James Boswell, l’intellettuale frivolo che narrò i giganti del Settecento

 

Non è dato sapere a quanti di noi dica qualcosa il nome di James Boswell, ma per via di ciò che so di lui, mi sono persuaso che raccontare di questo spirito originale possa risultare interessante per chi coltiva passioni letterarie, storiche o biografiche.
Personalmente mi trovai a che fare con lui quando, nemmeno ventenne, in una libreria, la mia attenzione venne catturata da un piccolo libro dall’aspetto sobrio ed elegante.

Si intitolava “Visita a Rousseau e a Voltaire”, ed era scritto appunto da questo tale James Boswell, a me del tutto sconosciuto.
Era una delle prime uscite di una collana che sarebbe divenuta prestigiosa: la Piccola Biblioteca, edita dalla casa editrice Adelphi.
Io ero nel pieno di una giovanile cotta intellettuale per Voltaire, del quale in poco tempo avevo letto quasi tutta l’opera narrativa.
Mi ero innamorato del suo parlare alla ragione, della sua arguzia che spesso si volgeva in ironia velenosa, mantenendo sempre, però, una sovrana leggerezza ed eleganza.
La possibilità di avere notizie di prima mano sul mio filosofo prediletto da parte di un suo ammiratore contemporaneo, mi convinse subito ad acquistare il libro.
Non ci fu da pentirsene: l’autore di quel resoconto era uno scrittore coi fiocchi, capace di riprodurre, vivificato, tutto ciò che i suoi occhi avevano visto e le sue orecchie udito.
Pochi come questo signore di condizione agiata, un quasi nobile potremmo definirlo, ci hanno restituito, infatti, una visione così viva e stuzzicante della sua epoca, il Settecento, secolo dei lumi, e di alcune gigantesche figure di intellettuali che la segnarono indelebilmente.
James Boswell, fu scrittore, giurista, aforista ed instancabile viaggiatore, e nacque ad Edimburgo nel 1740, figlio di un giudice scozzese.

James Boswell

Data l’eredità professionale paterna, venne avviato agli studi giuridici e fu avvocato prima in Scozia, successivamente in Inghilterra.
Proprietario terriero ad Auchinleck, una località scozzese, pur non potendo vantare titoli nobiliari, era imparentato con casate di antico lignaggio e addirittura con la famiglia reale di Scozia.
Questa prossimità segnò il suo carattere, marcandolo con uno snobismo tanto consistente quanto dichiarato, accompagnato da una conseguente brama di accreditarsi presso sovrani principi e grandi aristocratici.
Lo scrittore Horace Walpole, famoso per aver scritto il romanzo “Il castello di Otranto”, così lo descriveva in una lettera a Thomas Gray:

”Boswell è uno strano essere… ha una vera frenesia di conoscere chiunque goda di una qualche fama”.

Ma quel che rendeva una personalità così apparentemente sbilanciata verso una vistosa frivolezza, veniva arricchito e reso molto più complesso e sfaccettato da una concomitante curiosità intellettuale, dall’intenzione di essere uno scrittore, e dalla parallela smania di conoscere e frequentare anche letterati, scrittori e maestri del pensiero.

La casa dei Boswell costruita da Alexander, padre dello scrittore, nel 1775

Se pure nel corso dei suoi tanti viaggi in Europa, mosso dalla voglia di conoscere altezze reali e grandi esponenti della nobiltà, visitò, soprattutto in Germania, molte illustri corti, altrettanto puntuali erano le sue frequentazioni culturali di biblioteche e monumenti.
Di tutti i suoi spostamenti teneva resoconti vivacissimi, diari che si dimostrarono degni di uno scrittore di razza.
Nel “Diario londinese”, riportava un aneddoto che ben illustrava la duplicità di un temperamento come il suo, interessato a tutti gli aspetti della vita, quelli leggeri come quelli più seri ed impegnativi.
Confessava infatti in quelle pagine di aver tentato più volte degli approcci galanti con una bella attrice, Louise, uno dei quali era sul punto di ottenere pieno successo.
L’arrivo improvviso della padrona di casa scompigliò malauguratamente i suoi piani, così che, trovandosi a disposizione del tempo libero, Boswell trovò modo di compensare la mancata gratificazione sensuale con un’altra, opposta, di genere spirituale: si ficcò nella chiesa del Covent Garden e assistette, compunto e devoto, alla messa.

