L’utopia comunista dei Gesuiti in Sud America

                              

Ci sono parole che entrano, permangono e, a volte, spariscono dal patrimonio di quelle usate dall’umanità o da parte di essa.
Il significato di alcune di esse, così semplici da pronunciare, ci porta dentro a cose ed eventi che hanno inciso la carne di intere comunità, riguardando da vicino il processo di interazione tra popoli:
Penso, ad esempio, che pochi oggi sappiano cosa significasse la parola “Riduzione”
Venne denominato Riduzione un tipo di insediamento istituito dai Gesuiti in Sudamerica, un esperimento che riguardò essenzialmente il popolo degli indios convertiti al cristianesimo.
Questa tuttavia è una definizione limitata perchè, se lo scopo delle riduzioni era stato indubbiamente religioso, esso però non fu l’unico.
Non tutti gli indigeni, infatti, rinunciarono alle loro antiche credenze, anche se molti di essi finirono per convertirsi.

I resti di una Riduzione in Sudamerica

Questo termine venne usato in riferimento a tutte le missioni del sud America per mostrare che lo scopo di tali insediamenti non era solo quello di fare del semplice proselitismo, ma anche quello di iniziare gli indigeni guaranì ad una vita libera da ogni tipo di schiavitù, sia spirituale che temporale. Perché sia a noi oggi ancora più comprensibile, potremmo tradurre e identificare la parola “riduzione” col significato della parola “comunità”.

Nell’istituzione di tali comunità confluivano varie motivazioni: innanzitutto la necessità di uno sfruttamento più razionale e organizzato della terra e delle sue risorse; erano poi un modo per superare la dispersione demografica ed assicurare l’evangelizzazione ed un controllo maggiore del territorio.
Ma venivano incontro anche al desiderio di proteggere gli indios.

Questa particolare storia iniziò nella regione del Guairà, che si trovava nella parte del Paraguay confinante con il Brasile, ad ovest del rio Paranà e a sud del rio Uruguay.
La regione attraversava il Tropico del Capricorno e aveva perciò un clima caldo e umido.

Ce ne dava già una descrizione padre Nicolas del Techo, che fu attivo missionario nel Seicento, in una sua lettera:

Crescono alberi che distillano aromi e molta frutta. Tra i fiori si nota particolarmente il Mburucuyà, che mostra tra i petali gli strumenti della passione del Signore, e ha un frutto dolcissimo”.

I padri gesuiti Giuseppe Cataldino e Simone Mazeta (o Mascetta) furono inviati nella regione proprio in quel secolo.
Navigarono per il rio Paranà fino al suo incontro con il rio Pirapò, e in quel punto fondarono, nel 1611, la prima Riduzione del Guairà.

Mazeta era teramano e Cataldino era nato a Fabriano e così intitolarono la riduzione a Santa Maria di Loreto.
I primi abitanti furono duecento indios, ma ben presto molti altri chiesero di unirvisi, numerosi al punto che la riduzione non poteva più contenerne.

Una stampa raffigurante Cataldino

Così fu deciso di fondare un’altra riduzione, a Itaberaca, dedicandola a Sant’Ignazio, e per questo vennero inviati nel Guairà padre Ruiz de Montoya e padre Martin Javier Urtasum.
Così padre Montoya raccontava la vita dei primi missionari del Guairà:

“Erano poverissimi, ma ricchi di allegria. I rammendi dei loro vestiti non permettevano di distinguere il materiale con cui erano intessuti. Avevano scarpe rammendate con pezzi di stoffa tagliati dai bordi delle loro vesti. La capanna, i mobili e il loro sostentamento erano paragonabili a quelli degli anacoreti. Da molti anni non assaporavano né pane né vino, mangiavano la carne solo alcune volte, quando gliene portavano qualche pezzetto in elemosina. Il principale alimento erano patate, banane e radici di manioca”.

Alle difficoltà della vita quotidiana si aggiunse una terribile carestia che nel 1614 ridusse alla fame tutti gli abitanti.
Padre Cataldino, rendendosi conto della gravità della situazione, partì verso la città di Santa Fè in cerca di aiuto.
Quando ritornò con i soccorsi, padre Martin Javier era intanto morto di fame.

