I LIBRI RITROVATI DELLA SHOAH, 2° parte

Nulla è in grado quanto un racconto di mettere l’uomo a confronto con se stesso e con la propria storia.
Quella del narrare, oltre ad essere indiscutibilmente un’arte, è una operazione di inestimabile utilità perché attraverso le tracce che l’umanità lascia, chi prosegue il percorso riesce a leggervi sia un possibile senso che un possibile avvertimento, una guida per il proprio cammino futuro.

Seconda parte: Il libro riconquistato

Vi raccontiamo la storia di un libro scritto da un autore al quale la sua opera sfuggì, perché il suo contenuto venne ritenuto troppo autentico per poter essere stato anche solo immaginato.

Zvi Kolitz

Zvi Kolitz era un ebreo Lituano, un litvak nato nel dicembre del 1912 ad Alytus, una cittadina sulle rive del Nijemen.
Nutrito di studi sulla Torah perché proveniente da una famiglia rabbinica, ma appassionato anche di letteratura classica di molti paesi Kolitz, a ventidue anni approdò a Civitavecchia per frequentare un corso di avviamento alla vita marinara destinato a giovani nazionalisti ebrei affiliati al movimento Betar.
In quel periodo giovanile, lui, visceralmente anticomunista, ebbe un’infatuazione per il fascismo che non aveva ancora imboccato la via senza ritorno dell’antisemitismo.
Certamente furono in qualche modo condizionanti per lui gli studi di Scienze Politiche  fatti all’Istituto Alfieri di Firenze.
L’ammirazione per il regime italiano fu talmente accentuata in lui che nel 1936, con il titolo: “Mussolini. La sua personalità e la sua vita”, pubblicò la prima biografia in lingua ebraica del fondatore del fascismo.

La sua formazione in quella età che nonostante la sua cultura si mostrava ancora acerba, pesava abbastanza dal fargli individuare come primo nemico dell’ebraismo il comunismo antispiritualista e materialista anziché il nazifascismo che stava invece per fornirgli la peggiore delle smentite.
Il 1936 è anche l’anno della sua partenza per la Palestina e dell’inizio del suo impegno sionista all’interno dell’Irgun, l’organizzazione militare nazionale.

L’emblema dell’Irgun

La rivolta araba era scoppiata in aprile e il suo gruppo divenne molto attivo, tanto che nel 1938 Kolitz venne arrestato dagli inglesi per cospirazione e fu rilasciato al momento dello scoppio della guerra mondiale, scegliendo di collaborare attivamente con gli alleati nella lotta al nazifascismo.

Kolitz, svolgendo un’attività di tipo propagandistico, venne presto a conoscenza del piano nazista per lo sterminio di massa degli ebrei, ragione per la quale si rafforzò in lui il sostegno all’idea di uno Stato ebraico.
Questa prospettiva lo riportò a combattere nelle file dell’Irgun, venendo nuovamente arrestato.
Favorire la nascita di uno stato ebraico divenne il suo primo obiettivo e a tal fine collaborò con le maggiori organizzazioni sionistiche facendo per conto loro lo scrittore ed il conferenziere in giro per il mondo.
Andò in Nordafrica e in Argentina, approdando infine a New York, la città dove sopravviveva il mondo ebraico yiddish distrutto in Europa e che forniva il massimo appoggio finanziario e logistico alla realizzazione materiale del sogno sionista.

Kolitz vi si trasferì definitivamente, vivendovi tutta la vita, alternando un numero disparato di occupazioni: scrittore, giornalista, sceneggiatore e produttore di opere teatrali di successo.

Fu a New York che morì, nel settembre del 2002.

La storia di quest’uomo poliedrico tuttavia rimarrà per sempre legata al racconto che Kolitz scrisse, di getto sembra, nella sua camera d’albergo di Buenos Aires in una notte in cui era nella capitale argentina in qualità di delegato al Congresso Mondiale Sionista.

Scrisse “Yossl Rakover si rivolge a Dio” per un quotidiano locale, lo scrisse in yiddish, prese quanto pattuito e ripartì verso il destino eclettico che abbiamo descritto.


Il racconto è l’immaginario testamento spirituale di un ebreo impegnato nella rivolta del ghetto di Varsavia, un uomo che ha già perduto tutto ciò che aveva: moglie, sei figli, amici.
Circondato dai palazzi del ghetto bombardati e in preda alle fiamme, Rakover, unico rimasto vivo in mezzo ai cadaveri dei compagni di lotta, certo della sorte che lo attende, intraprende un dialogo diretto con Dio, riaffermando la sua fede proprio mentre, senza timore, gli chiede conto di quell’eccidio, di quell’apparente ritrarsi nel tempo dello scempio.
All’epoca della pubblicazione del racconto ancora doveva nascere ed imporsi la letteratura dello sterminio e quelle pagine, datate Varsavia 1943, acquistarono immediatamente una  impressionante forza comunicativa. 

