Carlo Collodi e il libro universale

“C’era una volta …

Un re! – diranno subito i miei piccoli lettori.
No, ragazzi, avete sbagliato.

C’era una volta un pezzo di legno.
Non era un legno di lusso, ma un semplice pezzo da catasta, di quelli che d’inverno si mettono nelle stufe e nei caminetti per accendere il fuoco e per riscaldare le stanze.
Non so come andasse, ma il fatto gli è che un bel giorno questo pezzo di legno capitò nella bottega di un vecchio falegname, il quale aveva nome mastr’Antonio se non che tutti lo chiamavano maestro Ciliegia, per via della punta del suo naso, che era sempre lustra e paonazza, come una ciliegia matura”.

Che incipit! Che meravigliosa prosa, non è così?
Semplice, pulita ed incisiva, in poche righe ti mette già dentro la storia che verrà, disponendoti bene ed instillandoti subito la voglia di conoscerne il seguito.
E’ insomma un incipit irresistibile.
Tutti i ragazzini che ai tempi della mia fanciullezza (che termine desueto, penso, mentre lo scrivo) avevano la passione del leggere, hanno fatalmente incontrato quelle righe e, felici, si sono cacciati dentro quella straordinaria storia, tanto seduttiva da diffondersi in tutto il mondo, regalando piacere e qualche insegnamento morale a moltissime generazioni.

Anche oggi, per via delle infinite trasposizioni in film, fumetti ecc, ricavate da quella appassionante fiaba, quasi tutti i bambini sanno chi è Pinocchio.

Dovevo avere circa otto anni quando mi fu regalata la prima copia del libro di Collodi:
A suo tempo avevo scalpitato per imparare a leggere, così i miei, con un escamotage mi iscrissero alla prima elementare a cinque anni, con un anno di anticipo sulla norma.

Appresa l’arte non la mollai più, cosicché, quando ebbi in mano “Pinocchio” avevo alle spalle molta passione già soddisfatta e, dunque, molte letture fatte.

Quello che intrapresi con “Pinocchio” fu però tutt’altro viaggio.
Divoravo la storia, consumando emozioni a tutto andare: emozioni ad ogni riga, emozioni che crescevano e si facevano palpitanti per ognuno dei numerosi colpi di scena che il racconto conteneva.
Anche se la mia lettura era ovviamente tutta concentrata sulla trama e sulla divorante curiosità di sapere come sarebbero andate le cose, quali sviluppi, cioè, avrebbe avuto l’avventura, in qualche modo godevo anche dello stile letterario del libro, mi rendevo conto, senza esserne cosciente, della sua importanza e della sua funzione.
La facilità e la nitidezza della scrittura di Collodi rendevano la lettura facile e divertente come lo scivolare sulla neve o da un pendio erboso con uno slittino.

Da adulto, troppi anni dopo il mio primo incontro, sedotto da una ristampa anastatica della prima edizione di “Pinocchio”, lo volli rileggere.
Volevo trovare la causa del mio innamoramento infantile per quel testo, capirne il perché.
Era un esperimento che avevo già fatto con altri libri, sempre deluso, concludendo, convinto, che per leggerli e apprezzarli ci fosse una sola età consentita, quella di bambino.

Con “Pinocchio” è andata molto diversamente: se possibile, la mia lettura è stata ancora più gratificante di quella infantile perché stavolta, da adulto e da lettore consumatissimo, oltre alla narrazione mi sono goduto lo stile, e l’ho goduto moltissimo, fino all’ultima riga.

Per la naturale immedesimazione che porta chiunque a condividere il senso della sua storia, ho dovuto nuovamente concludere che si tratta di uno dei pochi libri davvero universali.

Così mi sono ripromesso di parlare brevemente di Carlo Collodi e della sua vita, di farlo a beneficio di chi volesse saperne di più sulla figura dell’uomo che seppe immaginare quelle fantastiche peripezie, scrivendo la magnifica storia.

Il nostro autore in realtà si chiamava Carlo Lorenzini e nacque a Firenze nel novembre del 1826.
Sua madre, Angelina Orzali, maestra elementare, non insegnò mai, facendo invece la cameriera nella tenuta dei Garzoni Venturi, appartenente ad un illustre casato toscano, del quale suo padre fu amministratore.
Quel podere si trovava a Veneri, alle porte del paese di Collodi.

