Porzûs, la rabbia e la vergogna

                                

Come da sempre accade, anche quest’anno, in coincidenza coi giorni in cui avvenne, ci si è dimenticati di ricordare l’Eccidio di Porzûs, una vicenda che rappresentò purtroppo la parte più torbida e meno nobile di quella gloriosa Resistenza che portò a liberare il nostro Paese dai nazi-fascisti.
Alle malghe di Porzûs infatti, il 7 febbraio del 1945, iniziò il massacro a tradimento dei partigiani italiani della “Osoppo” da parte di alcuni partigiani italiani comunisti, un massacro protrattosi ancora nelle settimane seguenti con crudeltà e cinismo. 

Tra le vittime, oltre a ragazzi provenienti da varie regioni d’Italia, finirono anche alcuni tra i personaggi più noti della Resistenza friulana: Francesco De Gregori, Gastone Valente e Guido Pasolini, fratello di Pier Paolo, il quale in seguito a questo episodio, non riuscì mai ad elaborare il conflitto doloroso tra i suoi sentimenti personali e quelli politici. 

Francesco De Gregori (Bolla), Gastone Valente (Enea) e Guido Pasolini (Ermes)

Alla “Osoppo”, impegnata nella lotta al nazi-fascismo, veniva imputato di opporsi alla penetrazione slavo-comunista, prevista fino al Tagliamento.
Per questo motivo recondito sulla “Osoppo” piovvero così, preventive e false, le accuse di tradimento, di complicità coi fascisti e con la X Mas di Borghese. 

Questo avrebbe continuato a scrivere, ancora nel 1976, Mario Toffanin, detto” Giacca”, il capo responsabile dell’eccidio, rifugiatosi nella Jugoslavia titina e mai pentitosi, in una lettera a Don Redento Bello.
Ancora nel settembre 1997 il settimanale L’Espresso ricordava che, oltre alla strage di Porzûs, gravavano su “Giacca” sentenze per capi d’imputazione pesanti, quali estorsioni, rapine, omicidio, crimini comuni, quelli, senza alcuna motivazione politico-ideologica.
Toffanin non venne mai meno a toni di una certa violenza ideologica, e con tutto ciò non mancò di estimatori pronti a rilanciarla ad ogni minimo progresso dei difficili intenti di pacificazione. 

Nel febbraio 2005, ad esempio, venne ripubblicata da un collettivo comunista una sua intervista apparsa già nel 1998 vertente sulla verità di Porzûs, la cui introduzione redazionale interpretava la strage degli osovani come “espressione di fatto della contraddizione tra il campo proletario e il campo borghese”, e vedeva la “Osoppo” all’origine d’una linea di sangue e stragi progettata dallo Stato borghese, tanto lunga da arrivare fino alla strage di Piazza Fontana!
Toffanin da par suo auspicava ancora di riorganizzarsi per la rivoluzione e “avere un partito comunista e anche un esercito, dei combattenti proletari”.

L’eccidio di Porzûs, perpetrato nel febbraio del 1945 dai partigiani gappisti guidati da Toffanin, nei confronti dei partigiani della Brigata Osoppo, guidata da Francesco De Gregori, zio del cantautore, trovava il vero movente nel fatto che la brigata, oltre che contro i nazifascisti, si batteva anche contro l’annessione alla Jugoslavia di parti del Friuli e della Venezia Giulia, annessione ben vista invece dai comunisti. 

Dopo l’eccidio ed in seguito alla denuncia da parte del Comando Divisioni Osoppo, Toffanin fu costretto a fuggire in Jugoslavia, dove ricevette un’alta onorificenza come veterano della guerra partigiana.
Nel 1952 si era trasferito in Cecoslovacchia a causa dell’uscita della Jugoslavia dal Cominform, nel frattempo in Italia venne condannato in contumacia all’ergastolo per i fatti di Porzûs, insieme ad altri dirigenti del Pci udinese.