Nel 1620 padre Montoya fu nominato superiore del Guairà: incarico che occupò fino al 1630.
Questi dieci anni furono gli anni di maggior sviluppo delle riduzioni nella regione: grazie all’intenso lavoro di Montoya e dei suoi confratelli, presero vita varie altre comunità tra cui quella di san Miguel, che arrivò a essere la principale riduzione della regione, con più di settemila abitanti.

Padre Antonio Ruiz de Montoya

Nell’anno 1631 gli indios che vivevano sulle rive del rio Paraguay, non lontano da una piccola città spagnola chiamata Jerez, chiesero di incontrare i padri della Compagnia di Gesù.
Montoya incaricò di questo i padri Ferrer e Mansilla, che trovarono molta disponibilità negli indios, tanto che furono necessari altri missionari: tra il 1631 e il 1632, sorsero in quella zona quattro nuove riduzioni.

Attorno al 1630, circa una ventina d’anni dopo la fondazione della prima di esse, erano così state fondate già parecchie comunità, sparse in quattro regioni di un territorio vastissimo: il Guairà, l’Itatin, il Tapè e una zona a sud di Asunción, tra il rio Paraná e il rio Uruguay: era un territorio più grande della pianura padana.

I missionari inviati nelle regioni meridionali delle rive del Paranà incontrarono però molte difficoltà quando si scontrarono con l’ostilità dei conquistatori spagnoli a causa del loro rifiuto nei confronti dell’encomienda, cioè del lavoro schiavistico degli indios.

Per questo le riduzioni furono costruite il più lontano possibile dagli insediamenti ispanici, per evitare, appunto, problemi con i coloni.
Per questo ognuna di esse era capace di vivere autonomamente, e tutte erano protette da ordinanze del governo spagnolo che vietavano assolutamente l’accesso ai coloni spagnoli, ai meticci e ai negri.
Erano documenti che ribadivano l’esenzione degli indios dall’ encomienda.

Il problema più grande però sorse quando incominciarono gli attacchi dei “mamelucos paulisti”, i cosiddetti cacciatori di schiavi, che provenivano da San Paolo del Brasile, appartenente alla corona del Portogallo.

Le riduzioni più colpite furono quelle del Guairà, le prime che essi incontravano sul loro cammino da San Paolo, in quelle irruzioni vennero rapiti migliaia di Guaranì.

In breve tempo la situazione divenne insostenibile: delle dieci riduzioni del Guairà, otto furono distrutte dai mamelucos.
Solo due di esse, San Ignazio e Loreto, riuscirono a salvarsi grazie alla loro ubicazione remota, ma presto fu necessario abbandonarle.

Così, nel 1631, fu deciso di emigrare verso sud, cercando una zona più sicura.

Quello che fu definito “il grande esodo”, fu un viaggio epico e terribile: guidati da padre Montoya, preti e indios percorsero più di 900 km per fiume e per terra, attraversando foreste e paludi e superando le pericolosissime cascate del Guairà.

Una scena del film “Mission” – 1986

Dopo 30 giorni arrivarono infine sulla riva sinistra del rio Paranà, dove fu possibile fondare due riduzioni a cui misero lo stesso nome di quelle abbandonate.
Erano comunque partiti in 12.000 e ne arrivarono a destinazione solo 4.000.

Anche le riduzioni di Itatin nel 1638 furono costrette a trasferirsi.
Dopo molte peripezie si fermarono a sud del rio Tebicuary.
Un terzo nucleo di riduzioni obbligato a trasferirsi fu quello del Tapè.
Delle quattordici riduzioni che esistevano in questo territorio, nel 1638 ne rimanevano solo sei, perchè le altre erano state distrutte dai paulisti.
Con esse anche gli abitanti di quelle zone furono costretti a spostarsi verso sud percorrendo 800 km.
Nonostante l’esodo di massa la situazione non era affatto sicura: i gesuiti decisero allora di chiedere al re di sospendere il divieto che la legislazione coloniale faceva agli indios di possedere armi da fuoco.

