Povero nostro Fritz!: Friedrich Nietzsche e l’impossibilità della normalità…

Una conoscenza meno superficiale del pensiero nietzschiano si è diffusa solo dopo la sua morte e ci è voluto un ulteriore lasso di tempo per spurgare la sua opera dalle manipolazioni effettuate dalla sorella Elizabeth, antisemita e simpatizzante nazista, spintasi al punto di correggere il pensiero del fratello per venderlo al Reich, quasi che egli fosse stato un profeta del nazionalsocialismo! (nella foto di copertina: Hitler visita l’archivio Nietzsche e stringe la mano di Elisabeth Foster, la sorella – 1933)

Tanti hanno ripreso il metodo aforistico di Nietzsche per tirarne fuori un sistema filosofico, una pratica che lui sempre aborrì, e, facendolo spesso in malafede, hanno assemblato le sue frasi come più conveniva, per fargli dire cose che mai avrebbe pensato.
Cerchiamo ora però di mettere qualche punto fermo nel suo multiforme pensiero e iniziamo col dire che ci son voluti tempo e ricerche assidue, tra cui quelle curate dagli italiani Montanari e Colli, dal tedesco Loewith e dal francese Onfray, per ritrovare tutte le sue carte, sparse in più direzioni, decifrarle e analizzarle per poter alla fine scoprire quello che veramente fu il pensiero di Friedrich Nietzsche.

Friedrich Nietzsche

Innanzitutto, al contrario di quello che vorrebbe uno dei più triti luoghi comuni che lo riguardano, il filosofo non fu mai un antisemita, questo è certo; molti dei suoi amici e quasi tutti i suoi editori, anzi, erano ebrei e anche quando, infatuato dalla musica wagneriana, Nietzsche frequentò Richard Wagner e la moglie, antisemiti convinti, non cambiò mai idea, e non anelò mai alla nascita di una super-razza.
Il celebre concetto di Ubermensch (oltreuomo) che lui teorizzò era ben altro, era un “superamento della natura umana per poter agire sul flusso inesorabile dell’esistenza cosicché fosse desiderabile riviverla nell’eterno ritorno dell’uguale”.

Secondo Nietzsche, infatti, tutti gli eventi del mondo si ripresentano sempre identici a se stessi, infinite volte. Allora se tutto è destinato a ripetersi in eterno, solo agendo per il miglioramento della nostra vita si può avere il desiderio di riviverla all’infinito, e per poterla modificare occorre andare “oltre la natura umana”.
Comportandosi altrimenti si rischia di affogare in quel nichilismo che portò tante giovani menti a rispondere col suicidio alla “tragica insensatezza della vita nel suo caotico fluire”.

Nietzsche fu colui che mise in chiaro per primo la crisi dei valori che stava infiltrando il mondo occidentale, incapace di offrirne di nuovi.
Quelli tradizionali: fede, morale, patria, erano decisamente screditati perché tutti non avevano altro che un fondamento umano, solo fisico e reale, quindi, non certo metafisico, trascendente la realtà. 

Nietzsche sicuramente non avrebbe mai potuto accettare le ideologie totalitarie e massificatici del ventesimo secolo perché per lui “il filosofo è uno spirito libero che può pensare e agire soltanto in solitudine”.
In molti punti dei suoi scritti vi era l’idea anarcoide che gli spiriti liberi dovessero creare un “mondo senza frontiere”, e questo va contro ogni ideologia totalitaria, ogni dittatura, ogni autoritarismo.

Non a caso disprezzò la politica pangermanista della Prussia, e se ci fu un feroce critico del cosiddetto spirito tedesco quello fu proprio lui, che pur nato in Germania, mai si sentì tedesco.
Col tempo anzi ottenne l’annullamento della cittadinanza tedesca per acquisire provvisoriamente quella svizzera, quando insegnava filologia antica a Basilea.
Quando non fu più in grado di insegnare, per motivi di salute, perse anche quella, divenendo un apolide in continuo movimento tra Svizzera, Germania, Impero Austro-ungarico e Italia, sempre intento a curare i suoi malanni.

Un angolo dello studio nella casa di Basilea con i suoi mobili originali

L’unico suo sostentamento in quel periodo consisteva nella pensioncina riconosciutagli dalla università di Basilea, per motivi di salute.
Aveva appena compiuto 34 anni quando fu costretto a lasciare l’insegnamento universitario.

