Tarallo e la Santa impazienza, parte seconda

Non chiusero occhio per tutta la notte, Lallo e Consuelo, un po’ per le loro gioiose effusioni d’amore e un po’ per l’assurdità di ciò che avevano visto: quale forza può mai spingere una raffigurazione, tanto più una raffigurazione sacra, la figura centrale di un importante dipinto, a far di testa sua e cambiare posizione?

Consuelo, dopo l’ultimo di mille baci, quello della buonanotte, si addormentò serena..
Tarallo a quel punto tentò di sfruttare il silenzio notturno per riflettere sul mistero dell’effige del santo irrequieto e fare un po’ il punto della situazione, ma si accorse presto di non poter contare sulla quiete di cui solitamente si ammanta la notte.

Lo schiocco, secco e ritmato, della frusta della Rossa, che forniva i suoi servigi anche ai sadomasochisti d’antiquariato, pur non bloccandolo, disturbava, infatti, il corso dei suoi pensieri, che venivano fuori un po’ alla rinfusa.
Per secoli e secoli – ragionava – qualsiasi santo che fosse stato ritratto nell’esemplare condizione del martire, qualunque figura alla quale un pittore avesse fatto assumere una posa adeguata al supplizio inflittogli, aveva sopportatato pazientemente le inevitabili conseguenze dell’esercizio della sua particolarissima professione.

Ogni martire dipinto che si rispettasse, insomma, nel lungo corso della sua vita di opera d’arte, se ne era rimasto buono buono a far da testimone ad una fede che era stata così forte e coerente, da aiutarlo a patire, da vivo, i più stravaganti e dolorosi oltraggi, parti orribili di una fantasia sadica pressoché inesauribile.

Gli artisti con le loro opere avevano regalato a quelli che si erano immolati sull’altare del proprio credo religioso, un’immortalità iconografica che parlava ai fedeli di animo semplice ancor più efficacemente della narrazione delle loro sante vite, orale o scritta, che fosse.
I pittori del passato, bisognava riconoscerglielo, per quanto atteneva ai supplizi dei santi, erano sempre stati, come si dice, “sul pezzo”, non negando a nessun martire un’istantanea più o meno raccapricciante del suo violento trapasso da questo mondo.

Giusto le carneficine di massa, come quelle subite dai primi cristiani, dati in pasto alle belve, erano rimaste per lo più ignorate dal pennello eternatore dei pittori.
Probabilmente una questione legata al numero rendeva più difficile la rappresentazione del martirio, oltre che certamente meno efficace: di solito ci si concentra più sulla singola storia di un martire che sui supplizi collettivi, quelli celebrati senza fantasia e senza orribili raffinatezze, buttati giù con una fretta industriale.
Quali che ne fossero le ragioni, da sempre funzionava così, ed in tal modo l’ingiustizia nei confronti dei tantissimi sacrificati in massa, permaneva.
“Se fossi il parente di uno di quei disgraziati fatti morire, a centinaia alla volta, nei circhi romani, e poi costantemente ignorati dagli artisti, – si era sempre detto Tarallo – avrei fatto gruppo con tutti gli altri, avrei agito di concerto con essi.
Sono certo che i discendenti dei martirizzati di massa siano tantissimi, una sfilza di persone: fossi stato in loro, avrei promosso una class action nei confronti del Sindacato Pittori con richieste di indennizzo miliardarie…”.

Tarallo, come si vede, si era un po’ perso in queste elecubrazioni su arte e martirio, aveva insomma divagato, così tutto quel che aveva elaborato non favoriva il suo tentativo di diradare il mistero dell’effige di un martire che, evidentemente alticcia, si era ribellata all’angusto spazio della sua raffigurazione pittorica.
Cercò dunque di tornare in tema.
I santi raffigurati mentre subivano il supplizio, di norma erano infinitamente meno mobili del San Sebastiano ritratto nel quadro di Strappoli di Sotto; loro, da sempre, accettavano la loro sorte, patendo e stando zitti e fermi, con un senso del dovere così forte che poteva pure essere equivocato.
A volte, lo si capiva dalle espressioni esultanti che qualche artista gli aveva dipinto in volto, alcuni di essi parevano soddisfattissimi di una sorte che, seppure a prezzo di intensi dolori, li avrebbe innalzati alla gloria eterna.
Non è sicuro davvero che gli artisti abbiano sempre reso un favore ai poveri santi, reclamizzandone con fin troppa enfasi la forza di sopportazione.
In molti quadri, anzi, qualcuno di quei martiri, di fronte a sevizie fisiche terribili, mostra un’aria appena perplessa, altri sembrano addirittura godersela!

