John Fante, il più grande scrittore italiano d’America

Un giorno qualsiasi del 1978.

Un uomo particolarissimo trascorre un po’ del suo tempo nella Biblioteca di Los Angeles.
E’ uno scrittore, si chiama Charles Bukowski.
Ha un carattere difficile e sprezzante.
Ha avuto molto successo con romanzi e racconti calati nella realtà e nello spirito dell’America dei perdenti, degli eccentrici, degli esclusi e dei renitenti al conformismo.
E’ assai sfiduciato sulla consistenza del quadro letterario statunitense e nauseato dalla pochezza narrativa ed emotiva che a suo avviso lo caratterizza.
E’ in quella biblioteca per cercare qualcosa che lo smentisca, che gli apra una speranza su ciò che potrebbe esprimere la letteratura del suo paese.
Incappa per puro caso nella copia impolverata del libro di uno sconosciuto e ne legge qualche riga.
Sbalordisce: è il segno che aspettava.
Divora il resto delle pagine e si conferma nella sua prima impressione: quel romanzo, “Chiedi alla polvere”, è un capolavoro e il suo autore, un italoamericano di nome John Fante, è “lo scrittore più maledetto d’America”.

Charles Bukowski

Bukowski dopo quella folgorazione cerca di informarsi su Fante.
Ha in mente di proporre, o meglio, di imporre, alla propria casa editrice, la Black Sparrow, di pubblicarne l’intera opera.
Viene a sapere che Fante se la passa malissimo: è ricoverato in ospedale, ha una forma gravissima di diabete che in breve lo porterà alla cecità.
I medici successivamente saranno costretti anche ad amputargli le gambe.
Bukowski va a trovarlo: lui, lo scrittore più estremista e cattivo d’America, arriva a quell’incontro emozionato come un bambino; per lui John Fante è il migliore autore mai letto e si è spinto fino al punto di definirlo “il mio Dio”.
Fante, che davanti ha poco da vivere, è gratificato dall’apprezzamento di quel collega famoso, gli da nuove speranze per una generale rivalutazione della sua opera letteraria, il cui valore fino a quel momento è stato del tutto misconosciuto.
Bukowski scrive un’appassionata prefazione per “Chiedi alla polvere” e per costringere la Black Sparrow a ripubblicarlo, arriva a minacciarla di non consegnargli il suo nuovo, attesissimo libro.
La casa editrice cede, il romanzo viene ristampato e l’opera di John Fante finirà per trovare finalmente il consenso che merita.
Sia pur tardivamente, e per uno scampolo di tempo, lo scrittore italoamericano potrà godere del riconoscimento da sempre agognato.
Ma chi era John Fante, chi era stato fino ad allora, e come era arrivato in quel letto d’ospedale?

John Fante

Era nato l’8 aprile del 1909 a Boulder, nel Colorado.
Il padre, Nicola Fante, immigrato abruzzese, era giunto in America da Torricella Peligna, in provincia di Chieti, trovando lavoro come muratore; sua madre Mary Capolungo, era anch’essa di origine italiana, essendo i suoi genitori lucani.
Per il giovane John la vita non si  presentava semplice e questa difficoltà, in cui era pienamente immerso,  lo portò a vivere un’infanzia turbolenta.
Studiò, comunque, riuscendo a diplomarsi e anche ad iscriversi all’Università del Colorado.
La condizione di povertà familiare ed i dissapori col padre fecero però tramontare precocemente il suo sogno di poter completare gli studi universitari.
Lui aveva ben chiaro di non voler ripercorrere le orme paterne, sapeva con certezza di non voler avere niente a che fare con cazzuola, calce e mattoni, e semmai, da lettore appassionato, aspirava fortemente a scrivere.
In una biblioteca aveva rubato una copia di “Fame”, il romanzo del premio Nobel norvegese Knut Hamsun, leggendolo e rileggendolo.
Il suo sogno era divenuto quello di trovare attraverso la scrittura, la medesima affermazione letteraria.
Dopo aver svolto vari lavori precari, John decise infine di seguire la sua vocazione: per farlo doveva necessariamente abbandonare il Colorado e la sua famiglia d’origine.

Nel 1930 arrivò dunque a Los Angeles, intenzionato a dedicarsi seriamente alla scrittura.
Si stabilì a Bunker Hill, il quartiere che farà poi da sfondo a molti dei suoi scritti.
“Dagos” o “Greasers(unti, per via della brillantina): così venivano chiamati gli immigrati italiani all’epoca della giovinezza di Fante, fatti oggetto di una accentuata discriminazione sociale.
In lui si mescolavano la cultura americana natale e quella italiana, di derivazione familiare, ed il constatare che questa sua discendenza costituiva un fattore discriminante, rafforzò la sua consapevolezza e il suo orgoglio per le radici.
L’Italia, infatti, sarà per Fante un punto di riferimento non solo culturale: quella eredità, oltre che in molti dei suoi personaggi, entrerà materialmente nell’impianto stilistico delle sue opere, zeppe di parole italiane, di difficile comprensione per molti americani.
Le sue prime esperienze letterarie furono favorite dalla perspicacia di un critico letterario, Henry Louis Mencken, che nel 1932 pubblicò sulla rivista “The American Mercury” il primo racconto di Fante, “Il chierichetto”.