Friedrich come persona rispecchiava poco la sua filosofia: culturalmente si era formato come filologo greco ed essendo un soggetto tutt’altro che superomistico, già da giovane era affetto da una fortissima miopia che andò sempre più aggravandosi.
Soffriva inoltre per molti problemi psicosomatici e di feroci mal di testa che duravano settimane, dolori che gli rendevano impossibile insegnare e scrivere o addirittura condurre una vita normale.
Di carattere era una persona mite, con un esagerato senso del dovere, un uomo che si rifugiava nelle buone maniere perché insicuro e per non offendere nessuno.
Amava la compagnia, non la folla, ma le malattie lo costrinsero a essere uno spettatore dell’esistere destinato alla solitudine: non potendo osservare quel che accadeva al di fuori della sua persona finì per rifugiarsi nel profondo della sua mente.

Nel 1872 scrisse la sua prima opera di argomento filosofico: “La nascita della tragedia”. Nell’opera la tragedia greca veniva vista come la massima espressione dello spirito dionisiaco, quello istintivo, irrazionale e vitale, che si contrapponeva a quello apollineo, che rappresentava l’ordine e la razionalità.

Nietzsche nel 1872

La corruzione dello spirito dionisiaco era da Nietzsche considerata come l’origine della decadenza del pensiero e inizio della visione metafisica della vita e della morale. Nietzsche attaccò quindi i valori tradizionali, pilastri fondamentali della società, sostenendo la natura puramente relativa di ogni principio trascendente ed etico. 

L’obiettivo di Friedrich era dunque di smascherare la falsità e l’ipocrisia del sistema culturale su cui si fondavano i suoi tempi; per lui tutta la storia dell’Occidente era un processo di decadenza dell’uomo, in quanto negazione della vitalità, quando invece l’affermazione della libertà e della vita sarebbe dovuta essere il vero destino e scopo dell’umanità. Anche i grandi valori della cultura occidentale, le verità date per assolute: la scienza, il progresso e la religione, erano da smascherare essendo pure finzioni perché non esiste nessuna verità assoluta. 

Nietzsche nel 1873

“C’è nell’uomo una sostanziale paura verso la creatività della vita e ciò produce valori comuni, sotto la cui influenza la vita viene disciplinata, regolata e schematizzata”.
L’uomo cioè ha voluto illudersi e dare un senso all’esistenza, avendo paura della verità, e non essendo stato capace dunque di accettare l’idea che “la vita non ha alcun senso”, che non c’è nessun “oltre” e che essa va vissuta quindi con desiderio e libero abbandono.
Era consequenziale quindi che l’uomo per consolarsi si fosse costruito metafisiche e morali, spaventato dal nulla che gli si affacciava davanti.

L’umanità occidentale, passata attraverso mille religioni e morali, percepiva ormai un senso di vuoto, trovava che “Dio è morto”, cioè che ogni costruzione metafisico-morale veniva meno davanti alla scoperta che il mondo era solo caos irrazionale e tutto si sarebbe ripetuto all’infinito. 

Più che con la figura di Gesù, verso cui ebbe sempre simpatia, considerandolo un “santo anarchico’’, Nietzsche era polemico contro tutte le religioni in generale. 

“Vi scongiuro, fratelli, restate fedeli alla terra e non credete a quelli che vi parlano di sovraterrene speranze! Essi sono degli avvelenatori, che lo sappiano o no. Sono spregiatori della vita, moribondi ed essi stessi avvelenati, dei quali la terra è stanca: se ne vadano pure!”
(Also sprach Zarathustra)

Da ciò proveniva la proposta di Nietzsche di una inversione dei valori. Il filosofo si proclamava egli stesso il primo immoralista della storia, ma non per affermare che l’uomo debba essere lasciato in preda al gioco sfrenato degli istinti: ai valori antivitali tradizionali, lui opponeva una nuova tavola di valori, commisurati al carattere terreno e relativo dell’uomo, valori non destinati ad ipotetici aldilà ma solo per il presente aldiquà. Per Nietzsche l’uomo era nato per vivere sulla Terra e la sua esistenza era interamente fatta di corpo e realtà sensibile.

