Se tu dai una TAV a me…

…io do il salvacondotto a te.

Siccome lo scambio non è equilibrato, oltre alla TAV arriva in conguaglio pure la presidenza dell’INPS.
Si vede che, in fondo in fondo, gli alleati gialloverdi concordano (tra le poche cose) sul superamento dell’Euro: si inizia a sperimentare il baratto, poi verrà nominata una commissione “indipendente” per valutarne costi e benefici, infine una manciata di tifosi deciderà per tutti sulla piattaforma Rousseau.
E pensare che si è svegliato pure il ministro dell’economia per dire che il re è nudo: si può buggerare per una volta un malcapitato cancellando gli impegni già presi, ma poi, capito l’andazzo, ci si deve rassegnare a non trovare più nessuno disposto a investire nel Belpaese.
E immediato, come dopo il martelletto che colpisce il ginocchio, è scattato il riflesso condizionato del richiamo all’ordine stabilito dal “contratto di governo”.

Ma questo famigerato contratto sembra scritto in sanscrito: ciascuno dà la sua interpretazione autentica, diversa da quella degli altri; si attende solo la parola definitiva della Sibilla Cumana.
Ormai appare chiaro che, anche dalle recenti elezioni regionali, il “popolo” comincia a capire la differenza tra una forza politica radicata sul territorio e con una sua visione globale (per quanto retriva e nostalgico-divisiva) e un gruppo di dilettanti allo sbaraglio che propone pochi slogan slegati uno dall’altro; una forza politica che ha tratto il suo effimero successo dalla pesca a strascico di proteste, particolarismi e idiosincrasie localistiche (con salsa demagogico-qualunquista), il cui raggio d’azione e di interesse, spesso molto ridotto, ha il fulcro esattamente sull’ombelico dell’indignato di turno. Conseguenza ineluttabile: la delusione di tante illusorie aspettative, a volte contrastanti tra loro.

Ecco che pure la “guerra” alla casta si scontra con le mutate condizioni di capi e capetti: il sacro limite dei due mandati diventa allora un ostacolo da rimuovere alla chetichella (intanto si parte dai consiglieri comunali, che da cosa nasce cosa), quando il Vicepremier Ridens vede l’approssimarsi della fine della sua fulgida carriera istituzionale: no ai politici professionisti, quando si tratta degli altri.
Chissà cosa ne pensa lo ieratico Dibba, che si era preso una legislatura sabatica per giocarsi il bonus del secondo mandato con Di Maio (teoricamente) fuori dai giochi.
Del resto, gli alti obiettivi che il Movimento si era proposto possono dirsi tutti raggiunti: tre leggi in croce senza ancora i decreti attuativi e la formale conquista del potere (che però gestisce un altro); cosa ci si può aspettare di meglio?

Il reddito di cittadinanza è cosa fatta e la povertà sconfitta: a pochi giorni dal via alle domande non è ancora dato sapere se, come e quando i navigator verranno selezionati e formati (gli unici cioè che potranno ricevere qualche beneficio occupazionale certo, ancorché precario).
Né può dirsi completo e operativo il quadro dei soggetti abilitati a ricevere le domande.
Inoltre, come se non bastasse, alcune norme e limitazioni per l’ammissione al sussidio sono ancora in discussione: che vogliamo fare, cambiare le regole del gioco a partita aperta?
Una innovativa forma di sostegno al reddito degli avvocati che promuoveranno ricorsi e class action?

Il decreto dignità di degno ha solo il nome. Non si placa la disputa sul conteggio degli occupati, tra tempo determinato e tempo indeterminato, e il saldo al momento non è ancora chiaro; ma forse, per i tempi del Paese, un bilancio appare prematuro; o forse si attende il cambio al vertice dell’ISTAT per far tornare i conti.
Sembra infatti che, quando la partita si fa più dura e i numeri incombono impietosi, la tattica sia quella di “comprarsi” l’arbitro, con la scusa della discontinuità.

Da ultimo, il decreto anticorruzione è il solo che inizi a dare effetti visibili: il Celeste è finito nelle patrie galere senza passare per il via.
Forse sarebbe stato meglio se avesse restituito il maltolto, che la prigione non si augura a nessuno, tantomeno a un ultrasettantenne; ma la nuova filosofia forcaiola questo impone: un paio di scintillanti manette ai polsi del primo capro espiatorio sotto mano, da mostrare al popolo assetato di vendetta.
Cos’altro aspettarsi da un partito-movimento fondato da un comico novello Savonarola, che ha costruito la sua fortuna sulla base di un liberatorio quanto inutile vaffa?

Per costruire una linea politica che possa trasformarsi in azione di governo di un Paese non è sufficiente definirsi al negativo: non siamo questo ma non siamo neanche quello.
E l’equidistanza tra destra e sinistra, tanto strumentalmente sbandierata (con la scusa che la stessa distinzione non abbia più ragion d’essere nel ventunesimo secolo), si è trasformata rapidamente in una chiara deriva verso destra, visto che il “socio” del contratto ha da portare avanti i suoi punti programmatici su cui si è scelto pilatescamente di non mettere becco. Col risultato che tutta l’azione del Governo gialloverde è fortemente caratterizzata dall’impronta sovranista e anche la politica estera sta prendendo una deriva pericolosa, con l’isolamento dell’Italia nel campo occidentale e la ricerca di un’impossibile sponda coi nazionalisti dell’est, Russia inclusa.

Ora che è a buon punto l’obiettivo, non dichiarato e forse solo inconsciamente perseguito, di traghettare i voti di protesta verso l’approdo finale a destra, il Movimento prova a mantenere almeno un minimo di dignità formale, negando che ci sia una crisi di consenso e distinguendo tra voto politico e voto amministrativo.
Nell’illusione di salvare la legislatura e quindi la propria sopravvivenza, almeno per un po’.
Eccoli allora proseguire senza indugio la loro trionfale corsa verso un radioso futuro di inediti e straordinari successi, spinti dall’usuale propaganda demagogica e dall’esuberante entusiasmo toninelliano.
Chissà, a qualcuno potrebbe ricordare forse la famosa corsa dei lemming.

Tanto il vostro Erasmo dal Kurdistan vi doveva, senza nulla a pretendere.

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