La sua vita di bimbo in quella tenuta, non verrà mai dimenticata da Carlo, resterà un ricordo tenero, al punto che, molto tempo dopo esserci vissuto, da quella località egli trasse il suo celebre pseudonimo.

Vista panoramica di Collodi

Successivamente Angelina passò al servizio della ricca famiglia Ginori di Firenze, presso la quale suo marito, Domenico Lorenzetti, aveva le mansioni di cuoco.

Carlo sarà primogenito dei ben dieci figli avuti dai due, che formarono una famiglia decisamente perseguitata dalla sorte: sei di quei dieci figli, infatti, morirono in tenera età.
Gli anni dell’infanzia Carlo li vivrà prevalentemente a Collodi, affidato alla famiglia materna e frequentando le locali scuole elementari.
Di carattere vivace e poco disposto ad accettare l’autorità, potè studiare solo grazie all’aiuto dei Ginori, entrando in seminario a Colle Val d’Elsa.

Naturalmente, dato il suo temperamento, non arrivò ad esser prete, ma da quei cinque anni trascorsi in quella severa istituzione ecclesiastca, egli trasse una ottima istruzione, completata in seguito dagli studi di filosofia e retorica che compì presso la scuola religiosa dei Padri Scolopi a Firenze.

A diciotto anni interruppe gli studi superiori, anche perché già da qualche tempo lavorava in una libreria fiorentina.
Aveva cominciato a scrivere.
Curiosamente fu la musica l’argomento delle sue prime prove di giornalista.

Pubblicò diversi articoli per la rivista “L’Italia musicale”, riuscendo in poco tempo a divenire una firma di richiamo, orientando un serrato dibattito culturale con gli scapigliati milanesi, coi quali disserterà sul ruolo del teatro musicale e sulla letteratura contemporanea.

Cullatosi da sempre nelle idee mazziniane, allo scoppio della Prima guerra d’indipendenza si arruolò volontario e col battaglione toscano partecipò alle battaglie di Curtatone e Montanara.

A guerra terminata, nel 1848, Carlo tornò a Firenze e fondò un giornale politico umoristico che si impose tra i maggiori di quel genere: “Il Lampione”, foglio che doveva “far lume a chi brancolava nelle tenebre” dopo la temporanea restaurazione granducale.

Il giornale, non certo per caso, venne soppresso dopo appena un anno di vita: le idee che diffondeva, le sue invenzioni satiriche ed il suo convinto impegno risorgimentale, non potevano ovviamente essere ben viste nel Granducato di Toscana.
Di conseguenza lo scrittore prese a spostarsi molto, trascorrendo molto tempo a Milano e a Torino.

Dotato di una vena umoristica assai viva, trovò nel settore giornalistico satirico-umoristico la sua principale risorsa, collaborando con numerosi giornali, quelli che trattavano con piglio leggero svariati argomenti culturali, che potevano essere letterari, artistici o teatrali.

Nei suoi pezzi, pubblicati da riviste come “L’Arte”, “La Scena”e “La Lente”, Carlo raccontò la realtà toscana di allora, e non solo quella artistica, cogliendola nei suoi aspetti più bizzarri e divertenti, narrando intrighi e storielle da caffè con un umorismo potenziato da grandi invenzioni linguistiche.

La testata della rivista “La lente” del 12 Gennaio 1860

Molto di quello che ricavò da quella vera e propria palestra giornalistica che furono le sue esperienze di scrittura nei periodici, lascerà una forte traccia nel suo futuro capolavoro.
Nel 1856, in un pezzo per “La Lente” usò per la prima volta lo pseudonimo di Collodi.

Il suo impegno narrativo puntava ormai ad andare oltre la forma articolo, e crebbe fino a produrre le sue prime opere consistenti: “Gli amici di casa” e “Un romanzo a vapore: Da Firenze a Livorno: Guida storico-umoristica”.

In virtù di quest’ultimo libro lo scrittore riuscì ad essere uno dei primi a narrare l’impatto che ebbe la rivoluzione tecnologica ferroviaria sulla società italiana di allora.

