Il caffè, i caffè e “Il Caffè”

Ogni mattina, insieme con svariati milioni di persone, consumiamo il rito italianissimo del caffé.
Dalle sette in poi, in quelle che per loro sono le ore di punta, i bar si affollano di persone sgomitanti che dopo aver contemplato per un po’, con impazienza mal nascosta, le terga di chi li precede, cercano di guadagnare a loro volta il bancone.
E’ una breve, ma decisa marcia tesa ad afferrare un cornetto tra i tanti che, farciti o meno che siano, occhieggiano sornioni verso di noi, e, soprattutto, a farci servire la preziosa bevanda energizzante.

A questa marea di consumatori fedelissimi, che ritengono assolutamente fondamentale per il  prosieguo della loro giornata, scolare il caldo e nero contenuto della bramata tazzina, dirà poco o nulla il nome di Prospero Alpini, eppure a quell’uomo si deve l’origine della loro quotidiana abitudine.
A quel benemerito si deve infatti la scoperta del caffè, ovvero la conoscenza botanica della sua pianta, ciò che, insomma, ha permesso la penetrazione in Europa, e ancor prima, in Italia, dell’aromatica bevanda che se ne poteva trarre.


Tutto avvenne nel diciassettesimo secolo.

Promotore decisivo della nuova rotta del gusto e degli affari, Prospero Alpini, appunto, era un medico di Marostica che seguì al Cairo, il patrizio veneziano Giorgio Elmo, divenuto nel 1580 console in Egitto della Repubblica Serenissima.
Oltre ad essere il medico personale del console, Alpini era anche un appassionato cultore della botanica, campo nell’ambito del quale, stando in Egitto, fece ricerche che lo portarono a fare scoperte importanti sulla riproduzione delle palme da dattero, scoperte che aiutarono poi Linneo nella sua opera di classificazione scientifica delle piante.
Questo però non sarebbe ancora sufficiente, come suo titolo di merito, per chi al mattino non apre nemmeno un occhio se non ha prima buttato giù una tazza di caffè.
Al contrario, la memoria di Prospero Alpini sarebbe pubblicamente venerata se tutti sapessero che nel suo “De Medicina Egyptiorum”, stampato a Venezia nel 1591, erano presenti le prime osservazioni sulla pianta del caffè che siano mai state pubblicate in Europa.

Prospero Alpini

Era l’atto che ci consegnava un mondo di gusto, di aromi, e non solo.
Questo evento spiega anche perché furono i veneziani a scoprire e commercializzare per primi il caffè.
Grazie a Prospero Alpini, Venezia divenne infatti il punto di riferimento per tutti i mercanti di caffè, sia di quelli italiani che di quelli delle nazioni dell’Europa centrosettentrionale, che andavano anch’essi scoprendone le virtù.
In seguito se ne sarebbe diffusa la coltivazione nei possedimenti francesi ed olandesi d’oltremare, e nel corso dell’Ottocento avrebbero detto la loro anche i grandi produttori della Capitaneria generale di Cuba, del Regno del Brasile, del Venezuela, delle Indie orientali olandesi e della Ceylon britannica.
L’effetto energetizzante che la bevanda estratta dal caffè produceva, limitò dapprima la sua diffusione al campo strettamente medico, e questo fatto rese molto costoso sorbirla nei primi tempi.
Nel corso di un secolo, però, le cose cambiarono molto in fretta, e non a caso fu a Venezia, prima città a conoscere il caffè, che vennero creati spazi pubblici nei quali lo si potesse gustare.
Di pari passo col diffondersi del consumo del caffè vennero dunque alla luce i primi luoghi destinati alla sua degustazione: le “botteghe del caffè”, dove sorseggiarlo andava di pari passo col fare della buona  conversazione.
Ed ecco che oltre ad essere considerato per le sue proprietà medicinali, il caffè acquistò quindi anche la natura di bevanda sociale, capace, per questo dirompente effetto, di divenire un importante veicolo economico.
Naturalmente, per le ragioni sopra citate, la più antica caffetteria italiana nacque a Venezia: era il famoso Caffè Florian, ancora oggi ubicato nella sua sede storica sotto i portici, inevitabile polo di attrazione per i turisti che a milioni passano per Piazza San Marco.

Dalla Serenissima la cultura del caffè si sparse velocemente in tutta la nostra penisola, così nelle principali città italiane aprirono i battenti altre botteghe divenute poi locali storici: il Caffè Greco a Roma, nato nel 1760, il Caffè San Carlo ed il Fiorio, a Torino, il Caffè Pedrocchi a Padova.
Le caffetterie, grazie alla loro potenzialità “sociale”, divennero presto luoghi in cui ci si poteva rilassare, gustare la meravigliosa bevanda, frequentare gli amici e avere scambi di vedute su ogni possibile argomento.
Presero dunque ad essere ritrovo abituale di cenacoli intellettuali, luoghi nei quali non era difficile incontrare letterati, politici, artisti e filosofi, realtà commerciali che da queste illustri frequentazioni traevano prestigio e fama.
A partire dalla seconda metà del Settecento, dunque, lo stesso tipo di diffusione si ebbe anche nelle più importanti città europee.
Rinomati furono i caffè salotto parigini, sedi di chiacchiericci quanto di complotti, e, normalmente, di vivacissime discussioni tra intellettuali, scienziati, filosofi e artisti.
Il celebre “Procope”, ancora in attività, fu uno di questi, frequentato, tra gli altri, da Franklin e da Voltaire.

