L’amore ostinato di Markovitch

Un libro per ogni festa

Non sono una persona particolarmente sensibile o immediatamente reattiva alle festività varie che, grandi o piccole che siano, durante lo scorrere di un anno si affacciano, o forse sarebbe meglio dire, incombono, sulla nostra vita.
Sono convinto infatti che sarebbe più sano trovare ogni giorno qualche modesto, ma per noi significativo, sistema per festeggiarci, o per ricordarci di persone che consideriamo importanti.
Tuttavia, che ci piaccia o meno, in questi giorni stiamo per essere investiti dal poderoso macchinario della ricorrenza più ingombrante di tutte.
E’ quella nella quale un osservatore più disincantato e fuori dal coro potrebbe vedere solo un grosso e residuale grumo di rituali di origine cristiana che si portano però appresso sia le tracce dei culti pagani, disinvoltamente sincretizzati, che quelle, più vistose, delle nuove religioni inventate senza sosta dal mercato globale.

Guardando al nostro Natale si dovrebbe parlare infatti di rituali, sarebbe onesto riconoscerlo, in  gran parte esteriori.
Basti pensare a dove vadano a finire lo spirito cristiano o quello natalizio, nell’atteggiamento ostile, quando non decisamente feroce, di moltissimi connazionali verso chi da noi arriva povero, stremato e lacero come la famiglia errante che con troppe parole retoriche loro stessi si preparano a festeggiare.
Alla luce dello sguardo disincantato che dicevamo, quelle che vedremo svolgersi nei prossimi giorni appaiono celebrazioni tanto svuotate della loro prima essenza, quanto però ritenute socialmente inevitabili, opportune e non contrastabili.

Fortunatamente, perfino in questo viaggio al centro del respingimento e del consumo, col suo corollario di affanni per i regali da fare e con la sua corsa all’approvvigionarsi delle materie prime da trasformare in pranzi, cene e baccanali vari, si riesce a rintracciare un residuo spirito di umanità.
Alcuni, non pochissimi, perfino dei non credenti come me, ricordano che il Natale festeggia sostanzialmente il nascere e l’imporsi di quello che, incarnato dal Cristo, fu un punto di vista assolutamente rivoluzionario: un pensiero che mettendo tutta l’umanità sullo stesso piano, stabiliva per la prima volta i diritti degli ultimi, di quelli che non possedevano nulla.

Ricordato questo, tanto per renderci utilmente antipatici, mi piace pensare che nel grande calderone miliardario messo in moto da chi, come tutti noi, corre a fare i suoi regali ad amici e parenti, si possa rintracciare una percentuale non irrisoria di persone che restano fuori dai maxi uteri delle colossali catene, in particolare da quelle che vendono prodotti elettronici, e mi piace pensare anche che a tenersi fuori da questi templi del consumo comandato, siano anche quei pochi che come regalo pensano al libro.
Col libro, va sempre sottolineato, si regalano mille mondi, universi interi  di arte e di intelligenza.
Da poco mi è tornato in mente un pensiero di Borges che tutti dovrebbero oggi regalare a chi gli è particolarmente caro.

Jorge Luis Borges

Diceva infatti lo scrittore argentino:

“Di tutti gli strumenti inventati dall’uomo, il più straordinario è il libro. Perché se la spada è il prolungamento del braccio e il cannocchiale quello della vista, il libro è il prolungamento della mente e della fantasia”.

Mi piacerebbe sapere anche che i buongustai che scelgono di fare quel dono, siano in grado di varcare la soglia delle librerie indipendenti, di contrastare l’appiattimento culturale indotto dalle grandi catene di settore, di approfittare dei pochi librai sopravvissuti alla loro aggressione e cercare col loro aiuto “di sartoria”, il romanzo o il saggio giusto, quello adatto da regalare a ciascuno.
Io, guarda un po’ la combinazione, ne ho appunto uno da consigliarvi, un libro ottimo per le feste natalizie quanto per quelle pasquali, per ferragosto come per il martedì grasso.
E’ dunque un romanzo che può arricchire qualunque giorno dell’anno.
Io vi incappai tre o quattro anni fa, la cosa del resto non ha nessuna importanza, e come spesso avviene, per prima cosa mi colpì il titolo:
”Una notte soltanto Markovitch”.

Era un titolo particolare che mi attrasse subito, lasciava già intravedere una storia, anche se non si presentava prevedibile. Era un romanzo d’esordio, la prima opera di una giovane scrittrice israeliana, Ayelet Gundar-Goshen.
Iniziai a leggerlo e la lettura, per merito dell’opera stessa, divenne subito vorace: era più il libro che divorava me, piuttosto che il contrario.
Io che ormai non mi accontentavo già da un pezzo di perdere tempo con libri “carini”, tollerando semmai che lo fossero solo quelli di genere, mi accorsi subito che quel romanzo, bellissimo, ad onta dell’età dell’autrice, risultava maturo e altamente seduttivo.
Parliamone dunque, e tentiamo di far capire di che si tratta.

