Smart Commando. Parte terza

                                                     

Qualche giorno dopo i fatti descritti, Lallo Tarallo, vincendo le proteste e le grida disperate delle sue narici, si accostò alla scrivania del collega Taruffi.
Poco distante da essa, l’ex direttore Lello Rapallo, quasi disteso sulla sua, agonizzava su un pezzo commissionatogli con rara perfidia dal Comandante Supremo, il bituminoso Ognissanti Frangiflutti.
Avrebbe dovuto infatti commemorare con un articolo di tono ultra adulatorio, la ricorrenza astrusa dei 485 anni e tre mesi dalla fondazione della Compagnia di Gesù…

Ma quando mai e dove mai, si era celebrato un accumulo così spurio di anni?
485 e tre mesi – si diceva Rapallo congestionato dalla rabbia – è una cosa da pazzi!
Commemorare una roba del genere sembrava esagerato perfino per una lingua altamente addestrata alla piaggeria come quella di Frangiflutti.
Era più che certo che l’ormai Direttore unico del Fogliaccio, che pure aveva dato il via lui stesso alla sarabanda dei sogni programmati acquistando la poltrona Onyric, e che ne aveva ricavato anche qualche guaio, si beava adesso nel rigirare il coltello nelle sue piaghe, quelle di un poveraccio caduto in disgrazia per averla usata abusivamente mentre era in possesso del potente Mons. Verafé.
Dopo quel fatto, ed in seguito al venir fuori del suo fidanzamento in sogno con Greta Thunberg, la porta della stanza di quel prelato era stata blindata e la Onyric, tenuta sotto chiave, oziava per tutto il giorno, fino all’arrivo del monsignore.

Monsignor Verafé
Monsignor Verafé

Quest’ultimo, ormai, si era tramutato nel gelosissimo custode del magico arredo, fanatico quanto Torquemada lo era stato dell’ortodossia religiosa.
Sul piano operativo, Verafé aveva svecchiato le sue frequentazioni oniriche, piantando Ava Gardner, non senza qualche complicazione dovuta alle tante crisi isteriche della diva, e puntando molte delle sue carte su Scarlet Johansson.
“Ahh, il sorriso di Scarlet”, uggiolava il gesuita di giorno, fremendo in attesa di incontrarla di notte.

Il primo sogno lo aveva sceneggiato a puntino: le si era presentato come Don Luis Verafon, hidalgo di una prestigiosa famiglia messicana di origine spagnola.
Le cose si erano subito messe bene (d’altronde era tutto programmato): condotta dal gesuita mascherato a fare un giro nei suoi possedimenti, la Johansson, inguainata un un vestito pitonesco a scaglie dorate, e splendente oltre la misura consentita dalla legge, aveva apprezzato molto il ranch di Verafé/Verafon, e la sua pretenziosa dimora, colma di oro, di velluti e di trofei cornuti.
L’attrice aveva espresso il suo gradimento con un irresistibile gorgoglio di note basse e rauche, così erogeno che aveva fatto drizzare i peli in testa ad ogni essere maschile nel raggio di sei chilometri quadrati, marmotti e coyotes inclusi.

Uno splendido esemplare di marmotto

Definire semplicemente seduttiva quella donna – aveva pensato, affannato dalla passione, l’hidalgo monsignore – era inadeguato come definire il Diluvio Universale una precipitazione a carattere temporalesco.
Ma questa, ormai ve ne sarete accorti,  è un’altra storia: stiamo divagando e occorre dunque tornare frettolosamente in redazione.
Dalla sua porta chiusa arrivava il ringhio del Direttore Frangiflutti, che sbraitava contro il vicevicevicecaporedattore Mauro Gaglioffi, colpevole di aver progettato e scritto un pezzo sull’annunciato raduno del movimento delle sardine in città.

“Ma direttore – belava Gaglioffi giustificandosi – quel flash mob è una notizia forte. In tutta Italia li hanno fatti, vi hanno aderito milioni di persone riempiendo piazze enormi, e tutti i giornali e le televisioni ne hanno ovviamente parlato.
Ora che sta per accadere nella nostra città pensavo che noi non potessimo saltare un pezzo di tale attualità”.
“Pensare? Pensare? Chi, tu??
Ci sono milioni di attività che ti si addicono di più, come ad esempio fare da maestro di sci di fondo agli scimpanzè, ma quella di pensare per te è cosa che definirei quasi contronatura!”
Non riuscendo a controllarsi, il Direttore aveva perso gli abituali modi melliflui e strillava a tutta tonsilla: “Io sono a capo di un giornale, non sono mica il gestore del ristorante “Da Frangiflutti a’ mare”! Non parlo quindi di sardine, e nemmeno della loro frittura, che pure mangerei volentierissimo: è chiaro Gagliò?
E allora levati di torno, contatta lo zoo e prenota per le tue scimmie una camera a Canazei!

Via dalle scatole!”.

