Così si rivolse Beethoven all’allievo Ries che gli portava la notizia che Napoleone Bonaparte si era proclamato imperatore.
Sotto l’effetto negativo della notizia il compositore strappò d’impeto il primo foglio della partitura a cui aveva dato il titolo di “Sinfonia Bonaparte” e lo gettò in terra. Qualche tempo dopo la intitolerà “Sinfonia eroica per il sovvenire di un grande uomo”.
L’atto di autoproclamazione ad imperatore di Napoleone fu per Beethoven il crollo di una illusione, la fine degli ideali repubblicani dell’uomo nuovo, quello nato dall’Illuminismo e dalla Dichiarazione dei diritti dell’uomo. Il sogno, da lui sempre carezzato, di un’umanità uguale e solidale si infranse nel suo animo contro una realtà spietata.
Era proprio Bonaparte il principale motivo di ispirazione di questa sinfonia così ‘rivoluzionaria’, l’altra influenza decisiva era stata, non a caso, quella del mito classico di Prometeo che dona il fuoco agli uomini e per questo viene punito dagli dei.
La sera del 7 aprile 1805, nel Teatro An Der Wien, due secchi accordi introduttivi fecero capire al pubblico che qualcosa era cambiato in Beethoven e di conseguenza anche nel modo in cui da quel momento in poi si farà musica: è come se quei due accordi dichiarassero che il Classicismo era ormai finito e che si stava per entrare in quello che sarà il mondo romantico.
Per la prima volta anche nei giornali non specializzati in musica, si parlerà di una sinfonia e la discussione negli ambienti culturali sarà così accanita che cominceranno a formarsi due fazioni, quella dei conservatori e quella, contrapposta, degli innovatori.
I primi non riuscivano a comprendere l’apparente caos sonoro che sgorgava nel procedere della sinfonia, le sue ruvidezze armoniche e ritmiche, le imponenti masse sonore e infine la strabordante lunghezza dell’opera. I cosiddetti innovatori, invece, ne ammiravano la straordinaria compattezza.
L’Eroica, va ricordato, durava circa cinquanta minuti in un periodo in cui le sinfonie più lunghe sfioravano a malapena i trenta.
Era un lavoro incendiario quello che aveva fatto irruzione nel mondo musicale: da quel momento in poi chi si fosse accostato alla sinfonia come genere, avrebbe dovuto necessariamente tenerne conto.
Un altro particolare che solo alcuni notarono è che “l’Eroica” non aveva un vero e proprio tema principale, ma tanti motivi che nascevano l’uno dall’altro, cosa che per la prima volta si verificava nella storia della sinfonia.
Il primo di questi temi era costituito proprio dall’accordo dei due ruvidi colpi che la iniziavano. Da quei motivi introduttivi Beethoven ricaverà tutte le situazioni ed i passaggi musicali che proporrà nel corso dell’opera e non sarebbe quindi sbagliato dire che tutti i temi svolti nel corso dell’opera derivano da quell’accordo, dando al lavoro il senso della sua unitarietà.
Certo noi conosciamo bene le altre sinfonie importanti di Beethoven: la celebre “Quinta” o “la Pastorale”, con il coro e “l’Inno alla Gioia”, tutte opere meravigliose e ispiratissime, d’accordo, ma la verità è che esse non riuscirono ad essere altrettanto traumatiche per gli orecchi dei suoi contemporanei quanto “L’eroica”.
Beethoven iniziò ad abbozzarla nel 1802 per portarla a termine solo due anni dopo. Alcune esecuzioni private gli servirono a correggere le imperfezioni, sistemando le prime stampe della partitura. Il compositore pretese dall’editore, oltre alle parti degli esecutori, la stampa dell’intera partitura in libretto, in modo che la si potesse seguire come se fosse un vero e proprio libro.Evidentemente da allora la cultura musicale è regredita perché quanti dilettanti saprebbero oggi leggerlo quel libretto?
Il periodo di cui parliamo fu anche quello nel quale Beethoven iniziò a combattere la sua battaglia contro la sordità: data infatti 1802 il famoso “Testamento di Heiligenstadt” col quale rese nota a tutti, parenti e amici che fossero, la sua incipiente menomazione ed il suo isolarsi dalla vita sociale.
Tornando ora alla sinfonia va notato che già nel primo tempo ci viene mostrata da Beethoven la complessità dell’azione e del pensiero umano, che affrontano il destino “prendendolo per la gola” con un’inesauribile sforzo vitalistico teso ad affrontare tutte le asperità con animo sereno perché “In ogni caso la vita è bella e sempre degna di essere vissuta”.
Parole che ci mostrano che Beethoven aveva superato il periodo depressivo del Testamento, momento in cui aveva pensato anche al suicidio, per accostarsi invece alla filosofia del “nonostante tutto” che permeò tutte le sue opere da quel momento in poi, basti pensare alla celebre “Quinta sinfonia”.
