La memoria salvata di Elias Canetti

Non sono mai stato interessato a leggere libri in prestito.
La voracità del lettore accanito non è infatti l’unico elemento che caratterizza il mio legame coi libri.
Quest’ultimo è un rapporto che presenta anche dell’altro: ad esempio una forte componente di attrazione fisica ed estetica per l’oggetto libro.
Ne amo infatti l’odore, l’aspetto, le seduzioni materiali, la qualità della carta o quella delle eventuali illustrazioni.
Amo possedere i libri.
Da romantico quale sono, ho un tratto temperamentale che mi rende geloso: preferisco essere il proprietario delle opere che leggo piuttosto che lettore a scrocco.
Soffrirei infatti nel rendermi conto, pagina dopo pagina, che il libro prestatomi e che sto leggendo con piacere, non mi appartiene.
Questa consapevolezza mi tornerebbe continuamente in mente, tormentandomi, ed il rammarico che quel volume non sia mio crescerebbe col crescere del mio apprezzamento nei suoi confronti.
Eppure alcuni dei libri che mi hanno più appassionato mi furono prestati.
Fu proprio così che molti anni fa mi trovai a leggere, anzi, letteralmente a divorare, le tre opere che compongono l’autobiografia di Elias Canetti.

Elias Canetti

Quei libri furono infatti il prestito di una mia cara amica, appena uscita, affascinatissima, dalla loro lettura e che riuscì ad incuriosirmi al punto che accettai immediatamente l’idea di leggerli attraverso le sue copie, risparmiando il tempo e il fastidio di procurarmele.
Le debbo ancora gratitudine per quel contagio, innanzitutto, e per quel prestito: affrontare quella lunga autobiografia fu per me una sorta di felicissima full immersion, un volo radente su oceani di parole.
Sbranati uno dopo l’altro in una sorta di trance da lettura, quei libri, attraverso il racconto che Canetti faceva di un significativo tratto della sua vita, mi restituirono l’immagine di un’epoca e dei tanti mondi che la caratterizzarono.
La narrazione era condotta con un nitore, una vivezza ed una eleganza straordinarie: tutti frutti di una scrittura meravigliosa.
A quel tempo, dell’autore di quei tre libri: “La lingua salvata”, “Il frutto del fuoco” e “Il gioco degli occhi”, sapevo solo che era assai stimato ed ero a conoscenza del fatto che nel 1981 aveva ricevuto il Premio Nobel per la Letteratura.

Scoprii che la vita di Canetti raccontata da Canetti, era straordinariamente affascinante: iniziata in una zona dell’Europa dell’Est, zeppa di confini, lingue e commerci, è stata poi  vissuta nei maggiori centri culturali europei del Novecento e arricchita dall’incontro con grandi personalità.

Già la nascita e la prima infanzia dello scrittore, splendidamente raccontate ne “La lingua salvata”, forse il più letterario dei tre libri, ci catturano in un gioco di alta seduzione narrativa perché parlano di un mondo particolarissimo, quello cioè delle comunità ebraiche dell’Europa orientale,  mostrandone tutta la poliedricità. 

La madre Mathilde Arditti con Elias a sinistra, Georges e la sorella

Canetti nacque infatti a Ruse, in Bulgaria, nel 1905, da una famiglia ebraica di origine spagnola.
I suoi antenati, i Cañete, come si scriveva in Spagna, nel 1492, come tanti correligionari, subirono  l’espulsione dalla penisola iberica e giunti infine nella nuova terra di residenza, modificarono il loro cognome in Canetti.
La lingua madre di Elias, nato in Bulgaria, figlio di Jacques e della ebrea livornese Mathilde Arditti, entrambe persone colte e di mentalità aperta, fu dunque lo spagnolo, anzi, per precisione, il giudaico spagnolo. 