L’alta onoreficenza jugoslava “Partizanska spomenica”

Nel 1978 il neoeletto Presidente della Repubblica Sandro Pertini gli concesse la grazia.
In seguito a questo fatto si rese visibile un aspetto paradossale della vicenda:

la Repubblica Italiana, nata dalla Resistenza, avrebbe pagato la pensione a Toffanin, un condannato all’ergastolo per una strage perpetrata ai danni di valorosi partigiani italiani, primo tra tutti il già citato De Gregori, partigiano Medaglia d’oro al Valor Militare!

Tornando all’epoca dei fatti, va ricordato che lo sloveno Edvard Kardelj, un importante collaboratore di Tito, in una lettera del 9 settembre 1944 inviata alla direzione del PCI Alta Italia tramite Vincenzo Bianco, (uomo prescelto da Togliatti come delegato del partito presso il Fronte di Liberazione Sloveno), scrisse che all’interno delle formazioni partigiane italiane occorreva 

“fare un repulisti di tutti gli elementi imperialisti e fascisti”. Con riferimento alle zone di operazioni del IX Korpus, così proseguì: “Non possiamo lasciare su questi territori nemmeno un’unità nella quale lo spirito imperialistico italiano potrebbe essere camuffato da falsi democratici”, auspicando il passaggio dell’intera regione alla nuova Jugoslavia: “Gli italiani saranno incomparabilmente più favoriti nei loro diritti e nelle condizioni di progresso di quel che sarebbero in un’Italia rappresentata da Sforza, ministro del governo provvisorio”. 

Edvard Kardelj, a sinistra, e Tito, a destra,
durante la Seconda Guerra Mondiale

Rispetto alla Osoppo, rilevò che fosse “sotto una forte influenza di diversi ufficiali badogliani e politicamente guidata dai seguaci del Partito d’Azione
A seguito della lettera, Bianco intraprese, a nome del PCI, una serie di colloqui coi rappresentanti del comitato centrale del PCS.
Il 17 settembre inviò una lettera a Togliatti nella quale rivelò d’aver acconsentito alla cessione delle zone reclamate dagli sloveni: 

“Non potevo oppormi alle giuste rivendicazioni nazionali di un popolo, che da tre anni combatte eroicamente contro il nostro comune nemico e non potevo dividere…la città di Trieste e altri centri dal loro naturale retroterra”. 

 Il 24 settembre Bianco spedì alle federazioni del PCI di Gorizia, Trieste e Udine, al commissario politico delle formazioni Garibaldi Friuli Mario Lizzero “Andrea” e al comitato centrale del PCS una lunga missiva riservatissima, firmata a nome del Comitato Centrale del PCI, che riproponeva i postulati di Kardelj.

Mario Lizzero “Andrea”

Non solo i destini della Slavia veneta, ma quelli dell’intera Venezia Giulia e di Trieste erano chiaramente delineati:

Trieste, come tutti gli italiani veramente democratici antifascisti, avranno un migliore avvenire in un paese dove il popolo è padrone dei propri destini, che non in un’Italia occupata dai nostri alleati anglo-americani…domani, quando la situazione dell’Italia sarà cambiata, quando il popolo nostro sarà anch’esso libero e padrone dei propri destini, il problema di Trieste e di voi tutti sarà risolto, nei modi e sull’esempio della Unione Sovietica”.

Il 13 ottobre 1944, sulle pagine dell’organo ufficiale del PCI Alta Italia fu pubblicato un lungo articolo anonimo dal titolo “Saluto ai nostri amici e alleati jugoslavi», nel quale si annunciava che «le forze popolari del Maresciallo Tito, appoggiate dal vittorioso Esercito Sovietico» avrebbero iniziato delle «operazioni di grande respiro… anche nella «Venezia Giulia … e [nei] territori dell’Italia Nord-Orientale.”
Salutando “quest’eventualità come una grande fortuna per il nostro paese”, il giornale comunista invitava ad “accogliere i soldati di Tito non solo come liberatori allo stesso modo in cui sono accolti nell’Italia liberata i soldati Anglo-Americani, ma come dei fratelli che ci hanno indicato la via della rivolta (…) e che ci portano (…) la libertà”.