“Come vuole Direttore, benissimo, e mi scusi, mi scusi tanto, non succederà più”.
Così, concluse Gaglioffi, umiliato, avvilito e preoccupato per eventuali ritorsioni nei suoi confronti.
Non appena il vicevicevicecaporedattore si fu allontanato dal suo ufficio e tolto dalla sua vista, Ognissanti Frangiflutti, rimasto solo, tirò fuori dallo scomparto segreto della sua scrivania l’elmo del Partito Vichingo e. ancora un po’ agitato per la rabbia, se lo provò, rimirandosi allo specchio:
“Sardine…!! Ma figurati se proprio io… Se davvero i vichinghi mi faranno concorrere per fare il sindaco, gli farò vedere io la padella a questi innamorati della minoranze!”, sibilò con disprezzo mentre, debitamente adornato di coperchio e corna, andava ammirandosi incondizionatamente.

Lallo, frattanto, muovendosi nella zona cayennesca della redazione, sfilò accanto al disperato Rapallo, che giusto in quel momento stava schiumando al pensiero di dover tessere l’elogio dei gesuiti.
Tarallo, con la dovuta cautela, raggiunse la scrivania di Taruffi.
Il cronista si teneva tra gli artigli cerchiati di nero il suo testone, sormontato da una selva scomposta di grossi capelli sporchissimi.
Era agitato, e in preda allo scoraggiamento.
L’espressione sembrava quella di una bestia spaventata: lui, abilissimo nel tradurre in articoli fotocopia i fatterelli relativi a piccoli furti, a rapine o a uccisioni di tipo passionale, si perdeva se doveva fare un’inchiesta, svelare un mistero, investigare, insomma, in prima persona.
Per quello, ma anche a causa delle sue spiccate peculiarità personali, l’odoroso giornalista stava incontrando difficoltà  insormontabili nel portare avanti le sue indagini sul commando anti Smart.
Una certa signorina Rosanna Papaleo, nota a parecchi suoi affezionati col soprannome de “la Rossona”, di professione passeggiatrice, per via dei suoi orari di lavoro, una notte si era trovata a passare per via Eros Jovanotti appena due minuti dopo che l’assaltatore delle Smart aveva accoltellato le gomme di una di esse.

La signorina Rosanna Papaleo nel suo posto di lavoro

La donna, seppure da parecchia distanza, aveva scorto una sagoma nera fuggire a gambe levate verso Corso Riina, perdendosi poi nell’oscurità.
Anche se non era assolutamente in grado di fornire una descrizione attendibile del misterioso personaggio, quella signorina risultava l’unica testimone oculare di uno dei suoi misfatti.
Il buon Taruffi aveva avuto l’imbeccata dal collega Fracassa della “nera”, che era ben introdotto in Questura, e aveva ottenuto così un appuntamento con la Papaleo per rivolgergli qualche domanda sulla sua avventura, tanto per abbellire l’articolo con una testimonianza diretta, anche se fumosa.

“Guardi Dottor Taruffi – gli aveva spiegato la mondana al telefono– io di giorno dormo. Dovremmo necessariamente vederci alle tre di questa notte.
Può raggiungermi in quella piazzetta che sta a metà di Viale Provenzano, Piazza M.M. Denaro, ha presente?
Naturalmente il suo giornale mi dovrà pagare l’equivalente della mia tariffa intera, più quello che chiedo per gli optionals, perchè per concederle l’intervista rinuncio ad un’oretta di lavoro, mi capisce, no?”
Il cronista aveva ovviamente assentito, seppur disperatamente, visto che lui, non avendo problemi di insonnia, era un tipo capace di russare come un puma imbestialito per dodici ore al giorno.
Delle tre sveglie che aveva caricato, fu quella con la possente ouverture della Radetzky March a farlo saltare dal letto con lo stesso brio di un toast che schizza via dal tostapane.

Anche se era nativo di Frattafrittata, una frazione di Cefalù, Taruffi fu così suggestionato da quella musica solenne che lo aveva strappato al sonno, che appena messosi in piedi, fu quasi sul punto di strillare: “Viva Francesco Giuseppe, nostro Imperatore!!”.
Completamente snebbiato, e senza aver perso tempo in attività degradanti quale il lavarsi, si avviò quindi per le strade fredde e deserte, avvertendo brividi di malinconia.
La signorina Papaleo nel frattempo, dopo un frettoloso e poco esaltante appuntamento intimo, aveva appena congedato Bastiano Grattaporci, di professione addetto alla pulizia dei ganci nel Macello Comunale, suo cliente fisso.

Il pulitore di ganci Bastiano Grattaporci

Col naso ancora arricciato per quel contatto remunerativo ma sgradevole, la donna si aggiustò la gonna, si chiuse  il cappotto, lasciando però bene in vista la generosa scollatura, e si accese una sigaretta, disponendosi all’attesa di quel Baruffi o Tartuffi, o come accidenti si chiamava.
Ad un tratto, portato da un timido venticello, le arrivò alle narici un vago odore di muschio selvatico.
La Papaleo sbuffò infastidita, pensando che non era certo quella la notte ideale per il suo naso: prima le era toccato Bastiano, che si portava sempre appresso l’odore di bestie macellate, ed ora arrivava questa ventatina fastidiosa a contaminare ulteriormente quella notte novembrina.