Certamente, in alcune opere, lo slancio artistico del pittore si era spinto troppo in avanti, ma non era mai avvenuto, come nel caso del quadro del mistero, che la condizione ambientale in cui era stato ritratto il soggetto, fosse stata così apertamente contestata, scavalcata e desacralizzata da una delle figure dipinte.
Tarallo, dando fondo alle sue più surreali capacità di astrazione e di immaginazione, si disse che in fondo poteva anche comprendere che un Santo come Sebastiano ne avesse abbastanza di rimanere fermo e buono nella posa da lui resa famosissima.
Non è una cosa semplice, infatti, lo starsene perennemente legato con delle cordacce strette a qualche supporto utile al martirio, colonna o fusto d’albero che sia, escogitato dalla fantasia di qualche maneggiapennelli.
Non è robetta da nulla, lo si può ben capire, sopportare nei secoli gli effetti delle idee malsane che gli aguzzini di un tempo avevano escogitato in materia di sadismo!

Lallo immaginava, lo dava anzi per scontato, che perfino un sant’uomo, alla lunga, potesse sentirsi stufo di beccarsi addosso, inerme, un vero festival della freccia, e tollerarlo indefinitamente, senza mai muovere un muscolo, senza mai distogliere lo sguardo dal cielo e senza pronunciare, non dico una imprecazione colorita, ma nemmeno un semplice “mannaggia!”.
Lo capiva, Lallo: anche se in quella sopportazione stoica stava tutto l’armamentario professionale del martirizzato dipinto, poteva pure pensare che fosse possibile, dopo un mucchio di tempo, il manifestarsi di una prima insofferenza.
Poteva comprendere anche l’insorgere di una certa anchilosi a star immobile nella stessa posizione per interi evi; poteva senz’altro simpatizzare col ritratto di San Sebastiano per il dolore ed il fastidio di un supplizio patito senza avere a disposizione uno straccio di diversivo che ti aiutasse a far passare l’eternità: che so, un altro amico di quadro con cui andare a cena, un aguzzino più loquace della media, qualcuno, insomma, con cui chiacchierare.
Magari un collega martire col quale parlottare di storia dell’arte, dandosi delle arie, cianciare del più e del meno scambiandosi impressioni sugli effetti scenici del supplizio, consigliandosi a vicenda qualche pomatina, ovviamente miracolosa, per attenuare il disagio provocato da ferite che, una volta dipinte, non si rimarginano mai.
Tarallo, che ormai era finito con tutte e due i piedi nella surrealtà, si fermò qui e decise che di buon ora sarebbe andato ad intervistare Don Oronzo Sardanapali, il parroco, sempre che si fosse rimesso dal malore che lo aveva colto dopo aver scoperto le prodezze notturne del suo martire favorito.

Don Oronzo Sardanapali

L’alba infine, seppur a fatica, arrivò.
Giunse insieme con l’ultimo strillo del cliente masochista della Rossa, che, a proposito di supplizi, dopo aver subito i colpi di frusta della vecchia, era ormai pronto ad affrontare anche l’oltraggio della micidiale colazione che veniva servita nella sua pensione.
Tarallo e Consuelo invece, messi sull’avviso dagli odori sgarbatissimi di metano avariato e cavolo analfabeta, che provenivano dalla cucina della “Pensione La Rossa”, ne uscirono con la stessa fretta di chi incappa nei gargarismi dei Negramaro, andando dritti dritti a sedersi ai tavolini del Bar Biturico, il migliore del paese, in prima fila nella piazza principale di Strappoli di Sotto, proprio di fronte alla chiesa del mistero, Santa Abbondanziana Martire.
Cornetti assortiti, ripieni e caldi da far le fusa, ed un caffè dal temperamento vulcanico, in combinazione con l’aspetto fresco e radioso di Consuelo,  rischiararono mente e umore di Lallo, il cui tono mattutino, in un primo momento, era sembrato un po’ opaco.