Coerente con le idee risorgimentali professate da sempre, nel 1859 Collodi si arruolò nuovamente come volontario allo scoppio della Seconda guerra d’indipendenza.

Al termine di quella seconda esperienza bellica, tornò a Firenze e gli venne affidato il ruolo di censore teatrale.
Poco tempo dopo gli fu chiesto dal Ministero della Pubblica Istruzione di entrare a far parte del novero dei redattori che stavano compilando il “Novo vocabolario della lingua italiana secondo l’uso di Firenze”, un’opera che si prefiggeva di accogliere in un dizionario i termini della lingua parlata.
In quegli anni, che coincisero col primo periodo in cui l’Italia fu uno stato unitario, Collodi fu dunque un funzionario statale.
Venne incaricato di tradurre le più celebri fiabe francesi.
Prese così sul serio quell’impegno da completare quelle fiabe inserendovi una morale finale, ma rispettando in pieno la loro sostanza narrativa.

Ne venne fuori un volume dal titolo “I racconti delle fate” che raccoglieva racconti di Perrault, della Leprince de Beaumont e della d’Aulnoy”.

Venne pubblicato dal libraio ed editore fiorentino Felice Paggi, segnando così l’inizio di una sua collaborazione con Collodi che avrebbe dato in seguito il suo frutto più succoso.
Questo lavoro comunque ebbe anche la funzione di rivelare allo scrittore quale fosse la sua più autentica vocazione, quella, cioè, per la letteratura per l’infanzia.
Da quel momento in poi vi si dedicò con passione, e negli anni seguenti scrisse e pubblicò due romanzi per ragazzi: “Giannettino”, del 1875 e “Minuzzolo”, uscito nel 1877.

Quest’ultima opera conteneva dei tratti che anticipavano in una certa misura alcuni dei temi che sarebbero riapparsi nel suo maggior romanzo.

Minuzzolo, infatti, è un ragazzo refrattario al buon esempio, irridente nei confronti della morale borghese, al quale, per via del suo carattere ribelle, tutti si prodigano ad insegnare qualcosa.

L’edizione di Minuzzolo di Felice Paggi

Nel testo, oltre al ribellismo che definirà più tardi anche il carattere del più celebre burattino del mondo, proprio come avvenne poi nel più importante romanzo di Collodi, tra i protagonisti maggiori si ritrovava anche un animale, Baffino, che è un ciuchino.
Nell’intento di stimolare i ragazzi alla lettura, il romanzo abbondava anche di riferimenti ed episodi legati alla storia romana antica.

La maturazione di Collodi come scrittore per l’infanzia era ormai compiuta ed ebbe a rivelarsi subito dopo, con una vera e propria folgorazione letteraria: nel 1881, col titolo di “Storia di un burattino”, cominciò sul “Giornale dei bambini” la pubblicazione di “Pinocchio”.

Lo scrittore iniziò quel lavoro quasi di malavoglia, definendo l’opera che stava scrivendo come “una bambinata”.
Era così poco convinto che, alludendo alla sua storia, disse al direttore del giornale:

“Fanne quello che ti pare, ma se la stampi, pagamela bene, per farmi venire voglia di seguitarla”.

Il romanzo invece crebbe bene, sviluppandosi per quindici capitoli e concludendosi drammaticamente con l’episodio dell’impiccagione del protagonista e, conseguentemente, con la sua morte.

Le proteste dei piccoli lettori del giornale furono così numerose ed accorate da indurre l’autore a proseguire il racconto originale, portandolo a quello che, con la trasformazione del burattino Pinocchio in bambino, restò il suo epilogo definitivo.

Il libro che raccoglieva per intero il romanzo, fu pubblicato nel 1883 dal solito Felice Paggi, corredato dalle celebri illustrazioni di Enrico Mazzanti.

La prima edizione di Pinocchio

Il successo fu immediato e clamoroso, tale da far sì che “Pinocchio”, negli anni successivi e fino ai giorni nostri, fosse pubblicato in 187 edizioni e tradotto in 260, tra lingue e dialetti.

Collodi. mai stanco di impegnarsi, assunse in seguito, e fino al 1886 la direzione del “Giornale per i bambini”.

