Jean Vigo: il cinema come sogno

                                      

“Il cinema può andare avanti quanto vuole, ma non supererà mai e forse neppure raggiungerà un film come L’Atalante, un film dove c’è già dentro tutto.”

Luis Buñuel

Vivere una vita molto breve, ma riuscire in così pochi anni a divenire uno degli indiscussi maestri del cinema, un regista accostato spesso ai nomi del “maledetti” della letteratura, gente come Rimbaud o Celine.
Questo destino raro, fu ciò che toccò a Jean Vigo.
D’altronde l’imprinting familiare lo aveva destinato ad una vita insolita.
Era figlio di un anarchico, Eugène Bonaventure de Vigo, che dirigeva un giornale “Le Bonnet Rouge”, sul quale si firmava Miguel Almereyda. Eugène fu collaboratore e fondatore di importanti giornali di impronta anarchica, come “Le Libertarie” e “La Guerre Sociale”.
Nell’agosto del 1917, in una fase critica della Prima Guerra Mondiale con la sua Francia in difficoltà, fu accusato di alto tradimento in base all’infondato sospetto di essere un collaborazionista della Germania.

Eugène Bonaventure de Vigo/Miguel Almereyda

Col prestesto di uno scandalo venne quindi arrestato e chiuso nella prigione di Fresnes.
Verrà trovato morto poco dopo, strangolato dai lacci delle sue scarpe: oggi, dopo un secolo, restano ancora seri dubbi sul suo suicidio.

Nel 1903 Eugène aveva incontrato una militante, Emily Cléro: Jean, figlio, della loro relazione, nacque nel 1905.

Una loro amica, Jeanne, raccontò in un piccolo libro quello che furono i primi anni della vita del piccolo Jean, anni che non furono affatto semplici.
I suoi genitori vivevano in una miseria nera e per sopravvivere avevano addirittura stampato denaro falso.

Quando Jeanne vide Jean per la prima volta, il bambino stava avvolto in un mucchio di panni nella camera di un albergo di infima categoria.

Allora Jeanne, visto il disinteresse della madre naturale, fu nominata madrina laica e si occupò spesso del piccolo, a volte per intere settimane.

In effetti quando non era trascinato in varie riunioni, tenute nei caffè, il neonato rimaneva spesso dimenticato a casa di amici per diversi giorni.
Non c’è dubbio che queste condizioni di vita difficili abbiano avuto delle conseguenze serie sulla vita e sulla salute di Jean, che verrà colpito dalla tubercolosi.

Jean Vigo

Vigo tuttavia rimarrà segnato dall’amore e dal culto che dedicava a suo padre, non avendo però il tempo di ottenere una sua riabilitazione.  

L’infanzia di Vigo fu irrimediabilmente influenzata dall’evento tragico, che fu la morte in cella di suo padre, una fine che costringerà lui ad essere privato della propria identità.
Per evitare, infatti di essere riconosciuto come il “figlio del traditore”, a dodici anni, Jean fu accolto da Gabriel Aubès, il nonno materno, che fece in modo di dissimulare le vere generalità del ragazzo, perché il caso del “Bonnet rouge” aveva sollevato uno scandalo enorme in Francia.

Il piccolo Jean conobbe quindi anni molto difficili: precocemente colpito dalla tubercolosi, era privo di padre e distante da sua madre che continuava a disinteressarsi di lui.
Presto si ritrovò rinchiuso in un collegio, in una condizione per lui insopportabile.

Il suo soggiorno al Collège de Millau per quattro lunghi anni, gli ispirò la maggior parte delle scene di ‘’Zero in condotta’’, che sarà il suo film più provocatorio.
Uscito dal collegio passò da un liceo all’altro, senza riuscire a socializzare con i compagni di scuola, pur riuscendo a diplomarsi.

Mentre stava seguendo delle cure mediche per la tisi a Font-Romeu, incontrò Lydou, nomignolo di Elysabeth Losinska, figlia di un industriale polacco, anche lei tubercolotica.  

I due decisero di andare a vivere insieme, quindi successivamente si stabilirono a a Nizza.
Jean decise di diventare cineasta e grazie al padre di Lydou potè comprare finalmente una macchina da presa.

I primi contatti con l’ambiente cinematografico Vigo li ebbe proprio a Nizza grazie a Germaine Dulac, una delle prime registe francesi, la quale lo introdusse nella casa cinematografica Franco-Film, dove ottenne un lavoro come assistente operatore in film di scarso rilievo.

Nel 1929 realizzò “À propos de Nice”, un film muto di 25 minuti che esaminava le disuguaglianze sociali nella Nizza degli anni Venti.