Durante il tragico inverno del 1944-45, la Resistenza nell’area friulana era animata da formazioni garibaldine e dai reparti dalla divisione Osoppo, tutti duramente attaccati dalle truppe tedesche e fasciste.

Alcuni partigiani della Divisione Osoppo – dal sito ANPI

Le forze partigiane slovene chiesero ai reparti italiani di passare sotto il loro controllo, al fine di coordinare meglio la lotta.
I garibaldini accettarono per ragioni politiche e militari, e così la divisione Garibaldi Natisone, già operante in stretto coordinamento con gli sloveni ma anche, sulla base di un comando unificato, con le Osoppo, passò sotto la dipendenza del IX korpus e si trasferì in Slovenia.
La Prima Brigata Osoppo, guidata dal capitano Francesco De Gregori, insieme con un delegato politico democristiano, Alfredo Barzanti, ed un azionista, Gastone Valente, si stanziò, invece, sulle Prealpi Giulie, nelle malghe di Porzûs, e restò isolata.
A quel punto, i rapporti tra garibaldini e osovani si fecero tesissimi: De Gregori accusava i comunisti di essere “nemici occulti”, mentre l’Osoppo era accusata “non solo di patteggiamenti col nemico ma di avere ucciso direttamente, o informando il nemico, decine di garibaldini”.

Partigiani della Osoppo a Porzûs

Si trattava di accuse infamanti e infondate, sostenute in rapporti inviati al PCI di Udine e ai comandi delle Garibaldi, ma non al CLN provinciale, spediti da Toffanin, un “estremista fanatico” legato agli sloveni e al PCI udinese, già responsabile di aver abbandonato, con il proprio reparto e senza ragione, il settore a lui affidato nella zona libera del Friuli orientale.
Il PCI di Udine, che aveva salvato Toffanin dalla fucilazione alla quale era stato destinato dal comando della Garibaldi Natisone, condivise le accuse alle Osoppo.

Il 7 febbraio 1945, cento garibaldini di un reparto guidato da Toffanin, si finsero partigiani sbandati, salirono alle malghe di Porzûs e uccisero De Gregori, Valente, una donna e perfino un partigiano garibaldino che, scappato da un treno che lo stava deportando, aveva avuto l’ordine di raggiungere il comando partigiano più vicino, che era appunto quello di De Gregori.

Aldo Bricco, nuovo comandante della Prima Brigata Osoppo, poiché De Gregori era stato da poco nominato capo di stato maggiore della formazione, si salvò per puro caso; altri 14 partigiani osovani furono portati a valle e uccisi nei giorni successivi.

28 gennaio 1945: informativa da parte della prefettura di Udine della RSI sul rifiuto della Osoppo «di aggregarsi alla formazioni titine» e sulle presunte trattative fra SS tedesche, Decima Mas e Osoppo.

La presenza della donna, Elda Turchetti, fu il pretesto con cui “Giacca” giustificò la strage.
L’estrema povertà della famiglia aveva spinto la donna a ricercare un lavoro meglio remunerato: su indicazione di un compaesano, “Franco” Trangoni, all’inizio dell’estate del 1944 abbandonò il cotonificio dove lavorava essendo stata segnalata per una occupazione presso i tedeschi. 

La Turchetti entrò in contatto con Mauro Pietro di Reana del Rojale (UD), un collaborazionista della zona, che le spiegò le sue mansioni: spiare le persone che di volta in volta le fossero state indicate.
Secondo però quanto affermò in seguito la stessa Turchetti, lei avrebbe rifiutato quel compito e si sarebbe limitata a portare solo del denaro o dei messaggi.