Ayelet Gundar-Goshen

Il protagonista del libro ha la spiccata caratteristica di non avere caratteristiche.
È un uomo dall’aspetto ordinario, insignificante, uno di quelli che dimentichi subito dopo averlo incontrato, e che continui a dimenticare ad ogni nuovo incontro.
Jaakov Markovitch, l’uomo di cui stiamo parlando, vive in un villaggio della Palestina dei tardi anni Quaranta, un luogo ancora sotto protettorato britannico nel quale, mossi dalla speranza di un proprio paese, stanno riversandosi da tutta Europa molti ebrei scampati all’immane sterminio della Shoah.

Manifestazione per la nascita dello Stato di Israele – 1947 –

Nella lotta sotterranea che agita quei luoghi e che porterà presto alla formazione dello Stato di Israele, Markovitch, proprio in virtù della sua naturale tendenza a passare inosservato, viene utilizzato per missioni importanti, di tipo quasi spionistico.
Il villaggio in cui vive è un piccolo pezzo di terra che, vivificato dalla solida capacità narrativa della scrittrice, si dimostra perfettamente adatto a simboleggiare l’intero universo umano.
I personaggi che lo affollano schizzano vivi fuori dalle pagine, man mano che la minuscola epopea che vi è descritta dipana il suo percorso.
Contraltare naturale di Markovitch è il suo migliore amico, Zeef Feinberg, il suo opposto: bello, roboante, rumoroso, eccessivo, e inguaribile donnaiolo.
I due insieme ad altri maschi del villaggio vengono spediti per nave in Europa dall’Irgun, l’organizzazione militare sionista, per permettere, attraverso una serie di matrimoni combinati, ad un gruppo di donne ebree di approdare legalmente in Palestina.
Una volta sbarcate in quella che tanti ebrei già sentono come la loro possibile patria, le coppie potranno, o meglio, dovranno sciogliersi con altrettanti divorzi.

Ayelet Gundar-Goshen

La sorte dona in sposa all’insignificante Markovitch una donna splendida, Bella Seigerman, ovvero l’incarnazione stessa dei sogni dell’uomo.
Jaakov se ne innamora all’istante e da quel momento per lui quel matrimonio cesserà di essere posticcio: al contrario di tutti gli altri partecipanti a quella spedizione, Markovitch negherà dunque il divorzio a Bella.
Comincerà da quel momento un rapporto la cui esistenza reale si dovrà esclusivamente alla natura ostinata di Jaakov, una testardaggine tanto silenziosa e spiccata quanto dimesso è il suo aspetto.
Bella vivrà comunque una sua vita, indipendente da quella del marito, ma il filo che li lega, suo malgrado, rimarrà intatto.
La vita dei due viene raccontata con una vena felice di realismo magico ed una, sotterranea, di umorismo surreale che contribuisce a rendere ancora più vive e vere le tante storie che si intrecciano.
Sì, perché intorno alla vicenda di Bella e Jaakov viaggia la narrazione corale delle vite di tutti gli abitanti del villaggio.
La giovane penna, già così salda e creativa, di Ayelet Gundar-Goshen, restituisce a perfezione al lettore gli umori, tanti e contrastanti, di quel tempo tumultuoso: le guerre con gli arabi, i tradimenti, le passioni, le tragedie personali e collettive, l’incombere nei ricordi dell’ombra nera della Shoah e la nota lieve ed aerea dei profumi delle arance e delle pesche.

Il romanzo “Una notte soltanto Markovitch” di Ayelet Gundar-Goshen è edito in Italia da La Giuntina.   

Ayelet Gundar-Goshen

Piermario De Dominicis, appassionato lettore, scoprendosi masochista in tenera età, fece di conseguenza la scelta di praticare uno sport che in Italia è considerato estremo, (altro che Messner!): fare il libraio.
Per oltre trent’anni, lasciato in pace, per compassione, perfino dalle forze dell’ordine, ha spacciato libri apertamente, senza timore di un arresto che pareva sempre imminente.
Ha contemporaneamente coltivato la comune passione per lo scrivere, da noi praticatissima e, curiosamente, mai associata a quella del leggere.
Collezionista incallito di passioni, si è dato a coltivare attivamente anche quella per la musica.
Membro fondatore dei Folkroad, dal 1990, con questa band porta avanti, ovunque si possa, il mestiere di chitarrista e cantante, nel corso di una lunga storia che ha riservato anche inaspettate soddisfazioni, come quella di collaborare con Martin Scorsese.
Sempre più avulso dalla realtà contemporanea, ha poi fondato, con altri sognatori incalliti, la rivista culturale Latina Città Aperta, convinto, con E.A. Poe che:
“Chi sogna di giorno vede cose che non vede chi sogna di notte”.

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