni, decennio dopo decennio, Latina, inseguendo troppe facce, andava sempre più perdendo la sua, che questa piacesse o meno.
Chi la amministrava, nel raccontarla rimaneva inchiodato alle sue origini, ne parlava come se venisse eternamente fondata, non esisteva memoria oltre l’inizio di quella storia.
E più i suoi padroni mezzo fascisti la narravano fondata, più la realtà la descriveva sfondata, e lo urlava con la forza di cifre terribili nelle orecchie di una massa di cittadini sordi. Nessuno se ne preoccupava, c’erano affanni diversi a premere sulla gente, c’era una crisi da negare, altro da inseguire, calcio e passatempi di marca magari.

Molti anni prima mio padre, ricordandosi improvvisamente di me, come se la sua anormale vitalità si fosse incantata per un momento, mi aveva piazzato alla direzione di uno dei suoi supermercati, un ruolo che da subito abbandonai nelle mani sudaticce del mio vice, sistemandomi in una poltrona del mio ufficio, una sede che lasciavo, cisposo e intontito, solo all’ora di chiusura.
In quelle ore sonnecchiavo, sbadigliavo, giocherellavo, chiamavo mia madre e percepivo anche attraverso il telefonino che lei era ulteriormente ingrassata. Il suo tono sapeva di sfinimento e certo questa depressione non poteva dipendere da preoccupazioni legate alla crisi.
Nata nel primo decennio del secolo, la crisi ci aveva fatto visita, comportandosi da maleducata, e in pochi anni aveva dimezzato le attività commerciali di Latina, svuotando intere vie e prendendo in pegno migliaia di catenine d’oro, doni di chissà quante prime comunioni di epoche lontane.
Moltissimi potevano preoccuparsi della crisi, non certo mia madre. Quel genere di ansie non la riguardavano: il patrimonio di papà era solido come le sue feci, sempre perfette a detta di qualche ragazza ciarliera, più fidanzata con lui di quanto lo fossero tutte le altre.

Eppure Benigno Trottolin, mio padre, cinque anni fa, fu in agosto, veloce come sempre, è andato a cozzare inaspettatamente contro la morte, consumando in un infarto prodigioso e spettacolare il ragguardevole cumulo delle sue energie residue.

Da allora l’ho visto solo un po’ meno di quanto non accadesse quando era vivo, e nei nostri rapporti il cambiamento è stato quindi tutt’altro che radicale:

io continuo ad andare avanti sempre col freno tirato.

Respiro a fatica, intriso della consueta inedia, guardo senza vedere mentre tutto scorre verso mete che non riesco ad immaginare: è un mio limite, più evidente dato che qui non ci sono troppe cose che non siano prevedibili. Del resto, se pure lo fossero non mi interesserebbero più di tanto. Nulla mi tocca più di tanto.
Non so come sia andata, non lo ricordo bene, ma circa trentatre anni fa ho avuto un figlio.
Sua madre venne liquidata a sufficienza da Benigno e sparì: ci tenemmo il pupo, o meglio, qualcuno se ne prese cura. Io non me ne sono occupato troppo, lo ammetto, la mia scarsa stazza energetica non era assolutamente in grado di fronteggiare la vitalità di quel bambino.
Non gli ho tuttavia fatto mancare qualche carezza e mezzi per vivere agiatamente. Non ne avrebbe avuto bisogno credo, lui è un tornado, la replica turbinosa di suo nonno Benigno.
Non mi raccapezzo che sia già arrivato ad essere adulto, non mi sono neanche accorto che fosse mai andato a scuola, che maneggiasse un libro o qualcosa di diverso da un iPhone.

Ma Benigno Jr, al contrario di me, è a pieno titolo un cittadino di Latina, lui la città l’ha vissuta pienamente, ne ha assorbito messaggi e modelli, è stato dovunque avrebbe dovuto essere e frequentato chiunque avrebbe dovuto frequentare: è una furia ipercinetica in cerca di sfogo, un deposito di propellenti pronto a saltare in aria, non sa nulla di nulla ma sa che in questo mondo non sapere un’acca è il modo migliore per essere liberi.
Sa chi è e tanto basta: lui al supermercato non va a farci la spesa, ci va da padrone a fare il casting per l’assunzione delle nuove commesse.

Sì, perché c’è la crisi ancora, tutto è piuttosto stagnante e fermo, ma le commesse sono sempre freschissime,

assunte per tre mesi e poi… Via! Avanti le altre.

Tanto si può, anzi si chiama crescita della occupazione.
Qualcuno ritiene mio figlio un arrogante, io non credo che possa definirsi così. Certo è un istintivo, si è poco coltivato, ma che bisogno ne aveva del resto?
Per temperamento è tanto distante da me quanto vicino a suo nonno. Mio figlio è reattivo: lui per prima cosa agisce. Senza star lì a consumarsi nell’irresolutezza come me, senza chiedersi se quel che si dovrebbe fare sia giusto o no, senza perdersi nella conta delle nuvole.
Questo, credetemi, è sufficiente a consolarmi, ad attenuare il peso delle mie responsabilità: Benigno Jr. non è uno straniero in ogni patria come suo padre.
Lui è di qui, anzi è l’erede di quelli che Latina l’hanno messa in piedi, l’hanno ingrassata, imbellettata e fottuta, gli stessi che quando questa effimera sbornia civile passerà, la inviteranno nuovamente a pranzo lasciandole galantemente pagare il conto.
Mio figlio sa chi è e va benissimo così: più sicumera, meno masturbazioni.

Figuratevi che giorni fa ha rifilato un pugno in faccia, a regola d’arte, ad un deficiente di spazzino, o forse era un addetto all’immondizia, non lo so, che col camion stava raccattando cassonetti. Il mezzo ingombrava tutta la strada, stava fra le scatole e quel tizio se la prendeva pure calma.
Mio figlio aveva fretta, si sa come sono questi ragazzi, e con la sua automobile, che è pure grandicella, non ci passava.
Ha pestato un po’ col clacson per dare la sveglia al cretino, ma no, quello non se ne dava per inteso e continuava a tirare su i cassonetti: pareva ripreso alla moviola, era lentissimo.

Benignino giustamente s’è spazientito e a quel punto al clacson ci si è proprio attaccato. Sembrava una sirena, ha azzerato i timpani a tutto il quartiere.
Finalmente il bradipo è sceso, ha addirittura fatto la faccia brutta: lui!! Lui che da almeno cinque minuti bloccava il traffico. Ma che era roba sua il tempo degli altri?
Anche mio figlio è sceso dall’auto. Quello gli si è avvicinato e con tono spazientito gli ha strillato: “Ahò ma che vvoi, che te pija? Io sto a lavorà che te credi!”
Capito? Stava ingombrando la strada da cinque minuti e pretendeva pure di avere ragione.
C’era da menargli, ed in effetti Benignino l’ha rimesso al posto suo, lui e il suo “Sto a lavorà”!!

Un bel cazzotto e via,

credo che ci si senta meglio dopo. Se non fosse così dispendioso fisicamente, se potessi farlo senza lasciare il mio divano, io esulterei.
Sì, esulterei perché mi rende felice sapere che lui non ha ereditato il mio carattere, la mia spossatezza, l’arrendevolezza, la mia solforosa remissività.

“Che vvoi? Che te pija? A me? A me!!?? Ma beccate questo”:

un bel cazzotto e via. È tutto suo nonno, si piace e va veloce, lui è la sua evoluzione.

Benigno Trottolin non ha mai lasciato Latina.

 

“Ogni riferimento a persone esistenti o a fatti realmente accaduti è puramente casuale

 

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