Erano luoghi di piacere e di buona conversazione, in grado, naturalmente, di ospitare l’elaborazione ed il confronto di pensiero, di fare da incubatrici a grandi romanzieri come ad accesi rivoluzionari.
Anche in Inghilterra, e forse ancor più che altrove, le botteghe del caffè assunsero la medesima funzione di ritrovi intellettuali, di luoghi di discussione e di confronto di idee.
Non meno importanti e ben frequentati furono i caffè dell’impero austroungarico, in particolare quelli viennesi, ricchi negli arredi, con appesi alle pareti grandi specchi ed  i caratteristici bastoni sui quali erano inchiodati, a disposizione di tutti, i giornali quotidiani.
Ritrovo di artisti e di intellettuali, vedevano non di rado i loro tavolini usati come scrittoi da grandi letterati, come Joseph Roth, ad esempio, che soprattutto nei caffè e negli alberghi scriveva i suoi meravigliosi e melanconici romanzi.
Non a caso, una delle più belle novelle di Stefan Zweig, “Mendel dei libri”, è interamente ambientata in uno storico caffè viennese.

Un Caffè a Vienna

E già si è menzionato il Caffè Greco di Roma, antesignano di una tradizione proseguita nei secoli successivi, fino ai nostri giorni, quella cioè dell’ospitare l’intellighenzia romana, italiana ed internazionale.
Nelle sue sale, come in quelle dell’Aragno, del Caffè Rosati e del Caffè Canova, si formarono cenacoli di scrittori, attori, registi, e sceneggiatori, capaci di produrre libri di grande rilievo, film che avrebbero fatto la storia e, contemporaneamente, di inventare aforismi e battute che circolavano poi in tutto il paese, rimanendo spesso proverbiali.
(qui il link al nostro articolo: “La tazzina e la battuta”)

Intellettuali al Caffè Greco. Si riconoscono tra gli altri: Ennio Flaiano, Vitaliano Brancati, Afro, Carlo Levi, Aldo Palazzeschi e Orson Welles

L’inarrestabile successo del caffè in precedenza aveva comunque dovuto fare i conti con alcune voci nemiche, e forte, in particolare, fu l’avversione nei suoi confronti da parte delle alte e basse sfere del clero, che per anni presero un atteggiamento che si tradusse in aperta ostilità.
A causa delle sue qualità eccitanti, il caffè veniva ritenuto dai sacerdoti “la bevanda del diavolo” e al papa più volte ne era stata proposta la scomunica.

Clemente VIII, che fu pontefice dal 1592 al 1605, era stato spesso spietato nella sua difesa dell’ortodossia cattolica: Giordano Bruno, com’è noto, fece le spese personalmente dell’intransigenza papalina, stessa sorte toccò alla sventurata Beatrice Cenci, parricida per le troppe sevizie patite.
Sottoposto a forti pressioni perché condannasse l’uso del caffè, il Papa ebbe per la nera bevanda l’indulgenza che non ebbe mai per gli uomini.
Spinto a provarlo prima di prendere una decisione, Clemente VIII lo trovò così buono che non vide alcuna ragione per vietarne la degustazione, approvandolo invece come “bevanda cristiana”.
E sentenziò: “Questa bevanda del diavolo è così buona… che dovremmo cercare di ingannarlo e battezzarlo”.

Clemente VIII

Alla funzione sociale del caffè e delle caffetterie, volle riferirsi metaforicamente la rivista che fu il principale veicolo di diffusione del pensiero illuminista in Italia.
“Il Caffè”: così si chiamava infatti un giornale fondato a Milano nel giugno del 1764 dal Conte Pietro Verri, che ne fu anche il principale redattore e finanziatore, e, insieme con lui, da un folto gruppo di intellettuali.
Alessandro Verri, Cesare Beccaria, Gianrinaldo Carli, Giuseppe Colpani, Stefano Lambertenghi, Carlo Sebastiano Carli, Paolo Frisi ed altri ancora, facevano già tutti parte della cosiddetta “Accademia dei Pugni”, che, come si evince dal suo nome, era nata come voce particolarmente polemica nel panorama culturale italiano.