Padre Montoya, si recò a Madrid nel 1638 e riuscì a convincere la corte di Spagna a sospendere questo divieto, così la proibizione venne sospesa, fu permesso alle riduzioni di dotarsi di armi da fuoco e i Guaranì vennero addestrati ad usarle.

Tre anni dopo, nel marzo del 1641, si verificò un evento decisivo.

Alla confluenza fra il rio Uruguay e il rio Mbororé, una spedizione paulista di tremila uomini fu annientata da un esercito di circa quattromila Guaranì, addestrati a usare fucili e rudimentali cannoni.

Dopo la battaglia di Mbororè le incursioni pauliste scemarono, anche perchè le riduzioni mantennero ancora una forza armata per potersi difendere.
Dopo questa battaglia, che fu considerata da alcuni storici “l’episodio militarmente più rilevante della storia dell’America coloniale”, la vita e lo sviluppo delle riduzioni continuò con maggior sicurezza, tanto che si arrivò a costituirn altre trenta, che andarono ad occupare un’area di centomila chilometri quadrati, più o meno le dimensioni dell’Italia settentrionale.

Per rendere comprensibile il significato della parola riduzione, padre Antonio Ruiz de Montoya, scriveva così:

Chiamiamo riduzioni i popoli indios che vivevano, secondo una loro antica usanza, sui monti, in piccoli gruppi, molto distanti tra loro, e che l’opera dei padri riunì, invece, a formare villaggi, in cui poter iniziare le prime forme di vita associata anche dal punto di vista politico. Riduzione proviene dal verbo spagnolo “reducir”, usato nel senso di “convincere”: gli indios infatti furono convinti a lasciare una condizione di vita solitaria e nomade per un tipo di vita stanziale e comunitaria, ma pur sempre libera”.

Fin dagli inizi di questa esperienza, padre Diego Torres aveva dato istruzioni precise riguardo alla scelta del luogo e delle caratteristiche che avrebbero dovuto avere le riduzioni.

Il centro di tutta la comunità era la chiesa: grazie alla sua chiesa, ogni riduzione aveva una vita propria e originale.
Tutte le chiese delle riduzioni, che fossero in pietra, legno o mattoni, potevano contenere molte persone ed avevano molti ornamenti, statue e dipinti spesso eseguiti dagli stessi indios.
Padre Guillermo Furlong acutamente osservava:

pare che coloro che non conoscevano da vicino le riduzioni siano stati sorpresi dalla grandezza e dal lusso delle chiese missionarie, senza vedere, in primo luogo, che quella grandezza era necessaria per contenere nei giorni di festa quattro, cinque o seimila indigeni, e senza apprezzare, in secondo luogo, l’effetto psicologico ed educativo che la magnificenza e la bellezza delle decorazioni e degli altri elementi artistici avevano negli indios, abituati alla foresta”.

Il gesuita Padre Guillermo Furlong

Per i Guaranì l’amore per la loro chiesa era legato alla recente formazione cristiana.
Per questo quelli di loro che vivevano nelle riduzioni non accettarono mai di consegnare questi luoghi sacri ai loro nemici portoghesi, perché, li consideravano espressione della loro identità.
A san Miguel, ad esempio, gli indios decisero di dar fuoco alla chiesa piuttosto che vederla profanata dal nemico di sempre.

Insomma, ciò che fecero i gesuiti in quelle zone fu cercare di mettere in pratica l’utopia spirituale e comunitaria che Tommaso Campanella aveva descritto nel suo celebre libro “la Città del Sole”.

Riassumendo, tra il 1608 ed il 1767 in una vastissima zona incuneata tra i fiumi Paranà ed Uruguay si tenne il “sacro esperimento”, rimasto celebre nella storia latina.
Lo tentarono alcuni gesuiti armati solo della loro fede e di una grande cultura, al fine di evangelizzare le tribù dei Guaranì e proteggerle dalle umiliazioni e razzie a loro imposte dai Regni di Spagna e del Portogallo, che si erano spartiti i territori in questione.
Nelle “riduzioni” gli indigeni apprendevano a lavorare ed a vivere in pace in un sistema comunitario, per l’epoca assolutamente anomalo.