Il film era uno sguardo satirico sul mondo fortunato dei vacanzieri, estivi e no, perché essendo infatti Nizza una città che viveva anche del gioco e del vizio, era sempre popolata.

Vigo mostrava i Grand Hotel, le straniere, la roulette, insomma quel mondo vizioso che tanto contrastava con quello dei quartieri poveri.
Sottintendeva che quel panorama di oziosi era votato alla morte: così Jean esprimeva la sua violenta critica sociale.

Molte scene erano metaforiche: un lustrascarpe lustrava dei piedi nudi, una donna si ritrovava di colpo nuda nella sua poltrona a prendere il sole e un vacanziere era colto da paralisi…

 Nel 1931 Vigò produsse un suo nuovo lavoro girando “Taris, roi de l’eau”, un elegante documentario di 11 minuti sul campione di nuoto Jean Taris, che fu tra le prime opere che comprendevano delle riprese subacquee.

Quello stesso anno Jean e Lydou ebbero una figlia, Luce.

Tenendo puntato lo sguardo sulla sua prima produzione, molto ravvicinata, in molti hanno pensato che il segreto dell’arte di Jean Vigo stesse nel fatto che il regista vivesse più intensamente della gente comune.

Il lavoro del cinema è ingrato e faticoso per via del suo frazionamento: si riprendono pochi minuti di film poi si sta fermi per un’ora.
Sembra che Vigo, invece, lavorasse continuamente, versando quasi in uno stato di trance, ma senza perdere nulla della sua lucidità.
Si sapeva che era già malato mentre girava i suoi due ultimi film e che certe sequenze di “Zéro de conduite” le girò addirittura stando steso su un letto da campo.

Lo girò nel 1933, ed era un film di soli 47 minuti che raccontava una ribellione scolastica: quattro collegiali puniti per cattiva condotta si rivoltavano contro le autorità scolastiche attaccandole con colpi di cuscino e sberleffi, fuggendo infine, attraverso i tetti del collegio, verso un immaginario mondo di libertà.

Come si è detto, “Zero de conduite” era un’opera autobiografica e, non a caso, il film metteva in scena dei bambini all’interno di un collegio nel quale la disciplina era così severa e dura che essi erano quasi costretti a rifugiarsi in una ribellione liberatrice.

Una scena del film “Zéro de conduite”

L’allievo Tabard diceva “merde” al professor Mielleux, che gli accarezzava la mano con ben altri intenti.
Veniva per questo convocato dal preside e esortato a dare una spiegazione, non faceva che ripetere il suo insulto, venendo così punito.

La rivolta scoppiava subito dopo nel dormitorio: le penne volavano ed il sorvegliante veniva legato al suo letto.

Il giorno seguente, giorno di festa al collegio, gli ospiti ufficiali (prefetto, clero, militari ecc), che erano stati invitati quali ospiti, venivano colpiti da ogni genere di proiettile da parte dei bambini saliti sul tetto.
Il disordine si faceva generale mentre veniva issata la bandiera con il teschio, come quella dei pirati.
Alla fine i bambini fuggivano dai tetti verso in campagna.

“Zero in condotta” fu criticato da molti.
Le proteste furono numerose, soprattutto quelle dei padri di famiglia benpensanti: per loro il film elogiava l’indisciplina e costituiva un attentato al prestigio del corpo insegnante.
Dopo una proiezione unica, il film fu vietato dalla censura ed i cinefili dovettero addirittura attendere il 1945 per poterlo vedere.

Vigo, ben cosciente della materia che andava narrando, aveva preso le parti dei bambini, la parte della società umana che rappresentava l’immaginazione e la creatività, contro quella arida, ipocrita e menefreghista degli adulti.

Il film non era tuttavia manicheo, anche perché non tutti i bambini venivano rappresentati come dei santi: Vigo, infatti ne mostrava anche di falsi e perversi.

Nel 1934 Jean Vigo realizzò “L’Atalante”, un lungometraggio che la tubercolosi, peggiorata anche dalla lavorazione del film, che era ambientato sui canali del nord e nella stessa Parigi, non gli consentirà di finire.

Si tratta di una delle storie d’amore più amate dagli appassionati di cinema.

Vigo ha trasformato un soggetto di un’estrema banalità in una fiaba d’amour fou, un racconto in cui la critica sociale non era assente e nel quale la semplicità della storia era solo un pretesto per far esplodere l’immaginazione di Vigo in un vortice poetico.

Il film è ambientato in una cittadina francese nella quale Jean, il protagonista, che gestisce una chiatta fluviale da trasporto, sposa finalmente l’amata Juliette.
Sin dall’inizio, nel corso delle nozze, i soli personaggi simpatici sono gli sposi, mentre gli invitati presenti sono distanti e ridicoli.
La chiatta diventa la loro casa, e i due si troveranno in compagnia di Jules, un anziano marinaio che ha girato il mondo, e di un ragazzo che li aiuta.
La vita matrimoniale è al principio gradevole.