Dall’epoca della pace di Aquisgrana, risalente al 1748, le tensioni tra i principali stati europei si erano allentate e si viveva un periodo di relativa pace che favoriva il diffondersi del nuovo pensiero. Le idee illuministe, nate in Francia, trovarono un ambiente culturale favorevole anche nelle città d’Italia governate da sovrani riformatori.
La Milano settecentesca, in particolare, viveva sotto il dispotismo illuminato di Maria Teresa d’Austria, non ostile al confronto di idee tra il governo e gli intellettuali che proponevano uno svecchiamento ed una razionalizzazione dell’amministrazione statale.
Si poteva dunque tentare di introdurre nel panorama politico e culturale una voce nuova che propugnasse una trasformazione ed una riforma della società.
Mantenendo comunque una certa prudenza politica, e contemporaneamente per eludere la censura che vigeva nella Lombardia asburgica, i Verri e gli altri decisero di stampare le copie del periodico a Brescia, allora in territorio veneziano.

Pietro Verri

Fin dal suo primo numero “Il Caffè” si manifestò come un territorio aperto, non vincolato a trattare tematiche rigide o prefissate, tanto che Pietro Verri nel suo intervento di apertura affermava che il giornale avrebbe contenuto: “Cose varie, cose disparatissime, cose inedite, cose fatte da diversi autori, cose tutte dirette alla pubblica utilità”.
“Il Caffè” si prefiggeva di essere, insomma, una voce viva nelle principali questioni del tempo.
Testimone implicito dell’abitudine alla libera conversazione, ovvero di quel costume che già dal secolo precedente si era sviluppato nelle caffetterie europee, il giornale immaginava di trascrivere le chiacchiere di alto livello e di disparato argomento che avvenivano in una bottega del caffè gestita da un certo Demetrio, un greco di mente aperta che si era trasferito a Milano.
Quel titolo e l’impostazione della rivista erano completamente nuovi per l’Italia e si rifacevano semmai all’esperienza già fatta da alcuni periodici inglesi come “The Spectator” o “The Tatler”, ovvero “Il chiacchierone”, che si presentavano anch’essi come luogo di raccolta delle discussioni culturali, politiche o sociali.
Questo impegno del “Caffè” si espresse in una molteplicità di ambiti, toccando moltissimi e svariati temi.

Cesare Beccaria

Certamente il successo de “Dei delitti e delle pene”, scritto dal redattore Cesare Beccaria lo stesso anno in cui nacque il giornale, diede lo spunto ed il coraggio, soprattutto ai due Verri, per intraprendere una lotta contro la legislazione retrograda di quell’epoca.
Anche la questione della lingua fu affrontata con decisione dalla rivista.
Si polemizzò con forza contro la pedanteria ed il formalismo da cui era affetta la lingua italiana di quei tempi, considerati fattori di imbrigliamento e di intorpidimento intellettuale della gioventù.
Più che eloquenti sotto questo aspetto erano articoli come “Rinunzia al Vocabolario della Crusca”, di Alessandro Verri, o “Sui parolai e sullo spirito della letteratura italiana”, di suo fratello Pietro.

Contemporaneamente al rifiuto dei vecchi manierismi letterari, veniva posta così l’attenzione sull’esigenza di disporre di una lingua nuova, che pur non abrogando i canoni classici, fosse più adatta alla nascente società mercantile ed industriale.
La rivista durò una dozzina di anni, chiudendo le pubblicazioni nel 1776.
La evidente vocazione “di servizio” che permeava i redattori de “Il Caffè”, la spinta, cioè, che li portava a voler incidere in senso riformista sulla gestione dello Stato, si tradusse anni dopo nell’impegno diretto di molti di loro nell’amministrazione della cosa pubblica: cervelli a disposizione del riformismo illuminato della Lombardia asburgica.

Grazie a tutti dell’attenzione e della pazienza fin qui dimostrate.
Ora, pausa caffè.

Piermario De Dominicis, appassionato lettore, scoprendosi masochista in tenera età, fece di conseguenza la scelta di praticare uno sport che in Italia è considerato estremo, (altro che Messner!): fare il libraio.
Per oltre trent’anni, lasciato in pace, per compassione, perfino dalle forze dell’ordine, ha spacciato libri apertamente, senza timore di un arresto che pareva sempre imminente.
Ha contemporaneamente coltivato la comune passione per lo scrivere, da noi praticatissima e, curiosamente, mai associata a quella del leggere.
Collezionista incallito di passioni, si è dato a coltivare attivamente anche quella per la musica.
Membro fondatore dei Folkroad, dal 1990, con questa band porta avanti, ovunque si possa, il mestiere di chitarrista e cantante, nel corso di una lunga storia che ha riservato anche inaspettate soddisfazioni, come quella di collaborare con Martin Scorsese.
Sempre più avulso dalla realtà contemporanea, ha poi fondato, con altri sognatori incalliti, la rivista culturale Latina Città Aperta, convinto, con E.A. Poe che:
“Chi sogna di giorno vede cose che non vede chi sogna di notte”.

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