Ascolta, si fa sera

Ascoltare il tramonto, il suono del silenzio, il battito d’ali di una farfalla.

Cose da poeti, o effetti collaterali di qualche bicchiere di troppo.

L’ascolto non è il sentire, non coinvolge solo l’udito: richiede empatia, attenzione, ricerca del dialogo.
È un segno di riguardo verso l’altro, l’ascoltato.
Quante volte ci imbattiamo nei cosiddetti dialoghi tra sordi: ciascuno è molto preso a dire la sua, rimanendo impermeabile alle parole dell’altro.
Alla fine, ognuno per la sua strada, convinto di aver fatto sentire le proprie ragioni.

Rimaste inascoltate.

Chi ascolta si predispone a farsi contaminare, a mettersi in gioco, a cambiare opinione.
È un atto di volontà, non sempre facile. Bisogna superare diversi ostacoli, a partire dai pregiudizi.
L’errore più grande è valutare il messaggero e non il messaggio.
Fermarsi in superficie o adottare chiavi di lettura distorte.
Se questa cosa la dice Tizio è perché vuole ottenere altro, oppure ce l’ha con Caio o gli sta antipatico Sempronio; o forse vuole danneggiarmi/danneggiarci, sta complottando, è spinto dagli altri (quelli che hanno già “tradito”, che remano contro).
Invece Lucio è dei nostri, quel che dice non lo capisco bene ma, siccome è con noi, mi sta bene.

Bella scorciatoia per evitare di pensare.

Da qui viene fuori la voglia del capo decisionista, semplicemente da seguire senza tanti perché.
Io sto con te, faccio parte della tua squadra, indipendentemente da quel che dici.
Cervello in frigo, non sia mai che si sciupi ad usarlo.
In politica questa tendenza ha raggiunto livelli preoccupanti: dal correntismo spinto e dai partiti personali (col nome del leader bene in vista) al culto della personalità il passo è breve.

Un’idea, una volta esposta, dovrebbe invece perdere la paternità: non è importante chi dice ma cosa viene detto.
Solo così la discussione può essere realmente libera e aperta: non sto giudicando te, ma valutando la tesi esposta.
Il confronto deve essere il più ampio possibile: è dall’incontro di opinioni diverse che si può raggiungere una sintesi migliore.
Se a una tesi non si contrappone alcuna antitesi, alcun punto di vista differente, le probabilità di errore aumentano e anche la crescita di consapevolezza viene meno.
È un processo che dovrebbe tendere a concludersi con la condivisione, pratica che volge al desueto.

Nel film Train de vie c’è una scena emblematica, per quanto riguarda l’ascolto: nell’assemblea chiamata a decidere una via d’uscita per sfuggire alla minaccia nazista, l’idea del treno viene allo scemo del villaggio.
Alcuni si fermano all’apparenza e la bollano come una pazzia (cos’altro ci si può aspettare da un pazzo), ma c’è chi prende sul serio la proposta senza farsi ingannare dal pregiudizio, e alla fine quella sarà la soluzione che porterà alla salvezza.

Per avviare un confronto vero, incardinato sull’ascolto, è necessario l’incontro.
Perché l’ascolto si completa di tutte le componenti della comunicazione tra persone: verbale e non verbale.
Per cui entrano in ballo, oltre al tono e al volume della voce, lo sguardo, la gestualità, le espressioni facciali…
Già al telefono le cose si complicano; ma anche la forma scritta resta riduttiva e, a volte, crea più equivoci dei problemi che vorrebbe invece risolvere.
Figuriamoci poi se ci si affida a messaggini sintetici via telefono o sui social.
Per questo si sono inventati le faccine, misero surrogato del vis a vis che a volte rende ancora più falsa la percezione dello scritto.

Con la (scarsa) comunicazione a distanza la pratica del dialogo va sempre più in crisi, nessuno ama mettersi o essere messo in discussione.
Si preferisce convogliare messaggi precostituiti, funzionali al proprio scopo.

Si chiama propaganda.

L’ascolto non è richiesto né gradito.
Perché uno dei frutti dell’ascolto è il pensiero critico, la capacità di mettere in discussione i temi affrontati.

Ecco allora che si “taglia”, si sezionano e si selezionano gli argomenti che ci vengono proposti.
Si prende quel che ci piace e il resto si lascia lì, servendoci dell’altro come al self service.
In genere mettiamo nel piatto quello che sentiamo più simile, che non ci mette in discussione (o meglio che ci dà ragione), che non richiede approfondimenti o particolari ragionamenti.
È la prassi manichea del “mi piace/non mi piace”, tutti quei pollicioni in su o in giù, come usava al Colosseo coi gladiatori (almeno nella vulgata popolare).

Quante volte è stato sostenuto che bisogna ripartire dall’ascolto; che la crisi della società civile prima ancora che della politica è figlia della carenza di dialogo.
Ciclicamente si denuncia la mancanza del senso di appartenenza (frutto delle relazioni), fondamenta su cui si “costruisce” il senso civico e quindi base della civile convivenza.
Però queste enunciazioni rimangono spesso senza seguito.
Anzi in genere vengono proposte in prossimità di scadenze elettorali, per stimolare alla partecipazione sperando di trarne qualche vantaggio contingente.
Salvo poi dimenticare subito dopo tali sani principi.
Perché all’ascolto bisogna dare seguito, non può trattarsi di un’attività saltuaria.
Se il frutto dell’ascolto non è la condivisione, anche la partecipazione perde di senso.
E infatti la disillusione, lo scoramento, la tendenza a rinchiudersi ciascuno nel proprio particolare sono la cifra di questi tempi tristi.

Chissà che, prima o poi, non si prenda coscienza di questa involuzione e, invece di puntare tutto sulla comunicazione (che, in assenza di occasioni di confronto, si trasforma giocoforza in propaganda), si riesca a ricominciare a incontrarsi, a parlarsi, a cedere ognuno qualcosa del suo particolare in funzione di un obiettivo comune da perseguire insieme, senza primogeniture e senza personalismi.

 

Tanto il vostro Erasmo dal Kurdistan vi doveva, senza nulla a pretendere.

 


 

 

 

 

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