Ma ne XIX secolo tutto ciò doveva crollare perché le “riduzioni” non potevano andare più a genio né a Madrid né a Lisbona.

Spagnoli e portoghesi pretestuosamente videro in esse dei pericoli di ogni sorta, ma tennero bene in considerazione soprattutto l’ostacolo che esse rappresentavano perché impedivano lucrose compravendite di mano d’opera a buon mercato.
Quando Ferdinando VI di Spagna, col Trattato di Madrid, nel 1750, cedette ai Portoghesi una larga parte di quei territori, gli attacchi alle riduzioni e agli indios si moltiplicarono, fino ad arrivare ad autentici genocidi.
Era passato circa un secolo della famosa battaglia di Mbororè.

Ferdinando VI di Spagna

La mediazione di Papa Clemente XIII portò poi alla seguente conclusione: l’ordine gesuita doveva lasciare le riduzioni, pena l’espulsione non solo dall’America del Sud, ma anche dai due stessi Paesi europei.

Il danno per l’evacuazione di quelle comunità fu enorme: oltre alle perdite umane e materiali, infatti circa la metà dei Guaranì abitanti nelle Riduzioni fu uccisa o dispersa nelle foreste ed i sopravvissuti vedendo gli spagnoli ed i portoghesi combattere insieme contro di loro, compresero che l’esperienza del “cristianesimo felice nelle foreste” stava ormai volgendo al termine.

Ciò che rimase di quella storia, ci dimostra, ancora una volta, che molto spesso le imprese a sfondo idealistico, quelle che vanno a sfociare in comportamenti edificanti, possono strappare il consenso e l’ammirazione delle elites culturali, ma non stabiliscono un precedente, una regola valida per il futuro, qualcosa, insomma, da imitare.

E non è casuale che, ad onta del destino che ebbero dopo tanta gloria, le Riduzioni del Paraguay suscitassero l’ammirazione di pensatori importanti.
Le migliori menti speculative illuministe, come Voltaire, Montesquieu, Diderot e Buffon, nonostante il loro deciso anticlericalismo, giudicarono favorevolmente l’esperienza compiuta dai Gesuiti in Sudamerica.

Da noi fu uno storico, Ludovico Antonio Muratori, a pubblicare nel 1743 il libro “Il Cristianesimo felice dei padri della Compagnia di Gesù nel Paraguay”, un testo nel quale le Riduzioni venivano assimilate ai modelli sociali creati delle prime comunità cristiane, quelle, insomma, delle origini.

Ludovico Antonio Muratori

Anche nei secoli seguenti diversi autori studiarono con interesse la storia delle Riduzioni.
In esse lo scrittore francese Chateaubriand, considerato il padre del Romanticismo, ma che fu anche un uomo politico, vide la prova che: “Il genio originario” del cristianesimo non solo portava ai popoli la luce del Vangelo, ma li rendeva anche “i più puri ed i più felici degli uomini”.
L’orientamento dei filosofi e degli storici tedeschi in merito alle Riduzioni, fu quello, invece, di considerarle un tentativo riuscito di trasportare in un’esperienza reale, la grande utopia della “la Città del Sole” di Tommaso Campanella
Altri studiosi, più vicini alla nostra epoca, osservarono che l’esperienza dei gesuiti in Sudamerica, dimostrava come fosse possibile costruire uno stato cristiano-comunista, o cristiano-socialista.

Questa tendenza è rintracciabile, ad esempio, in un testo come la “Storia generale del Socialismo”,di Bernstein, Kautsky e di Plechanow, che fu il genero di Marx.
In un capitolo dedicato alla Repubblica dei Guaranì, la si considerava come un’esperienza sociale “fra le più interessanti e straordinarie che mai siano state fatte“, uno dei percorsi che avrebbe portato al socialismo e al comunismo.