Famosa restò la sua amicizia col critico letterario, scrittore, poeta, saggista ed altro ancora, Samuel Johnson, forse il più illustre letterato inglese del suo tempo.

Samuel Johnson

Il Dottor Johnson era notoriamente di carattere difficile e la sua lingua pungente lo rendeva un personaggio temutissimo.
Se a queste aspre caratteristiche si aggiunge il fatto che l’uomo aveva un forte pregiudizio ed una spiccata antipatia per gli scozzesi, tanto più appare un capolavoro la capacità che, come sempre, Boswell dimostrò nel renderglisi simpatico, diventando suo amico, confidente, sodale e compagno di viaggi e di bisbocce.
Una incisione dell’epoca mostra i due camminare a braccetto per strada, evidentemente alticci, con Boswell, più giovane ma già rotondetto, con un mezzo sorriso in volto.

Di Samuel Johnson poi, nel 1791, lo scozzese scrisse una biografia fondamentale, da molti ritenuta la più bella di tutte le letterature, anche perché originale nella struttura.
Insolitamente costruita, infatti, in forma di dialogo, l’opera riporta le vicende salienti riguardanti il protagonista, ma illustra anche le sue idee, le considerazioni e le sue emozioni, fornendo contemporaneamente un quadro vivido della società inglese del Settecento.
Come si è già detto, si devono a Boswell anche due preziosi ritrattini di prima mano dei colossi del pensiero illuminista, Rousseau e Voltaire, che vivevano allora in una sorta di confino in Svizzera, a poca distanza l’uno dall’altro.
Sfruttando la sua capacità comunicativa, la sua naturale facilità a rendersi simpatico, e facendosi precedere da una formidabile lettera di autopresentazione, Boswell riuscì ad incontrare Rousseau, che viveva in una casetta modesta a Motiers, conducendovi una vita assai ritirata in compagnia della sua governante e concubina Thérèse Levasseur.

Thérèse Levasseur e Jean-Jacques Rousseau

Boswell non solo fu capace di farsi ricevere da Rousseau, ma finì per stabilire con lui un rapporto più stretto, di reale familiarità con la vita quotidiana di quella casa e dei suoi due abitanti.
Rivolgendosi al filosofo come ad un maestro di vita, cercò di ottenere da lui una sorta di sua direzione spirituale, tempestandolo di domande sui più disparati argomenti, a volte così fitte ed insistenti da stremare Rousseau.
Certamente lo scambio intercorso tra loro era condizionato da una comune caratteristica, lo spiccato egocentrismo di entrambi che fece sì che ciascuno di essi tentasse di parlare soprattutto di sé.
Boswell si raccontava per strappare a Rousseau giudizi sul suo passato e sue indicazioni per l’avvenire, il filosofo invece, sfruttava la compagnia del suo ammiratore per sfogarsi, per parlare dei suoi malanni fisici e morali, per buttar fuori i suoi rancori e per lamentare congiure tramate ai suoi danni da nemici vecchi e nuovi, presunti o reali che fossero.
La vita nella casa di Motiers fu perfettamente descritta dalla penna vivificante di Boswell nel diario che ne tenne, capace di portare il lettore  a vivere quell’intimità.