Elda Turchetti

La sua attività con i tedeschi durò dalla fine di giugno alla fine di luglio del 1944, dopo di che lasciò il lavoro e ne trovò un altro come lavabiancheria a Udine.
A fine novembre del 1944 qualcuno la denunciò ai partigiani e, tramite la polizia garibaldina di Colugna e la missione alleata inglese presso i partigiani friulani, il nome della Turchetti venne segnalato da Radio Londra come “pericolosa spia dei tedeschi”.
La donna venne immediatamente informata della cosa e il 9 dicembre 1944 si presentò di sua iniziativa “a un capo garibaldino di sua conoscenza”, probabilmente Attilio Tracogna, “Paura”, che la condusse al comando della GAP di Siacco comandata da Adriano Cernotto, “Ciclone”, il quale, non sapendo quali decisioni prendere, la riconsegnò a “Paura”.

La Turchetti venne accompagnata quindi a Canalutto (UD) dall’osovano Agostino Benetti, “Gustavo”, dipendente dal responsabile dell’Ufficio Informazioni della Osoppo Gruppo Brigate dell’Est, Leonardo Bonitti detto “Tullio”. 

Il giorno 11 dicembre la Turchetti venne interrogata proprio da “Tullio”, in seguito fu affidata all’osovano Ivo Feruglio “Marinaio”, che il 13 l’accompagnò alle malghe di Topli Uork sopra Porzûs, dove aveva sede il comando del Gruppo, agli ordini di De Gregori “Bolla”.

Mappa di Topli Uork

Con gli osovani Elda Turchetti rimase fino al giorno in cui fu uccisa dai gappisti di Mario Toffanin, venendo impiegata prevalentemente per cucinare e per altre incombenze logistiche.

Solo negli anni settanta è emersa dall’archivio di Lubiana la documentazione sequestrata dai gappisti a Topli Uork, contenente un “Verbale di assoluzione in istruttoria” del 1º febbraio 1945, dal quale si ricavava che quel giorno Elda Turchetti venne pienamente assolta dalle accuse rivoltelein quanto dopo un mese di servizio al soldo del nemico, disgustata da tale servizio, lo aveva abbandonato, in quanto… non aveva compiuto alcuna azione che avesse danneggiato la lotta partigiana e in quanto aveva chiesto di riabilitarsi entrando nell’Osoppo”.
A questo punto la donna venne regolarmente inquadrata fra i partigiani della Osoppo col nome di “Livia” e il numero di matricola 1755. 

Nel 2012 il presidente Napolitano rendendo omaggio alle vittime di Porzûs contribuì a dissolvere un’antica e inaccettabile omertà politico-ideologica e a ricomporre istituzionalmente la memoria storica della Resistenza in Friuli, memoria andata in pezzi nel clima di faziosità ideologica del dopoguerra.

La storia era fin troppo nota, ma impossibile da far circolare in quel primo dopoguerra nel quale si avvertivano i prodromi di una guerra civile: “Benché mandante di tale eccidio sia stato il comando sloveno del IX Korpus, gli esecutori però, erano gappisti dipendenti anche militarmente dalla Federazione del Pci di Udine”. 

A testimoniarlo fu un loro esponente di spicco, Giovanni Padoan, “Vanni”, poi protagonista dal 2001, con don Redento Bello, cappellano della “Osoppo”, di un percorso di pacificazione che non ebbe purtroppo un seguito politico.