Lo splendore della fotografa, come sempre, lasciò un segno anche altrove: sulle lampade del semaforo piazzato ai margini della piazza, nel tratto in cui essa andava ad innestarsi su Via Tacito Domingo, comparve una pioggia di cuoricini di un giallo abbacinante.

Lallo, che si era distratto sbranando un enorme croissant alla crema, ad un tratto riconobbe in strada l’ormai familiare sagoma del sagrestano Donaldo Ducco.
Il suo informatore correva come un ossesso in direzione della chiesa: andava a tutta birra, gli mulinavano gli arti inferiori come nei quadri dei futuristi, sembrava inseguito dal diavolo!
Qualcosa era accaduto, il suo ben noto sesto senso glielo urlava così assordantemente che Tarallo si decise ad alzarsi e a pagare il conto della colazione.
Consuelo non ebbe neanche bisogno di una parola: aveva notato anche lei il movimento frenetico di Ducco e, lesta nella sua falcata inebriante, si affiancò subito a Lallo.
Si avviarono veloci verso Santa Abbondanziana.

Donaldo Ducco, il sagrestano

Senza farsi troppo notare scivolarono all’interno, nascondendosi dietro una colonna  e cercando di sbirciare quel che avveniva.
Una voce, amplificata, distorta e rimbombante nelle alte volte della chiesa, ne rompeva il consueto silenzio: “Don Oronzo! Don Oronzo no, non un’altra volta! Su, si riprenda!!”
Videro Donaldo Ducco chinato verso la figura rotondetta di un uomo steso prono sul pavimento della chiesa, in corrispondenza di un’altra delle cappelle della navata sinistra.
Il sagrestano che per farlo rinvenire, aveva cominciato a dare dei leggeri schiaffetti sul volto di quel tale, in mancanza di una sua reazione, stava aumentandoli molto di potenza, mutandoli in sonorissimi ceffoni.
Dall’abito scuro che quel tizio, che pareva folgorato, indossava, Tarallo intuì che doveva trattarsi del parroco, Don Oronzo Sardanapali: proprio l’uomo che avrebbe voluto intervistare quella mattina.
Deprecò l’abitudine di quel prete a svenire, abitudine che, visto il malore che gli era già stato riferito, in lui minacciava di dilagare, trasformandosi in un vero e proprio vizio.
Visto che i ceffoni di Ducco, sempre più potenti, non avevano ancora sortito alcun effetto, Lallo fece un cenno a Consuelo: i due, usciti così allo scoperto, si diressero verso la cappella, dinanzi alla quale si svolgeva quella scena impressionante.

Consuelo

Diedero un’occhiata a Ducco che solo allora si accorse di loro.
Pur riconoscendoli, il sagrestano non smise, nemmeno per un secondo, di sparare schiaffoni di rara potenza sul viso di Don Oronzo.
Tra i due ultimi arrivati, fu Consuelo quella che, giratasi per prima in direzione della Cappella, spalancò la bocca, stupefatta.
Tirò forte Lallo per la giacca, costringendo anche lui a guardare ciò che l’aveva raggelata: nel grande quadro centrale, apparentemente un dipinto di fine Cinquecento inizio del Seicento, un santo dall’aspetto venerabile, Sant’Odoacrino, rivestito dei sacri paramenti vescovili, reggeva tra le mani la propria testa!
Pur producendo uno spettacolo assai impressionante, un esperto di Storia dell’Arte, guardando il soggetto di quella grande tela, non ne sarebbe rimasto scosso più di tanto: avrebbe detto a Lallo e compagni, che quel tipo di raffigurazione non era troppo insolita nell’iconografia dei martirizzati per decapitazione.
Nelle tele e nelle sculture dei secoli passati, un mucchio di gente, che a causa della fede professata aveva fatto quella fine tremenda, portava in giro la propria testa.

Sant’Odoacrino

Non era quello il problema.
Il fatto sconvolgente, quello del tutto anomalo in un dipinto, non stava infatti nella testa staccata dal corpo, in quanto una decollazione ben fatta, mira proprio ad ottenere quel risultato.
Certo, i miracoli non si discutono, si debbono solo accettare, ma a Tarallo pareva già notevole il fatto che il pittore avesse lavorato per dare a tutti l’impressione che quel santo, dopo il brutto colpo ricevuto, avesse trovato miracolosamente la forza di:
a) recuperarsi la testa da qualche parte, ma non si sa come, visto che gli occhi erano ovviamente rimasti dislocati nella loro sede tradizionale;        
b) sorreggerla come nulla fosse, come se il corpo avesse mantenuto per intero vita, forze e facoltà.