Henry Louis Mencken

Questo esordio narrativo segnò l’inizio di una lunga collaborazione tra i due e Mencken ospiterà sul suo periodico molti altri racconti di Fante, scritti che già contenevano pienamente gli elementi che connoteranno l’ambito narrativo dello scrittore, in primis la sua capacità di descrivere spaccati di realtà con fedeltà, incisività e un vago e sottinteso umorismo, puntando sempre sul risvolto interiore dei personaggi.
In lui si era manifestata forte l’influenza della letteratura russa e di Dostoevskij in particolare, e Fante ne fu cosciente al punto di ammettere:

”Dostoevskij mi cambiò. Mi rivoltò come un  guanto. Capii che potevo respirare, potevo vedere orizzonti invisibili. Volevo pensare e sentirmi come Dostoevskij. Volevo scrivere”.

Non a caso, infatti, lo studioso di letteratura Marco Vichi ha scritto che poteva azzardarsi a paragonare l’opera di Fante alla letteratura russa, non certo per una questione di forma, ma perché come gli autori russi, lo scrittore italoamericano partiva dal basso, dalla terra, dalla concretezza della vita.
Il primo soggetto al quale lavorò Fante, già vedeva muoversi in primo piano quello che sarebbe stato il principale protagonista delle sue opere, il suo alter ego letterario, Arturo Bandini.

Il personaggio figurava infatti in due manoscritti, i suoi romanzi “La strada per Los Angeles” e “Aspetta la primavera Bandini”, che non solo non vennero pubblicati, ma che furono criticati ferocemente dagli editori per le immagini troppo esplicite e per il rapportarsi diretto dello scrittore alla realtà, senza adottare alcuna autocensura.
In quelle opere, nelle quali erano evidentissimi gli elementi autobiografici, si poteva riscontrare un coraggio stilistico ed una qualità di scrittura che non erano certo merce comune in quell’America, eppure i due romanzi sarebbero stati pubblicati solo quarant’anni dopo, unicamente per merito di Bukowski, dalla già ricordata casa editrice Black Sparrow.
Già all’inizio degli anni Trenta Fante, avendo compreso perfettamente di non poter campare di sola  letteratura, aveva trovato comunque un buon mezzo per vivere: fare lo sceneggiatore per la fiorente industria cinematografica americana.
Era del resto nel posto giusto per farlo, Los Angeles, e scrivere sceneggiature per i film gli garantì una vita discretamente agiata, permettendogli di mantenere la moglie, Joyce, ed i quattro figli che nacquero dal loro matrimonio.

Joyce Smart Fante

La sua aspirazione di fondo, tuttavia, delusa per troppo tempo, era quella di venire apprezzato soprattutto per il suo sforzo letterario.
Non amò mai il mestiere che pure gli permetteva di vivere bene, e riconobbe di “aver venduto l’anima a Hollywood ed al business cinematografico”, ma fu proprio quel lavoro a portarlo a collaborare anche col produttore De Laurentis, permettendogli così di visitare l’Italia, paese per il quale, consapevole, come si è detto, del peso delle proprie origini, aveva sempre avuto una sorta di venerazione.
Viaggiò con piacere tra Napoli e Roma, ma a causa della forte tensione emotiva che scatenava in lui l’idea di visitare il luogo natale di suo padre, non riuscì a metter piede a Torricella Peligna.

Torricella Peligna – panorama –

Sembra addirittura che si fosse fatto portare in automobile fino al paese, ma che appena vi fu entrato, avesse chiesto all’autista di tornare indietro, tanto forte era la sua paura di trovare un luogo totalmente diverso da quello dei racconti sentiti nella sua infanzia.
Nel 1939 era uscito “Chiedi alla polvere”, uno dei suoi capolavori, ma l’accoglienza di pubblico e critica era stata fredda, tale da far sì che Fante fosse ancora costretto a relegare la sua produzione letteraria in un ambito secondario rispetto al suo lavoro per il cinema.
Il romanzo, comunque, era straordinario, calato com’era all’inizio della Grande Depressione, duro e commovente ad un tempo, appassionante, e con una grande caratterizzazione del suo protagonista.