L’Ubermensch, il superuomo, non era colui che schiacciava gli altri ma che, procedendo al di là dei pregiudizi che attanagliavano l’umanità, indicava loro le risposte utili per essere artefici del proprio vivere. Il saggio perciò doveva avere valori differenti da quelli della massa, quella ‘’massa che aveva aderito alla filosofia dei sacerdoti e degli imbonitori per farsi schiava di essi’’. 

Solo l’Ubermensch era in grado di forgiare un nuovo mondo perché era colui che aveva compreso che era lui stesso, col suo agire, a dare significato alla vita e per questo egli aveva il destino-dovere di comunicarlo a tutti, perché facessero altrettanto. 

Friedrich con la madre Franziska Oehler

Ciò che differenziava l’uomo dal superuomo era che, mentre il primo reagiva con terrore alla prospettiva di un eterno ripetersi degli eventi, il secondo la accoglieva con gioia. Una tale reazione nasceva dall’idea che la vita è un qualcosa di creativo che ha in sé il proprio appagamento, che non occorre cercare in un “oltre”, in un altro mondo, la felicità e il senso della propria esistenza.
Il superuomo perciò vive nel continuo oltrepassare sé stesso, nel progettare la sua esistenza in modo libero e al di là di ogni schema. 

In questo è paragonabile ad un artista perché stabilisce un senso di fronte al caotico fluire del mondo, ma al tempo stesso agendo lo plasma. 

Fino a che non fosse sorto l’Ubermensch, cioè un uomo in grado di sopportare l’idea che l’universo intero non ha un senso, l’umanità avrebbe continuato a cercare dei valori assoluti che potessero rimpiazzare i vecchi dei e le vecchie morali.

Torniamo però adesso alla vita del nostro Fritz, come lo chiamavano gli amici: la sua fu una tipica vita borghese di fine ottocento, vissuta con attenzione ai suoi valori: la sicurezza economica, la buona educazione, l’arte.  

La dinamite che Nietzsche diceva avessero le sue idee non traspariva minimamente nella sua vita, piatta e ripetitiva, anzi lui era persona gentilissima e quieta. Era tanto fiducioso da essere bersaglio di feroci scherzi, essendo un uomo che non sapeva neppure vendicarsi, era portato a perdonare coloro che lo ingannavano. Di questo molti approfittarono sfacciatamente, come ad esempio fece Lou Salomè.

Lou Von Salomé, Paul Rée e Friedrich Nietzsche

Le malattie lo perseguitarono per tutta la vita, aggravandosi anno dopo anno e non è difficile affermare che furono tra le cause del suo continuo isolarsi dal mondo.

Anche lui, fino al suo crollo, cercò di metter su famiglia, come facevano tutti a quei tempi; pare tuttavia che non fosse radicata in lui la convinzione di seguire questa strada fino in fondo; aveva infatti coscienza che filosofare e dedicarsi contemporaneamente alla vita coniugale fosse difficile da fare. Così il ruolo che principalmente gli toccò in campo affettivo fu quello di eterno corteggiatore. 

A causa della salute malconcia girò molto: andò dalla riviera ligure all’Engadina, dalla costiera amalfitana a tanti luoghi termali, da Roma fino a Torino; e tuttavia in nessun luogo riuscì mai a integrarsi, neppure a Basilea dove insegnò. 

Genova – Salita delle Battistine n°8, il portone verde a destra fu l’alloggio di Nietzsche

La sua vita era solitaria e le uniche sue manifestazioni di tipo sociale erano salutarsi nelle hall degli alberghi o conversare del tempo e di altre banalità. Aveva terrore di coloro che lo avvicinavano per la prima volta perché temeva che ognuno potesse ingannarlo e quando diede fiducia a qualcuno, quasi mai ebbe la mano felice nello sceglierlo.

Dunque egli non si relazionò molto con gli altri, scegliendo spesso la solitudine, anche se ne aveva orrore. Era la sua risposta a un mondo che non riusciva ad accettare e che non voleva accettarlo. 

A proposito del rifiutare le regole del mondo, simbolico fu l’esito di un suo viaggio a Bayreuth, nel tempio della musica di Wagner: fuggì subito da lì quando si accorse che a tutti i convenuti tutto interessava tranne che l’arte. In sostanza, essi erano lì per affari, per motivi politici o solo per far presenza.