Un mosaico di linguaggi sembrava del resto caratterizzare quella famiglia, ma si sa che per gente dedita ai commerci, come ad esempio era suo nonno, usare più lingue era una reale necessità di sopravvivenza.
Appreso il bulgaro per ovvie ragioni, da ragazzo Canetti cominciò a studiare anche l’inglese in vista di un trasferimento per lavoro a Manchester di suo padre, condiviso con gioia da sua madre, una donna colta e liberale, felice di sottrarre i figli all’influenza bigotta del nonno paterno.

Elias Canetti

Ma nella babele di idiomi che si parlavano in quella regione, per Elias fu il tedesco la lingua della fascinazione, quella da apprendere, da fare propria.
Era infatti la lingua in cui comunicavano tra loro i suoi genitori, quella che escludeva tutti gli altri dal loro rapporto più intimo.
Quella divenne dunque il misteroso linguaggio che il figlio voleva decifrare a tutti i costi. Ci riuscì al punto di diventare, scrivendo in tedesco, una figura di primissimo piano della letteratura internazionale. 

Il padre Jacques Elias Canetti

La morte improvvisa di suo padre diede inizio alle peregrinazioni familiari e i Canetti si spostarono prima a Vienna, poi a Zurigo, dove Elias visse, tra il 1916 ed il 1921 anni sereni, seppur molto segnati dal complesso rapporto di dipendenza reciproca con la madre, soggetta a crisi depressive.
Fu un rapporto peculiare, che riguardò esclusivamente loro due, non toccando  mai i fratelli minori dello scrittore.
A Francoforte dove pure soggiornò per qualche tempo, si trovò ad assistere alle manifestazioni popolari seguite all’assassinio di un ministro, Walther Rathenau: fu quello il suo primo contatto con le masse, un’esperienza che lo impressionò e che sarebbe stata determinante nel risvegliare in Canetti l’interesse per le logiche di massa, interesse che sfociò in seguito nel suo corposo saggio “Massa e potere”, uno studio al quale lavorò per quarant’anni. 

Georges, il fratello

Dal 1924 si stabilì a Vienna col fratello Georges, laureandosi in chimica. Quello viennese fu un lungo periodo, fondamentale per il suo destino e per la sua formazione, caratterizzato dalla progressiva integrazione negli ambienti intellettuali della capitale austriaca.
Lesse le opere di Weininger, Freud e Schnitzler e frequentò assiduamente le conferenze domenicali dello scrittore e  polemista Karl Kraus, nel corso delle quali conobbe Venetiana Taubner Calderon, detta Veza, una scrittrice ebrea che sposò nel 1934, nonostante la contrarietà di sua madre.

Venetiana Taubner Calderon, detta Veza

In quegli anni cominciò a lavorare al già citato saggio su Massa e potere e nel 1928 si trasferì per lavoro a Berlino, come traduttore di libri di autori americani.
Anche nella capitale tedesca fece incontri importanti con figure di primo piano della cultura dell’epoca: conobbe Bertolt Brecht, Isaak Babel’ e il pittore satirico Georg Grosz.

Il pittore Georg Grosz

Conseguire il dottorato in chimica non comportò alcun cambiamento lavorativo in quanto, nonostante fosse quello il campo dei suoi studi, i suoi interessi reali rimanevano focalizzati sulla letteratura.
Agli inizi degli anni Trenta iniziò la stesura del suo lungo romanzo “Die Blendung”, che letteralmente vorrebbe dire, l’Accerchiamento, pubblicato nel 1935, ma che da noi venne poi tradotto col titolo di “Autodafé”.

L’opera, caratterizzata da una grande forza espressiva e da alcuni elementi grotteschi e demoniaci, risentiva palesemente dell’influenza della grande letteratura russa del secolo precedente, segnatamente dell’influsso gogoliano e, ancor di più, di quello di Dostoevskij.  