Il giovane Arturo Bandini, aspirante scrittore, nella consapevolezza della sua inferiorità sociale, tra rabbia e cattiveria frustrata, compie la sua difficile educazione sentimentale invaghendosi di una cameriera messicana, con la quale però non saprà rapportarsi.
Accantonato ancora una volta il sogno di un’affermazione letteraria, Fante continuò comunque a scrivere racconti e romanzi, anche se i suoi redditi seguitarono a derivare dalla sua attività principale, quella di sceneggiatore. Dopo i due titoli citati Fante, da bravo “dago”, sempre cosciente dei problemi di discriminazione  etnica, si mise in mente di scrivere un libro ambientato nella comunità filippina di Los Angeles, comunità che lui aveva imparato a conoscere già all’epoca del suo arrivo in California.
Nonostante avesse stretto accordi editoriali ed iniziato la stesura dell’opera, che avrebbe dovuto chiamarsi “The Little Brown Brothers”, il romanzo venne bocciato dalla casa editrice e non vide mai la luce.
Questa nuova amarezza fece sì che lo scrittore si allontanasse dalla letteratura per più di dieci anni.

Quando, ormai nel 1952, pubblicherà “Full of Life”, questo romanzo, che segnava il suo ritorno narrativo, fu il primo dei suoi a riscuotere un certo successo.
Nel 1977 uscì l’altro suo capolavoro, “La confraternita dell’uva”.
Il libro era uno dei suoi romanzi più esplicitamente autobiografici: Fante, in sostanza, vi descriveva la storia di suo padre e dei suoi difficili rapporti con lui.
Il una lettera del 1974 a Carey Mc Williams, lo scrittore accennava all’opera che stava scrivendo come “la storia di quattro italiani vecchi e ubriaconi”.
Attraverso la figura dell’ex muratore Nick Molise, dei continui conflitti familiari con la moglie e i figli, dei suoi progetti irrealizzabili e della sua estrema comprensione dei propri fallimenti e dei propri limiti, dipingeva un ritratto impietoso e realistico dei Fante e della personalità del loro capofamiglia.
La saga di Arturo Bandini, principale antieroe protagonista di quasi tutti i suoi romanzi, fu conclusa qualche anno dopo.
Fante, cieco a causa del diabete, ma ostinatamente teso ad onorare fino in fondo la sua vocazione letteraria, non potendo più scrivere, detterà a sua moglie la sua ultima opera.

Joyce e John

In “Sogni di Bunker Hill”, libro anch’esso più che autobiografico, Bandini racconta il suo lavoro di screenplayer, mestiere remunerativo ma che lo lascia insoddisfatto.
Ad onta delle condizioni drammatiche col quale venne composto, questo romanzo, che, come si è ricordato, sarà il suo ultimo, mostrava un Fante in piena forma, brillante, ironico ed incisivo.
A poca distanza di tempo dal suo già menzionato incontro con Charles Bukowski, che gli permise di vedere ripubblicato il suo maggiore romanzo, John Fante morì nella stanza di una clinica a Woodland Hills, un sobborgo di Los Angeles.
Era il maggio del 1983.

Dopo la sua scomparsa, come spesso accade, nel corso dei decenni, tutta la sua opera venne rivalutata, conoscendo un vasto successo internazionale.
Suo figlio Dan, che avrebbe ripercorso le sue orme, diventando anche lui scrittore, nel suo “Fante-A memoir”, ha ricordato quando suo padre gli parlò per la prima volta del suo mestiere di elezione: 

“Non me ne frega niente se il mio lavoro è commerciale o no. Lo scrittore sono io. Se quello che scrivo è buono, allora le persone lo leggeranno. È per questo che esiste la letteratura. Un autore mette il suo cuore e le sue palle sulla pagina. Per tua informazione, un buon romanzo può cambiare il mondo. Tienilo bene in testa quando ti metti di fronte a una macchina da scrivere. Non perdere mai tempo in qualcosa in cui non credi neanche tu”.

Piermario De Dominicis, appassionato lettore, scoprendosi masochista in tenera età, fece di conseguenza la scelta di praticare uno sport che in Italia è considerato estremo, (altro che Messner!): fare il libraio.
Per oltre trent’anni, lasciato in pace, per compassione, perfino dalle forze dell’ordine, ha spacciato libri apertamente, senza timore di un arresto che pareva sempre imminente.
Ha contemporaneamente coltivato la comune passione per lo scrivere, da noi praticatissima e, curiosamente, mai associata a quella del leggere.
Collezionista incallito di passioni, si è dato a coltivare attivamente anche quella per la musica.
Membro fondatore dei Folkroad, dal 1990, con questa band porta avanti, ovunque si possa, il mestiere di chitarrista e cantante, nel corso di una lunga storia che ha riservato anche inaspettate soddisfazioni, come quella di collaborare con Martin Scorsese.
Sempre più avulso dalla realtà contemporanea, ha poi fondato, con altri sognatori incalliti, la rivista culturale Latina Città Aperta, convinto, con E.A. Poe che:
“Chi sogna di giorno vede cose che non vede chi sogna di notte”.

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