Jules incanta tutti con le storie delle sue avventure: molto suggestiva è la cambusa del marinaio, impersonato da Michel Simon, un vero deposito di cianfrusaglie surrealista.
In quella strana cambusa si vedono delle mani tagliate in un boccale, degli automi, un vecchio fonografo che meraviglia la giovane sposa, e decine di gatti adottati dal vecchio lupo di mare, che li ha adottati prendendoli nei porti di tutto il mondo.

Lo sguardo di Vigo sulla vita della coppia non è tuttavia moralista ma solo realista.

Quando si creerà della tensione tra gli sposi, la moglie fuggirà: ciò a cui vuole sfuggire è il grigiore di una vita quotidiana, fatta di abitudine, che lei teme che gli si prospetti.

Jean è disperato e pur di rivedere la moglie, che ha a lungo cercato, si affida persino a una vecchia leggenda secondo la quale, se terrà gli occhi aperti in acqua mentre nuota, vedrà il volto della sua amata.

Jean allora si butta nel fiume, nuota a occhi aperti e fino a che non rivede la moglie in abito da sposa.

La sua disperazione diventa però intollerabile, e dato che di tristezza potrebbe anche morire, i suoi amici decidono di darsi da fare per ritrovare a ogni costo la donna.

Dopo un pò la trovano e dopo averle parlato lei è ben felice di tornare, con tutti gli altri, da Jean col quale chiarisce tutti i suoi timori.

La scena di Jean sott’acqua che cerca la sua compagna è diventata una delle scene più celebri della storia del cinema.
Kusturica la citerà apertamente nelle scene finali del suo capolavoro sulla guerra jugoslava “Underground”, e per anni quella scena sarà anche sigla di una nota trasmissione notturna italiana.

Alcune scene del film Underground di Kusturica

Ad un suo amico che lo consigliava di non stancarsi troppo, di risparmiarsi, Jean rispose che sentiva che il tempo non gli sarebbe bastato e che doveva dare tutto e subito.
Dietro la cinepresa doveva trovarsi nello stato d’animo di cui parlava spesso Ingmar Bergman: “Bisogna girare ogni film come se fosse l’ultimo”.

Jean Vigo, in sintonia coi suoi presentimenti, morì infatti di tubercolosi a Parigi, a soli 29 anni, e venne sepolto nel cimitero parigino di Bagneux.

I suoi film furono giudicati subito antipatriottici e furono censurati dalle autorità governative francesi.

Col tempo però, sono entrati a far parte delle opere che hanno influenzato maggiormente la successiva cinematografia francese e mondiale.

Tra i grandi registi influenzati dal mondo poetico e onirico, ma mai fuori della realtà, di Jean Vigo, se ne possono citare molti, da Luis Buñuel al nostro Fellini e da Emir Kusturica a François Truffaut.

Lino Predel non è un latinense, è piuttosto un prodotto di importazione essendo nato ad Arcetri in Toscana il 30 febbraio 1960 da genitori parte toscani e parte nopei.
Fin da giovane ha dimostrato un estremo interesse per la storia, spinto al punto di laurearsi in scienze matematiche.
E’ felicemente sposato anche se la di lui consorte non è a conoscenza del fatto e rimane ferma nella sua convinzione che lui sia l’addetto alle riparazioni condominiali.
Fisicamente è il tipico italiano: basso e tarchiatello, ma biondo di capelli con occhi cerulei, ereditati da suo nonno che lavorava alla Cirio come schiaffeggiatore di pomodori ancora verdi.
Ama gli sport che necessitano di una forte tempra atletica come il rugby, l’hockey, il biliardo a 3 palle e gli scacchi.
Odia collezionare qualsiasi cosa, anche se da piccolo in verità accumulava mollette da stenditura. Quella collezione, però, si arenò per via delle rimostranze materne.
Ha avuto in cura vari psicologi che per anni hanno tentato inutilmente di raccapezzarsi su di lui.
Ama i ciccioli, il salame felino e l’orata solo se è certo che sia figlia unica.
Lo scrittore preferito è Sveva Modignani e il regista/attore di cui non perderebbe mai un film è Vincenzo Salemme.
Forsennato bevitore di caffè e fumatore pentito, ha pochissimi amici cui concede di sopportarlo. Conosce Lallo da un po’ di tempo al punto di ricordargli di portare con sé sempre le mentine…
Crede nella vita dopo la morte tranne che in certi stati dell’Asia, ama gli animali, generalmente ricambiato, ha giusto qualche problemino con i rinoceronti.

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