Giovanni Padoan

Una toccante lettera dattiloscritta, fu ritrovata tra le carte di Pierpaolo Pasolini da Antonella Giordano mentre curava per Garzanti la nuova edizione dell’epistolario del poeta, scrittore e regista.
Risaliva al maggio 1945, quando arrivò la notizia ufficiale della morte di Guido, suo fratello partigiano, ucciso durante l’eccidio di Porzûs:

Pierpaolo Pasolini

“Il dolore più straziante ci è nato quando abbiamo visto una tua fotografia di quando avevi quattordici anni; quel tuo viso che m’assomiglia, con gli occhi cerchiati e un’espressione patita di ragazzo robusto ma troppo entusiasta, ci ha gettato nel cuore un impeto, una rabbia di pianto, come se tutto il nostro passato comune ci avesse sommerso. Hai udito come la mamma gridava, chiamandoti? Ora essa è qui, seduta, che tace. Se tu la vedessi, come la riconosceresti! L’infinito dolore che le hai dato non l’ha segnata, è sempre la nostra giovinetta, col suo viso carissimo della mattina, quando non ha ancora fatto la toeletta, e sfaccenda e s’affatica per casa.

È lì che tace, con uno di quei suoi fazzoletti chiari sul capo; tu la riconosceresti, perfettamente, non è mutata per nulla; ma forse ti riuscirebbe un po’ nuova, come a me, quella sua espressione, soprattutto della bocca, che è forse un atteggiamento di dolore, ma io m’illudo, mi sforzo a credere che sia una specie di sorriso. Non sono passati che due notti e un giorno da che abbiamo saputo della tua morte, e una sola notte da quando quella tua fotografia ci ha dato per un attimo la sensazione, la divinazione dell’immensità del nostro dolore.

E quindi tu ti meraviglierai come io possa aver preso la penna in mano, e incominciato a scriverti; me ne sarei meravigliato anch’io, solo tre giorni fa, benché coi pensieri di questa specie mi sia da molti mesi approfondito. Ma a che serve la nostra meraviglia? Ecco una realtà: tu laggiù un giorno di questo inverno, morto su un prato, o chissà dove; ed ecco un’altra realtà: io che ora, in questa stanzetta di Versuta, che tu hai conosciuto quando non vi avevamo ancora trasportato i mobili, io che ora ti scrivo.

Dobbiamo arrenderci. E la resa, si vede, è necessaria; viene dal nostro corpo medesimo, quello che tu non hai più, ed io ho. È necessario poiché scrivendoti non penso che tu sia morto, ma vivo, anche se immancabilmente diverso da quel ragazzo che fu mio fratello, e che ho visto perfettamente, carnalmente, fatalmente tale nella fotografia”.

Lino Predel non è un latinense, è piuttosto un prodotto di importazione essendo nato ad Arcetri in Toscana il 30 febbraio 1960 da genitori parte toscani e parte nopei.
Fin da giovane ha dimostrato un estremo interesse per la storia, spinto al punto di laurearsi in scienze matematiche.
E’ felicemente sposato anche se la di lui consorte non è a conoscenza del fatto e rimane ferma nella sua convinzione che lui sia l’addetto alle riparazioni condominiali.
Fisicamente è il tipico italiano: basso e tarchiatello, ma biondo di capelli con occhi cerulei, ereditati da suo nonno che lavorava alla Cirio come schiaffeggiatore di pomodori ancora verdi.
Ama gli sport che necessitano di una forte tempra atletica come il rugby, l’hockey, il biliardo a 3 palle e gli scacchi.
Odia collezionare qualsiasi cosa, anche se da piccolo in verità accumulava mollette da stenditura. Quella collezione, però, si arenò per via delle rimostranze materne.
Ha avuto in cura vari psicologi che per anni hanno tentato inutilmente di raccapezzarsi su di lui.
Ama i ciccioli, il salame felino e l’orata solo se è certo che sia figlia unica.
Lo scrittore preferito è Sveva Modignani e il regista/attore di cui non perderebbe mai un film è Vincenzo Salemme.
Forsennato bevitore di caffè e fumatore pentito, ha pochissimi amici cui concede di sopportarlo. Conosce Lallo da un po’ di tempo al punto di ricordargli di portare con sé sempre le mentine…
Crede nella vita dopo la morte tranne che in certi stati dell’Asia, ama gli animali, generalmente ricambiato, ha giusto qualche problemino con i rinoceronti.

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