Il primo tempo della composizione, dunque, non aveva un tema principale, piuttosto un “motto”, ovvero i due accordi iniziali da cui nascevano tutti i motivi del primo movimento. Questi trovavano il culmine nella parte centrale dove quel motto veniva riproposto continuamente, ma sempre sotto una luce differente.
Il primo tempo si chiudeva con una ripresa finale dei motivi, ripresa che andava a raccogliere tutto il materiale musicale sviluppato in precedenza per portarlo ad una trionfale conclusione.
Il secondo tempo, la celebre “Marcia funebre”, era forse il momento più eroico dell’opera poiché in un certo senso creava l’impressione di assistere alle esequie dell’eroe, in una suggestione che faceva pensare a quella parte dell’Iliade in cui Achille compone le spoglie di Patroclo.
Non mancavano nella Marcia dei momenti di serenità che andavano ad interromperne la solennità, quasi come quei ricordi improvvisi che alleviano la densa mestizia.
Alla fine, spezzettato e piano, riaffiorava il tema iniziale della marcia, quasi che il corteo funebre si allontanasse a poco a poco, svanendo nel silenzio.
Il terzo tempo della sinfonia era uno “Scherzo”, ed in esso non c’era più nulla che ricordasse la danza per come era precedentemente scritta nelle sinfonie, generalmente un minuetto. Si trattava invece di un tempo velocissimo in cui sembravano alternarsi i diversi stati d’animo dell’autore. Veniva da pensare a qualcosa che già anticipava le musiche scritte da Mendelssohn per il “Sogno” di Shakespeare.
Il finale della sinfonia riuniva tutte insieme le variazioni, lo stile fugato e la forma sonata. Il tema principale era quello composto da Beethoven per il finale del balletto “Le creature di Prometeo” musicato qualche anno prima sul testo di Viganò.
Per questo tema egli aveva composto già delle variazioni per pianoforte, qualcosa che si può paragonare ai cartoni che i pittori preparano prima della stesura degli affreschi.
Il tema, di quattro note, spetta alle voci più basse (violoncelli e contrabassi) e moltissime sono le invenzioni musicali dell’autore per farcelo vedere sotto una luce sempre diversa, tanto diversa che in tanti punti si rammenta a fatica il motivo iniziale.
Tali artifici e creazioni non sono naturalmente riducibili ad una natura meramente tecnico-musicale, ma presuppongono sempre una necessità espressiva: è sempre presente la volontà di dire qualcosa all’ascoltatore.
Per la prima volta in tutta un’opera, gli stati d’animo, i sentimenti, non erano racchiusi nelle forme della sinfonia classica ma, al contrario, erano essi che si servivano di tali forme a fini espressivi, per andare oltre, insomma.
La grandezza e l’unicità di questa composizione risiedeva proprio in questo.
Se si volesse usare un aggettivo per definirla, forse il più adeguato sarebbe ‘michelangiolesca’; tanto si sente lo sforzo immane dell’inventiva dell’artista, quasi come nella cappella Sistina.
Considerando che Beethoven stava diventando sempre più sordo, questa sinfonia può dunque essere definita un’opera della mente e dello spirito, della necessità interiore ma anche della ferrea volontà.
Lino Predel non è un latinense, è piuttosto un prodotto di importazione essendo nato ad Arcetri in Toscana il 30 febbraio 1960 da genitori parte toscani e parte nopei.
Fin da giovane ha dimostrato un estremo interesse per la storia, spinto al punto di laurearsi in scienze matematiche.
E’ felicemente sposato anche se la di lui consorte non è a conoscenza del fatto e rimane ferma nella sua convinzione che lui sia l’addetto alle riparazioni condominiali.
Fisicamente è il tipico italiano: basso e tarchiatello, ma biondo di capelli con occhi cerulei, ereditati da suo nonno che lavorava alla Cirio come schiaffeggiatore di pomodori ancora verdi.
Ama gli sport che necessitano di una forte tempra atletica come il rugby, l’hockey, il biliardo a 3 palle e gli scacchi.
Odia collezionare qualsiasi cosa, anche se da piccolo in verità accumulava mollette da stenditura. Quella collezione, però, si arenò per via delle rimostranze materne.
Ha avuto in cura vari psicologi che per anni hanno tentato inutilmente di raccapezzarsi su di lui.
Ama i ciccioli, il salame felino e l’orata solo se è certo che sia figlia unica.
Lo scrittore preferito è Sveva Modignani e il regista/attore di cui non perderebbe mai un film è Vincenzo Salemme.
Forsennato bevitore di caffè e fumatore pentito, ha pochissimi amici cui concede di sopportarlo. Conosce Lallo da un po’ di tempo al punto di ricordargli di portare con sé sempre le mentine…
Crede nella vita dopo la morte tranne che in certi stati dell’Asia, ama gli animali, generalmente ricambiato, ha giusto qualche problemino con i rinoceronti.