Nel frattempo Canetti era tornato a Vienna e aveva ripreso le sue frequentazioni col mondo culturale e letterario viennese, incontrando costantemente, tra gli altri, Anna e Alma Mahler, figlia e moglie del compositore, il pittore e scultore Fritz Wotruba e lo scrittore Robert Musil. 

“Nozze”, il suo primo lavoro teatrale uscì nel 1932, seguito, due anni più tardi, da “La Commedia della vanità”. 

La morte di sua madre, avvenuta a Parigi nel 1937, segnò profondamente lo scrittore e non a caso, scrivendo la sua già citata autobiografia in tre libri, la farà terminare, interrompendola per sempre, proprio con quell’evento. 

L’anno successivo, in seguito all’Anschluss, ovvero all’annessione dell’Austria al Reich nazista, l’ebreo Canetti, per ragioni più che intuibili, abbandonò Vienna, emigrando prima a Parigi, poi a Londra.

Per altri vent’anni si dedicò quasi esclusivamente a completare il suo monumentale progetto di saggio sui rapporti tra massa e potere:  il libro che intitolò appunto “Massa e potere”, venne infatti  pubblicato solo nel 1960. Complesso, rigoroso e interdisciplinare, il saggio si proponeva di arrivare allo studio del potere attraverso la definizione della massa e della sua natura.
Nel frattempo, nel 1952, Canetti aveva ottenuto la cittadinanza britannica, anche se continuò sempre a scrivere in tedesco.

Nel 1954, un lavoro svolto in Marocco al seguito di una troupe cinematografica, si tradusse in uno dei più incantevoli libri di viaggio che io abbia mai letto, ovvero il suo “Le voci di Marrakesh”, nel quale la sua pulitissima scrittura riesce a cogliere e restituire i suoni, gli odori, i colori, le vite segrete e quelle pubbliche, tutti gli elementi insomma, delle cangianti atmosfere di un luogo affascinante. 
Due anni dopo ad Oxford si tenne la prima del suo dramma teatrale “Vite a scadenza”.
Nel 1963 sua moglie Veza si tolse la vita, a causa forse di un matrimonio che pur caratterizzato da uno storico legame d’amore e di complicità intellettuale, veniva messo in pericolo dai frequenti tradimenti del marito.
Canetti si risposò otto anni dopo con Hera Buschor, che gli diede anche una figlia, Johanna.

Canetti e Hera Buschor,

Molti e prestigiosi furono i riconoscimenti tributati al suo lavoro nell’ultima parte della sua vita. Essi culminarono nel 1981 con l’assegnazione a lui del Premio Nobel per la Letteratura. 

Rimasto ancora una volta vedovo nel 1988, Canetti si trasferì a Zurigo, città dove in gioventù aveva vissuto alcuni anni felici, e dove nel 1994 morì.
Oggi riposa nel cimitero locale, accanto a James Joyce.

Piermario De Dominicis, appassionato lettore, scoprendosi masochista in tenera età, fece di conseguenza la scelta di praticare uno sport che in Italia è considerato estremo, (altro che Messner!): fare il libraio.
Per oltre trent’anni, lasciato in pace, per compassione, perfino dalle forze dell’ordine, ha spacciato libri apertamente, senza timore di un arresto che pareva sempre imminente.
Ha contemporaneamente coltivato la comune passione per lo scrivere, da noi praticatissima e, curiosamente, mai associata a quella del leggere.
Collezionista incallito di passioni, si è dato a coltivare attivamente anche quella per la musica.
Membro fondatore dei Folkroad, dal 1990, con questa band porta avanti, ovunque si possa, il mestiere di chitarrista e cantante, nel corso di una lunga storia che ha riservato anche inaspettate soddisfazioni, come quella di collaborare con Martin Scorsese.
Sempre più avulso dalla realtà contemporanea, ha poi fondato, con altri sognatori incalliti, la rivista culturale Latina Città Aperta, convinto, con E.A. Poe che:
“Chi sogna di giorno vede cose che non vede chi sogna di notte”.

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