La signorina a quel punto fece qualche passo, girellò come per scaldarsi e contemporaneamente levarsi dalla scia di quell’odorino.
Si rese conto dopo un po’ che non solo la situazione non accennava a migliorare, ma che la consistenza dell’effluvio era invece aumentata, e che si accresceva di minuto in minuto fino a farsi insopportabile: ora era diventata una vera e propria puzza, il fetore orribile di mille carogne in decomposizione.

Quando quel tanfo, che l’attanagliava, le parve giunto al suo culmine, si trovò di botto dinanzi una figura maschile dall’apparenza tremenda.
La Papaleo fece un balzo: l’uomo, che indossava un cappotto che tre secoli prima aveva dovuto avere un aspetto decoroso, denotava ora una confidenza con acqua e sapone pari a quella che Jovanotti poteva avere con l’intonazione.
Tutto le fu chiaro: aveva individuato la fonte primaria del lezzo atroce che aveva appesantito l’aria frizzante della notte.
Il cronista Taruffi, totalmente inconsapevole dell’effetto che aveva prodotto nella signorina, accennò ad un sorriso che scoprì di colpo un plotone di grossi denti che spiccavano, non proprio bianchissimi, nel sudiciume diffuso di un volto che, per scurezza, si confondeva con la tenebra circostante. 

Moschini e altri buffi insetti gli volavano attorno. Non lo infastidivano più da tempo, era abituato alla loro invadenza.
“La Signorina Papaleo?”, disse l’uomo in tono gentile e con una punta di cordialità.

Ora, la “Rossona” non era certo famosa per essere una tipa schizzinosa, e di solito reggeva benissimo anche l’afrore stallatico di clienti dalla cute caprina, ma in quella circostanza le bastò mezzo secondo per decidere che, al diavolo i soldi, tutto aveva un limite.
Era troppo, anche per una come lei che ne aveva viste e continuava a vederne di tutte.
Ignorò dunque la mano che Taruffi le aveva teso per salutarla e con un grido strozzato, girati i lunghi tacchi, scappò via per Viale B. Provenzano.

Il ticchettio congestionato delle sue scarpe fu l’unica cosa che rimase, solo per un po’, a far compagnia al povero cronista, impietrito sotto ad un lampione.

Col ricordo ancora fresco di questo fiasco, Taruffi alzò gli occhi dal suo Pc aperto su una pagina vuota, e con un tono di sconfortata rassegnazione disse a Lallo che gli chiedeva dell’inchiesta: “Sto a un punto morto, Tarà”.

FINE TERZA PARTE. 

Continua…

Lallo Tarallo, giovane sin dalla nascita, è giornalista maltollerato in un quotidiano di provincia.
Vorrebbe occuparsi di inchieste d’assalto, di scandali finanziari, politici o ambientali, ma viene puntualmente frustrato in queste nobili pulsioni dal mellifluo e compromesso Direttore del giornale, Ognissanti Frangiflutti, che non lo licenzia solo perché il cronista ha, o fa credere di avere, uno zio piduista.
Attorno a Tarallo si è creato nel tempo un circolo assai eterogeneo di esseri grosso modo umani, che vanno dal maleodorante collega Taruffi, con la bella sorella Trudy, al miliardario intollerantissimo Omar Tressette; dall’illustre psicologo Prof. Cervellenstein, analista un po’ di tutti, all’immigrato Abdhulafiah, che fa il consulente finanziario in un parcheggio; dall’eclettico falsario Afid alla Signora Cleofe, segretaria, anziana e sexy, del Professore.
Tarallo è stato inoltre lo scopritore di eventi, tra il sensazionale e lo scandaloso, legati ad una poltrona, la Onyric, in grado di trasportare i sogni nella realtà, facendo luce sulla storia, purtroppo non raccontabile, di prelati lussuriosi e di santi che in un paesino di collina, si staccavano dai quadri in cui erano ritratti, finendo col far danni nel nostro mondo. Da quella faccenda gli è rimasta una sincera amicizia col sagrestano del luogo, Donaldo Ducco, custode della poltrona, di cui fa ampio abuso, intrecciando relazioni amorose con celebri protagoniste della storia e dello spettacolo.
Il giornalista, infine,è legato da fortissimo amore a Consuelo, fotografa professionista, una donna la cui prodigiosa bellezza riesce ad influire sulla materia circostante, modificandola.

Lallo Tarallo è un personaggio nato dalla fantasia di Piermario De Dominicis, per certi aspetti rappresenta un suo alter ego con cui si è divertito a raccontarci le più assurde disavventure in un mondo popolato da personaggi immaginari, caricaturali e stravaganti

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