Del resto il miracolo è miracolo, se non violasse le leggi di natura non sarebbe considerato tale, ma nel caso che ora si palesava a chi quel mattino, come Ducco, Tarallo e Consuelo, per non parlare dell’eterno svenuto Don Oronzo, si trovava davanti al quadro, la cosa sbalorditiva era rappresentata da tutt’altro fenomeno.

Sant’Odoacrino come lo trovarono dopo la trasformazione

Era qualcosa di impossibile e di inaudito: sul volto del santo decollato, che si era sempre mostrato, nonostante tutto, costantemente sereno e composto, era comparso un cerottino, piazzato sulla fronte, e, non bastando questa assurdità, una vistosa ecchimosi, di un bluastro pesto, circondava ora uno degli occhi, da sempre semichiusi.
Sant’Odoacrino, insomma, aveva un occhio nero!
Si stentava a registrare quella visione perché la ragione, avvertita dalla vista, formulava quel concetto, ma la mente si rifiutava di avallarlo: era come ammettere che qualcuno, e non si riusciva nemmeno ad immaginare di quale misteriosa entità si trattasse, avesse osato dare un pugno al martire!
Ducco, nel frattempo era ancora impegnato ad impartire al parroco degli sganassoni così energici che, seppure il poveraccio fosse rinvenuto, lo sarebbe stato per così poco tempo che non se ne sarebbe accorto nessuno.
Tra un ceffone e l’altro, il sagrestano si accorse dello sbandamento di Lallo e di Consuelo.

Lallo Tarallo

Alzò le spalle nella loro direzione, in un gesto eloquente che stava a dire: “Visto? Ve lo avevo detto: è roba tosta!”
A Tarallo si piegarono un po’ le gambe: cosa stava succedendo ai personaggi raffigurati nei quadri della chiesa di Santa Abbondanziana?
Quale oscuro mistero aleggiava su Strappoli di Sotto? 

Continua…

Lallo Tarallo, giovane sin dalla nascita, è giornalista maltollerato in un quotidiano di provincia.
Vorrebbe occuparsi di inchieste d’assalto, di scandali finanziari, politici o ambientali, ma viene puntualmente frustrato in queste nobili pulsioni dal mellifluo e compromesso Direttore del giornale, Ognissanti Frangiflutti, che non lo licenzia solo perché il cronista ha, o fa credere di avere, uno zio piduista.
Attorno a Tarallo si è creato nel tempo un circolo assai eterogeneo di esseri grosso modo umani, che vanno dal maleodorante collega Taruffi, con la bella sorella Trudy, al miliardario intollerantissimo Omar Tressette; dall’illustre psicologo Prof. Cervellenstein, analista un po’ di tutti, all’immigrato Abdhulafiah, che fa il consulente finanziario in un parcheggio; dall’eclettico falsario Afid alla Signora Cleofe, segretaria, anziana e sexy, del Professore.
Tarallo è stato inoltre lo scopritore di eventi, tra il sensazionale e lo scandaloso, legati ad una poltrona, la Onyric, in grado di trasportare i sogni nella realtà, facendo luce sulla storia, purtroppo non raccontabile, di prelati lussuriosi e di santi che in un paesino di collina, si staccavano dai quadri in cui erano ritratti, finendo col far danni nel nostro mondo. Da quella faccenda gli è rimasta una sincera amicizia col sagrestano del luogo, Donaldo Ducco, custode della poltrona, di cui fa ampio abuso, intrecciando relazioni amorose con celebri protagoniste della storia e dello spettacolo.
Il giornalista, infine,è legato da fortissimo amore a Consuelo, fotografa professionista, una donna la cui prodigiosa bellezza riesce ad influire sulla materia circostante, modificandola.

Lallo Tarallo è un personaggio nato dalla fantasia di Piermario De Dominicis, per certi aspetti rappresenta un suo alter ego con cui si è divertito a raccontarci le più assurde disavventure in un mondo popolato da personaggi immaginari, caricaturali e stravaganti

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