James Boswell

Quando il filosofo, qualche tempo dopo, in seguito alle polemiche suscitate nei suoi confronti da un libello, scritto probabilmente da Voltaire sotto pseudonimo, sarà costretto ad accettare l’ospitalità di David Hume in Inghilterra, la familiarità di Boswell con l’ambiente di Rousseau si spinse al punto di accompagnare in viaggio l’amante di lui, Thérèse, che andava a raggiungerlo, e di avere con lei una breve e nascosta relazione.
L’incontro con Voltaire fu molto diverso.
Ciò che segnava uno stacco tra le esperienze fatte da Boswell coi due filosofi, oltre che le differenze caratteriali con Rousseau, erano anche quelle materiali: al contrario della casetta di Motiers, l’edificio di Ferney in cui viveva Voltaire, era una specie di castello, con grandi spazi, servitù e tutto il resto, un ambiente nel quale si faceva una vita non molto diversa da quella che si poteva condurre in una corte.
Naturalmente, questo era un panorama molto più congeniale al mondanissimo Boswell.
Ammesso, “con la sciocca faccia del’attonita ammirazione” alla presenza di Voltaire, dopo un avvio molto formale, la conversazione lasciò infine trapelare qualcosa della prontezza mentale dell’autore del “Candide”, la forza della sua proverbiale arguzia.

Voltaire

Ad un certo punto lo scozzese gli chiese se parlasse ancora l’inglese, Voltaire, mentendo, gli rispose con una battuta: ”No, per parlare l’inglese bisogna mettere la lingua tra i denti, e io non ho più denti”.
Dei giorni trascorsi a Ferney, ospite del “castellano” anche grazie ai buoni uffici di Madame Denis, nipote e amante di Voltaire, Boswell seppe approfittare, inducendo il filosofo ad intraprendere lunghi colloqui con lui, conversazioni che ne rimandavano perfettamente l’indipendenza di giudizio, le passioni civili, il sarcasmo, l’incontinenza verbale e alcune delle sue assolute certezze.
Anche quelle legate al dubbio, ad esempio a quello religioso:

“… Mi sembrate preoccupato di quella cosetta che si chiama anima. Credetemi se vi dico che non ne so nulla, non so se ci sia, non so che cosa sia, non so che cosa ne sarà…”

Questo scrisse Voltaire a Boswell in una lettera facente parte della corrispondenza che, solo per breve tempo, proseguì le loro conversazioni.
Il mondanissimo intellettuale scozzese, dal 1777 al 1783, per conto del London Magazine, scrisse una settantina di saggi e nel 1785 pubblicò un “Diario di viaggio alle Ebridi”, resoconto di un viaggio fatto ancora una volta in compagnia di Samuel Johnson.

Goldsmith, Boswell e Johnson

Nei suoi scritti descrisse molti altri incontri con diverse ed eminenti personalità del suo tempo: Oliver Goldsmith, Joshua Reynolds ed Edmund Burke, tra gli altri, riportando con la consueta vivezza le conversazioni intercorse con essi.
Al termine di tante peregrinazioni a sfondo mondano e culturale, Boswell si stabilì nella sua Scozia, dove si sposò ed ebbe tre figli.
La morte lo raggiunse tuttavia a Londra, nel maggio del 1795, a cinquantacinque anni.

Boswell con la moglie e i tre figli, Veronica (al centro), James (a sinistra), and Elizabeth, tra le braccia della madre

Piermario De Dominicis, appassionato lettore, scoprendosi masochista in tenera età, fece di conseguenza la scelta di praticare uno sport che in Italia è considerato estremo, (altro che Messner!): fare il libraio.
Per oltre trent’anni, lasciato in pace, per compassione, perfino dalle forze dell’ordine, ha spacciato libri apertamente, senza timore di un arresto che pareva sempre imminente.
Ha contemporaneamente coltivato la comune passione per lo scrivere, da noi praticatissima e, curiosamente, mai associata a quella del leggere.
Collezionista incallito di passioni, si è dato a coltivare attivamente anche quella per la musica.
Membro fondatore dei Folkroad, dal 1990, con questa band porta avanti, ovunque si possa, il mestiere di chitarrista e cantante, nel corso di una lunga storia che ha riservato anche inaspettate soddisfazioni, come quella di collaborare con Martin Scorsese.
Sempre più avulso dalla realtà contemporanea, ha poi fondato, con altri sognatori incalliti, la rivista culturale Latina Città Aperta, convinto, con E.A. Poe che:
“Chi sogna di giorno vede cose che non vede chi sogna di notte”.


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