Era all’apice del successo, un successo internazionale del quale tuttavia non potè godere a lungo: un giorno di ottobre del 1890, Collodi, rientrando in casa, fu folgorato da un aneurisma, morendo proprio sull’uscio della sua abitazione.

Avrebbe compiuto sessantaquattro anni in novembre.

Caricatura di Carlo Collodi – Tricca

Il suo “Pinocchio” sarebbe divenuto, come si è già detto, un eroe universale ed il romanzo, oltre alle centinaia di traduzioni e pubblicazioni editoriali, tra le quali alcune a fumetti, sarà mille volte trasposto in versioni per il cinema e per la televisione.
Tra queste trasposizioni dell’opera, per via del successo mondiale che ebbe, va menzionato il famoso cartone animato della Disney.

Il Pinocchio Disneyano

Nel romanzo “Pinocchio” confluiscono varie influenze, e ad onta del suo stile scoppiettante, leggero e denso di fiorentinismi, in una certa misura il racconto raccoglie gli echi della letteratura ottocentesca per ragazzi, che, soprattutto con Dickens e i suoi giovani protagonisti, aveva assunto connotazioni tristi o addirittura crudeli.

Non mancano infatti, anche nel romanzo di Collodi, colpi di scena negativi, col piegarsi della sorte del burattino a disgrazie improvvise, immediatamente smentite da altrettanti salvataggi miracolosi.
Che “Pinocchio” non fosse solo un libro per bambini, lo dimostra anche l’intenzione originaria del suo autore di farlo terminare con l’impiccagione del burattino.

Questa ricchezza di contrasti e di toni nella trama del romanzo ha spinto alcuni commentatori a concludere che più che una favola per bambini e al di la della sua natura di romanzo di formazione, Pinocchio fosse un’allegoria della società moderna, un testo che, con uno sguardo impietoso sui contrasti tra rispettabilità borghese e libertà dell’istinto, andava a squarciare un velo sull’ossessione ottocentesca per la forma.

Ma naturalmente ad ogni lettore corrisponde una diversa lettura e differenti conclusioni sulla natura di un’opera letteraria.

Anche un critico come Marco Belpoliti, mettendo in dubbio che quel romanzo appartenesse esclusivamente all’infanzia, definisce Pinocchio “un eroe della fame”, ricordando che soffrendo di quel male anche l’adulto Geppetto, questi aveva messo sul focolare acceso una pentola disegnata sul muro:

“La casa di Geppetto era una stanzina terrena, che pigliava luce da un sottoscala. La mobilia non poteva essere più semplice: una seggiola cattiva, un letto poco buono e un tavolino tutto rovinato.
Nella parete di fondo si vedeva un caminetto col fuoco acceso; ma il fuoco era dipinto, e accanto al fuoco c’era dipinta una pentola che bolliva allegramente e mandava fuori una nuvola di fumo, che pareva fumo davvero.”

Una foto della folla intorno al Monumento a Pinocchio a Collodi scattata il giorno dell’inaugurazione alla presenza del Presidente della Repubblica Giovanni Gronchi, il 14 aprile 1956.

Piermario De Dominicis, appassionato lettore, scoprendosi masochista in tenera età, fece di conseguenza la scelta di praticare uno sport che in Italia è considerato estremo, (altro che Messner!): fare il libraio.
Per oltre trent’anni, lasciato in pace, per compassione, perfino dalle forze dell’ordine, ha spacciato libri apertamente, senza timore di un arresto che pareva sempre imminente.
Ha contemporaneamente coltivato la comune passione per lo scrivere, da noi praticatissima e, curiosamente, mai associata a quella del leggere.
Collezionista incallito di passioni, si è dato a coltivare attivamente anche quella per la musica.
Membro fondatore dei Folkroad, dal 1990, con questa band porta avanti, ovunque si possa, il mestiere di chitarrista e cantante, nel corso di una lunga storia che ha riservato anche inaspettate soddisfazioni, come quella di collaborare con Martin Scorsese.
Sempre più avulso dalla realtà contemporanea, ha poi fondato, con altri sognatori incalliti, la rivista culturale Latina Città Aperta, convinto, con E.A. Poe che:
“Chi sogna di giorno vede cose che non vede chi sogna di notte”.

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