Nell’ultimo giorno prima della caduta del ghetto e della fine sanguinosa della repressione nazista, il protagonista del racconto, naturalmente in prima persona, scrive:   

“Io, Yossl, figlio di Dovid Rakover di Tarnopol, discepolo del rebbe di Ger e discendente dei giusti, dotti e santi delle famiglia Rakover e Meisls, scrivo queste righe mentre le case del ghetto di Varsavia sono in fiamme, e quella dove mi trovo è una delle ultime che ancora non bruciano”.

Rastrellamento di ebrei dal ghetto in fiamme

L’effetto del testo è potente e suggestivo, fa il paio con quello che, quasi quarant’anni dopo, avrà un autentico messaggio in bottiglia, ovvero il racconto di Simha Gutermann sulla distruzione della sua comunità ebraica di Plock, ritrovato, come ormai sapete, durante dei lavori di ristrutturazione di una casa a Radom. (qui potete leggere l’articolo)

Quello scritto da Kolitz è il testamento di un ebreo che trova nelle Scritture e nella tradizione del suo popolo la forza per ribellarsi ai nazisti e a Dio, rinnovando le ragioni della propria fede.
Un uomo forte, come Giacobbe, che combattè con l’angelo e lo vinse, un giusto, colpito in tutto quello che la vita gli ha dato in beni e in affetti.
Uno capace di sfidare Dio e contemporaneamente di amarlo: un uomo con la forza di un profeta.
Nel 1953  il racconto di Kolitz venne copiato da uno sconosciuto, battuto a macchina e inviato per posta a Tel Aviv. Nelle righe che accompagnavano la spedizione, il testo veniva etichettato come un “testamento proveniente dal ghetto di Varsavia”.

Entrata al ghetto di Varsavia

La cosa si complicò quando anche in occasione della pubblicazione che ebbe in Israele, venne presentato così, cioè come il documento autentico scritto  da un resistente nella rivolta del ghetto.

Kolitz lo venne a sapere e naturalmente rivendicò la paternità dell’opera, ma nessuno sembrò dargli retta davvero.
La forza di quelle pagine sprigionava una tale commozione ed un tale senso di autenticità da renderle in assoluto emblematiche del dramma che raccontavano e che l’opinione pubblica, ebraica e non, cominciava a scoprire un po’ alla volta.

“Yossl Rakover si rivolge a Dio” era insomma troppo vero

per essere creduto solo un prodotto letterario su tema storico.
Cominciò così per Kolitz una lotta estenuante e duratura per riprendersi il suo libro.
Ogni ristampa e ogni nuova pubblicazione del racconto, oltre a mutare spesso il testo, integrandolo o scorciandolo, lo riproponeva come testamento autentico.
La lotta dell’autore per riappropriarsi  della sua opera proseguì con scarsa fortuna fino a che un giornalista tedesco, Paul Badde, con un’azione lunga, pedante e ostinata, un lavoro da investigatore, riuscì a ricostruire dal suo inizio la vicenda del racconto.
L’edizione definitiva venne pubblicata insieme con il resoconto dell’intera storia e il personaggio di Yossl Rakover si riconciliò con chi lo aveva immaginato.

Zvi Kolitz

Nel frattempo il libro ha continuato ad essere ristampato, letto ed amato, suscitando forte emozione in chi lo ha incontrato e dimostrando comunque un’autenticità che era stata evidentemente acquisita già dalla sua stesura, grazie alla capacità di Zvi Kolitz di sentire su di sé una tragedia che non apparteneva solamente al suo popolo,

ma che chiamava in causa, oltre a Dio, l’umanità tutta.  

Una terribile fotografia di una fossa comune a Varsavia Maggio 1942

Piermario De Dominicis, appassionato lettore, scoprendosi masochista in tenera età, fece di conseguenza la scelta di praticare uno sport che in Italia è considerato estremo, (altro che Messner!): fare il libraio.
Per oltre trent’anni, lasciato in pace, per compassione, perfino dalle forze dell’ordine, ha spacciato libri apertamente, senza timore di un arresto che pareva sempre imminente.
Ha contemporaneamente coltivato la comune passione per lo scrivere, da noi praticatissima e, curiosamente, mai associata a quella del leggere.
Collezionista incallito di passioni, si è dato a coltivare attivamente anche quella per la musica.
Membro fondatore dei Folkroad, dal 1990, con questa band porta avanti, ovunque si possa, il mestiere di chitarrista e cantante, nel corso di una lunga storia che ha riservato anche inaspettate soddisfazioni, come quella di collaborare con Martin Scorsese.
Sempre più avulso dalla realtà contemporanea, ha poi fondato, con altri sognatori incalliti, la rivista culturale Latina Città Aperta, convinto, con E.A. Poe che:
“Chi sogna di giorno vede cose che non vede chi sogna di notte”.

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