Bernstein, Kautsky e Plechanow

Ma quali furono gli errori commessi dai Gesuiti nel portare avanti le Riduzioni?

Ne possiamo individuare tre, fattori che hanno poi determinato la decadenza dell’esperienza appena dopo la loro espulsione: all’inizio i Guaranì non erano ammessi al sacerdozio né alla vita consacrata.
Il primo sacerdote guaranì venne ordinato a Buenos Aires solo alla fine del 1700.
Nelle Riduzioni non erano previste suore, sebbene numerose ragazze locali avessero chiesto di consacrarsi a Dio.

Il forte pregiudizio contro gli indigeni, comune a tutte le Chiese fino al secolo scorso, faceva dubitare che essi avessero le qualità umane e cristiane necessarie.
Il non aver aperto nemmeno un seminario o un noviziato per preparare al sacerdozio si rivelò senza dubbio uno dei più gravi limiti delle Riduzioni.
Il secondo di questi limiti era simile al primo.
I Gesuiti davano delle responsabilità ai capi indigeni, ma in modo limitato e locale.
La direzione delle comunità e i rapporti esterni rimanevano comunque in mano ai padri, nonostante il fatto che gli indios più evoluti chiedessero maggiori responsabilità.

Al momento della loro espulsione nel 1768, i Gesuiti non avevano quindi indigeni preparati a cui affidare la gestione delle Riduzioni.
Infine, la politica di isolamento delle Riduzioni dal resto delle colonie finì per creare “un’isola felice in un mare in perenne tempesta”.
Un sistema del genere, quasi perfetto, ma isolato dal mondo, non poteva dunque durare.

Continuamente da Madrid si mandavano inquisitori, superiori, commissari incaricati di scoprire i segreti di quella armonia fra bianchi e indios e i motivi dell’autosufficienza e del progresso che non c’erano in nessun’altra parte delle Colonie spagnole.

Invece di ammettere che un sistema socio-economico-culturale in cui si tentava di realizzare anche l’ispirazione vera evangelica, portava necessariamente a risultati positivi nel rapporto fra bianchi e indigeni e allo sviluppo di una vasta regione, grande come l’Italia del nord, si vollero ad ogni costo trovare motivi nascosti e poco onorevoli che spiegassero quell’anomalia.

Come ci si permetteva di essere poveri e felici?

Lino Predel non è un latinense, è piuttosto un prodotto di importazione essendo nato ad Arcetri in Toscana il 30 febbraio 1960 da genitori parte toscani e parte nopei.
Fin da giovane ha dimostrato un estremo interesse per la storia, spinto al punto di laurearsi in scienze matematiche.
E’ felicemente sposato anche se la di lui consorte non è a conoscenza del fatto e rimane ferma nella sua convinzione che lui sia l’addetto alle riparazioni condominiali.
Fisicamente è il tipico italiano: basso e tarchiatello, ma biondo di capelli con occhi cerulei, ereditati da suo nonno che lavorava alla Cirio come schiaffeggiatore di pomodori ancora verdi.
Ama gli sport che necessitano di una forte tempra atletica come il rugby, l’hockey, il biliardo a 3 palle e gli scacchi.
Odia collezionare qualsiasi cosa, anche se da piccolo in verità accumulava mollette da stenditura. Quella collezione, però, si arenò per via delle rimostranze materne.
Ha avuto in cura vari psicologi che per anni hanno tentato inutilmente di raccapezzarsi su di lui.
Ama i ciccioli, il salame felino e l’orata solo se è certo che sia figlia unica.
Lo scrittore preferito è Sveva Modignani e il regista/attore di cui non perderebbe mai un film è Vincenzo Salemme.
Forsennato bevitore di caffè e fumatore pentito, ha pochissimi amici cui concede di sopportarlo. Conosce Lallo da un po’ di tempo al punto di ricordargli di portare con sé sempre le mentine…
Crede nella vita dopo la morte tranne che in certi stati dell’Asia, ama gli animali, generalmente ricambiato, ha giusto qualche problemino con i rinoceronti.

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