Il nostro primo anno: storia leggendaria della nascita di Latina Città Aperta

Come di consueto nelle occasioni importanti, per dare rilievo al nostro primo anno di vita la redazione della rivista ha organizzato una lotteria per stabilire il nome del malcapitato a cui sarebbe toccato l’onere e l’onore di celebrare questo primo compleanno.
Lasciamo alla vostra immaginazione scoprire a chi è toccata la pagliuzza più corta…

La sera declinava, si sfilacciavano i contorni della cose che erano sul punto di gettarsi in braccio alla notte, e nella combriccola della quale facevo parte, in rapporto inversamente proporzionale al venir meno della luce, aumentava un senso di frustrazione che negli ultimi tempi si era accomodato con piglio fin troppo padronale nella nostra gracile psiche.
A pensarci, è già passato un anno da quella sera.
Scrivere sul Fogliaccio Quotidiano solo in virtù della parentela con uno zio piduista, non mi garantiva certo libertà di azione o trattamenti di riguardo, anzi: ero l’ultima ruota del carro, sempre bloccato sulla soglia di grandi e incisive inchieste, perennemente dirottato su solenni scipitezze che garantivano articoli più che inutili.
Intristivo e mugugnavo, avvertivo fisicamente di avere un fegato. La vita privata? Una sequenza di storie tragicomiche, da sbellicarsi singhiozzando, tutte con parenti cerebroeccentriche della famiglia Addams.
All’epoca vedevo Consuelo solo da lontano.

Consuelo

Non la conoscevo se non di vista, ma incrociandola abbastanza spesso, ogni volta rischiavo di perderla, quella vista, perché lo splendore della ragazza mi abbacinava. Barcollavo e mi sentivo in grado di miagolare in birmano.
Mi ero anche accorto di piccoli fenomeni legati alla sua presenza: il mio cellulare, ad esempio, alla sua comparsa cominciava a propalare, sparandole a tutto volume, le note della Marcia di Radetzsky, suoneria estranea, ed in totale assenza di telefonate. Altre volte mi si squagliava nel taschino del giaccone la penna a sfera da quattro soldi, macchiandomi pure la fedina penale.
All’epoca però, quei fatti inspiegabili erano ancora abbastanza marginali, modesti, depotenziati, forse perchè legandosi sentimentalmente ad un fisico quacchero, scopritore del neutrino mistico, Consuelo aveva in tal modo imbrigliato e infiacchito la sua naturale e possente carica di bellezza.
Con altri soggetti folcloristici, esclusi come me dalla distribuzione di prebende ed onori sociali, avevamo preso l’abitudine di vederci al Bar Babietola, un locale prossimo al centro per abbaiare senza ritegno contro la nazione, contro tutti i suoi abitanti, esclusi noi ovviamente, e contro i loro eterni vizi.

Il famoso Bar Babietola

Eravamo dunque un gruppetto decisamente bilioso nella maggior parte dei suoi componenti.
Lino Predel, celebre brontolatore, esperto cultore di scibili e di ogni genere musicale rispettabile, un uomo spazioso sotto la cui ombra nei giorni piovosi si riparavano a volte delle marmotte apolidi, riusciva a canticchiare la Marcia dell’Aida e sorbire contemporaneamente la sua tisana al cocomero ogm. Era un’impresa doppiamente ragguardevole, considerando che il suo volto eternamente corrucciato, ospitava un nasone di tali proporzioni da lasciar supporre un suo sia pur limitato grado di indipendenza.

La carta d’identità di Lino Predel

Klaus Troföbien, un riccetto con la faccia da elfo, lavorava come fotografo free lance per un pugno di riviste porno. Da tempo non nascondeva la sua insofferenza per quel lavoro che lo metteva a contatto con un numero esorbitante di natiche : “Sarà anche vero che nella vita ci vuole culo – usava dire – ma la mia, che di culi rigurgita, dimostra che bisogna anche beccare quello giusto…”.

La fotocamera Nikon Culpix di Klaus Troföbien

Erasmo dal Kurdistan, reso filosofo da un lavoro troppo prosaico (faceva il revisore dei conti in un’azienda che produceva calzini spaiati), personaggio un po’ appesantito da carboidrati aggressivi, ma agile e lieve di cervello, sentendo quell’aforisma, lo approvava gravemente e buttava giù due righe.

Le due righe buttate giù dalla finestra del suo ufficio da Erasmo

In quelle serate da bar i discorsi da maschi, quelli dal sapore troppo selvatico, cedevano il posto a improvvisi silenzi quando, romantica ed ancora indistinta nella calante luminosità dei tramonti, appariva la sagoma sognante di Fresia Eresia, appassionata di poesia ed essa stessa poetessa di estrazione crepuscolare.
Unica presenza femminile di quella conventicola, faceva il giro del tavolo regalando nuvole ai bizzarri stazionatori.

Fresia Erèsia

L’accigliato Davide Tamlaghtduff, altra presenza abituale, scrittore di bugiardini ed esperto di letteratura kirghiza, era riuscito a sviluppare un peculiare talento: lui riusciva a scriverci sui tramonti, con la sua scrittura sbilenca li affollava con un po’ di tutto, da appunti per romanzi da non pubblicare a nessun costo a buffe ricette di cucina.

L’accigliato Davide Tamlaghtduff

Una volta che si trovava a ranghi completi, quel piccolo gruppo di emarginati cronici, iniziava la sua polifonica filippica contro il mondo e contro la maggior parte di quelli che ne calpestavano la crosta.

Talenti ingabbiati dal bando sociale contro i fuorimodello e dalla loro rampante insoddisfazione, tutti noi eravamo convinti che saremmo morti senza esser stati in precedenza troppo vivi: le nostre rispettive realtà parlavano di lavori sballati e di amori alla muffa, se tali li si poteva definire, facendo torto alle muffe.
Ma quella sera di un anno fa, si sedette al nostro tavolo il mio analista, Professor Cervellenstein, insolitamente amabile perché aveva appena rimorchiato una notevole signora matura, credo che fosse una industriale del settore vinicolo perché da ogni suo gesto si sprigionava un percettibilissimo aroma di Brunello.

Il professor Cervellenstein
Il professor Cervellenstein

La donna non smise per un solo secondo di sorridere, guardando rapita lo psicologo, con lo stesso sguardo col quale un diabetico guarda un Saint Honoré.
Il Professore dopo aver ascoltato una buona mezz’oretta di lamentazioni, di riflessioni in bilico tra il geniale e il neurodisfatto e di spettacolari mugugni collettivi, di botto prese la parola, e sorridendo indulgente, propose:

“Ma perché non mettete le vostre passioni culturali, le vostre amabili defaillances e la vostra bile a disposizione degli altri? Organizzatevi i difetti: fatevi una rivista, sfogatevi ben bene, e con una certa probabilità riuscirete così, almeno per un po’, a tenervi alla larga da professionisti del mio ramo.
Per te,
Tarallo, è troppo tardi naturalmente”.

Come da un anno potete constatare, noi lo abbiamo preso sul serio, lo abbiamo ascoltato. Non so voi, ma tutti i miei colleghi ora sembrano messi un po’ meglio. Solo io continuo con le sue sedute.

Lallo Tarallo

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