A Friedrich era chiaro che con tale realtà era impossibile scendere a patti, cosicché, stanco di scrutare il mondo che lo circondava, guardò sempre più a fondo dentro di sé, senza nessuna pietà, fino a quando la sua mente non cedette.

Secondo molti la causa prima che lo spinse al crollo fu l’enorme sforzo mentale cui si era sottoposto negli anni precedenti.

Nel 1889 avvenne infine il famoso cedimento nervoso di Nietzsche. Il 3 gennaio subì la sua prima crisi di follia, e tutto accadde in pubblico: mentre si trovava in piazza Carignano, nei pressi della sua casa torinese, vedendo il cavallo adibito al traino di una carrozza fustigato a sangue dal cocchiere, abbracciò l’animale, pianse, finendo per baciarlo. Subito dopo cadde a terra, urlando in preda a spasmi.

Nello stesso periodo, Nietzsche scrisse alcune lettere ad amici e a personaggi potenti, tra cui il re Umberto I. Sono comunemente note col nome di “Biglietti della follia” e guardando al loro contenuto la sua crisi mentale appariva ormai in uno stato avanzato, anche se lo stile di scrittura non era affatto diverso da quello solito.

Gli ultimi anni della sua vita, nei quali venne accudito dalla vecchia madre e dalla sorella, non furono che la tragica via crucis di qualcuno che ormai era uscito dal mondo. 

Nietzsche nei suoi ultimi anni di vita

Una minoranza di interpreti ha affermato che tutto il pensiero nicciano fosse frutto della follia, ma per gli studiosi più seri questa è una risposta di comodo, capziosa, perché ciò che Nietzsche ha detto e scritto venne esposto lucidamente, ben prima del crollo torinese. Si potrebbe affermare il contrario forse, cioè che egli impazzì perché non poteva più sostenere lo scontro inevitabile tra la crudeltà della sua vita reale e il gigantesco anelito della sua filosofia.

Sembra un paradosso, ma quest’uomo, capace di sforzi titanici con la mente, era parimenti capace di intenerirsi e piangere per un nonnulla: un’occhiata malevola, una dolce melodia d’opera o un cucciolo abbandonato per strada.

Si può osservare che Nietzsche avrebbe voluto mettere in pratica la sua filosofia, ma che la vita prese su di lui la sua rivincita, facendolo nel modo più imprevedibile e spietato.

Nietzsche all’età di 17 anni

Lino Predel non è un latinense, è piuttosto un prodotto di importazione essendo nato ad Arcetri in Toscana il 30 febbraio 1960 da genitori parte toscani e parte nopei.
Fin da giovane ha dimostrato un estremo interesse per la storia, spinto al punto di laurearsi in scienze matematiche.
E’ felicemente sposato anche se la di lui consorte non è a conoscenza del fatto e rimane ferma nella sua convinzione che lui sia l’addetto alle riparazioni condominiali.
Fisicamente è il tipico italiano: basso e tarchiatello, ma biondo di capelli con occhi cerulei, ereditati da suo nonno che lavorava alla Cirio come schiaffeggiatore di pomodori ancora verdi.
Ama gli sport che necessitano di una forte tempra atletica come il rugby, l’hockey, il biliardo a 3 palle e gli scacchi.
Odia collezionare qualsiasi cosa, anche se da piccolo in verità accumulava mollette da stenditura. Quella collezione, però, si arenò per via delle rimostranze materne.
Ha avuto in cura vari psicologi che per anni hanno tentato inutilmente di raccapezzarsi su di lui.
Ama i ciccioli, il salame felino e l’orata solo se è certo che sia figlia unica.
Lo scrittore preferito è Sveva Modignani e il regista/attore di cui non perderebbe mai un film è Vincenzo Salemme.
Forsennato bevitore di caffè e fumatore pentito, ha pochissimi amici cui concede di sopportarlo. Conosce Lallo da un po’ di tempo al punto di ricordargli di portare con sé sempre le mentine…
Crede nella vita dopo la morte tranne che in certi stati dell’Asia, ama gli animali, generalmente ricambiato, ha giusto qualche problemino con i rinoceronti.

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