La sola menzione del nome di Bach è già sufficiente ad ispirare timore reverenziale in tutti coloro che amano la musica, sia come creatori, sia come esecutori o semplici ascoltatori.
La lista dei suoi lavori è così imponente da fare di lui, senza dubbio, uno dei più grandi geni che il genere umano abbia prodotto.
Si potrebbe trovare significativo il fatto che il lavoro di tutta la sua vita di autore è ben rappresentato nella “summa” del contrappunto, cioè l’arte di combinare due o più linee melodiche, arte che si era accresciuta e sviluppata nella musica dell’Europa occidentale durante tutto il Rinascimento e barocco.
Lo scopo di Bach nell'”Arte della fuga”, scritta proprio alla fine della sua vita, fu di mettere per iscritto un compendio finale delle sue conoscenze nel campo della tecnica e dell’espressione, usando il contrappunto nella creazione di varie fughe.
A differenza di altre composizioni di Johann Sebastian, come i due libri del celebre “Clavicembalo ben temperato”, o i pezzi che compongono l'”Orgelbüchlein”, “L’arte della fuga” non è un’opera con finalità didattiche, in quanto la piena comprensione della sua struttura presuppone una conoscenza avanzata non solo delle tecniche musicali e contrappuntistiche, ma anche di altre conoscenze del tempo.
Le fughe sono semplicemente intitolate “Contrapunctus”, con un numero romano progressivo, in qualche caso con delle descrizioni aggiuntive che indicano anche il tipo di contrappunto utilizzato.
Tutte le fughe, con l’eccezione dell’ultima, incompiuta, utilizzano uno stesso tema o soggetto, di grande semplicità, in Re minore.
“L’arte della fuga”, nel trattare il tema, adopera tutti gli espedienti intellettuali possibili: fughe doppie e triple, stretti di ogni genere, aumentazione e diminuzione, molti tipi di contrappunto con inversione parziale o totale delle tessiture, espedienti tutti derivanti dal soggetto che è esposto proprio all’inizio dell’opera.
Il vero miracolo di Bach è che questi aspetti, apparentemente intellettuali, non sono vuoti espedienti virtuosistici, ma parti integranti di un dramma in musica che ha in sè stesso sufficiente ricchezza di esperienza emotiva per risuonare nelle profondità dell’anima umana!
Bach sembra ad un tempo il più intellettuale ed il più emotivo tra i compositori di tutti i tempi.
Poiché il principale criterio compositivo dell’opera è l’interazione di quattro voci in uno stesso discorso, nessuno strumento o voce umana viene specificato per la sua esecuzione.
Il lavoro è scritto in partitura aperta per quattro voci astratte: Soprano, Contralto, Tenore e Basso.
“L’arte della fuga” non contiene indicazioni sugli strumenti e si adatta all’estensione comunemente disponibile sugli strumenti a tasti del tempo di Bach (clavicembalo, clavicordo o organo).
Si tratta di un’opera che da un punto di vista tecnico pone non poche difficoltà che possono essere affrontate e risolte solo da un esecutore esperto di musica contrappuntistica.
Probabilmente Bach stesso concepì l’opera come eseguibile su un’ampia gamma, se non addirittura su una combinazione variabile di strumenti musicali.
Il compositore non si preoccupò di problemi esteriori pratici, come limitazioni strumentali o vocali di estensione o di tecnica, indicazioni di carattere che potessero essere imposte da un testo, o compiacere il pubblico con brillantezza strumentale o speciali effetti.
L’esatta combinazione strumentale impiegata da una determinata esecuzione, dipende dal punto di vista degli esecutori e delle forze disponibili.
Infatti, “L’arte della fuga” è stata trascritta in quasi tutte le combinazioni possibili, che vanno da un solo strumento a tastiera fino alla grande orchestra e a vari tipi di complessi, come il quartetto d’archi e così via.
Alla fine del percorso c’è poi l’enigma finale dell’opera: Il Contrapunctus XIV, che sembrerebbe una fuga con tre soggetti ma non lo è…
Il titolo “Fuga a 3 soggetti” infatti non è autografo, ma fu dato dal figlio del compositore, Carl Philipp Emanuel Bach.
Negli appunti di Bach, infatti, si fa menzione, a questo proposito, di “una bozza” per una fuga che doveva contenere quattro temi in quattro voci”.
La ricchezza di possibilità contrappuntistiche date dall’uso di quattro soggetti avrebbe probabilmente portato l’opera ad un vertice espressivo ineguagliabile.
È certamente una delle fughe più ampie e sviluppate composte da Bach. Ognuno dei primi tre soggetti ha una esposizione completa: il solenne soggetto I, il fluente soggetto II, e sicuramente non vi è momento più misterioso di quello in cui è introdotto il tema III, sull’acronimo BACH (che secondo la notazione tedesca corrisponde alle seguenti note: B= si bemolle, A= la, C= do e H= si naturale).
Dopo 239 battute, quando egli arrivò al punto in cui i tre temi si combinavano, il manoscritto si interrompeva bruscamente e appariva l’annotazione seguente, scritta da suo figlio, Carl Philipp Emanuel: “In questa fuga, dove il nome B.A.C.H. è introdotto come controsoggetto, il compositore morì”.
Lorenz Mizler, un amico della famiglia Bach, scrisse nel 1754: “La sua ultima malattia gli impedì di completare secondo il suo piano la penultima fuga e di elaborare l’ultima, che avrebbe dovuto contenere quattro temi ed essere invertita continuamente nota per nota in tutte e quattro le parti”.
Fu inoltre scoperto dal musicologo tedesco Martin Gustav Nottebohm, che era possibile che il tema principale di tutta l’opera si combinasse con i primi tre soggetti del Contrapunctus XIV.
Fin ad allora quel tema era apparso, in una delle sue forme, in ognuno dei Contrapuncti, salvo che nel XIV.
Sembra logico supporre che esso dovesse avere un ruolo anche qui.
Si può dunque intuire la volontà di Bach: il Contrapunctus XIV avrebbe dovuto essere una fuga a quattro soggetti, essendo il soggetto IV costituito dal tema base dell’intera opera che nella sezione conclusiva si sarebbe combinato con gli altri, portando il tutto al gran finale: una fuga enorme basata su quattro soggetti!
Sebbene alcuni compositori, fra i quali Busoni nella sua “Fantasia contrappuntistica”, abbiano tentato di terminare il Contrapunctus XIV, per quel che si sappia, pochi si sono avventurati a svolgere fino alla fine l’ultima fuga.
E’ questa un’opera oscura, ancora oggi incompresa, raramente eseguita, complessa fin dalla sua misteriosa e discontinua gestazione, durata presumibilmente una decade e interrotta dalla sopraggiunta morte dell’autore, e da quest’ultimo vissuta come una sfida ai limiti delle proprie capacità creative.
L’intento del compositore tedesco era quello di pubblicare la stesura definitiva dell’opera sulla rivista scientifico-musicale Musikalische Bibliothek per conto della Correspondierende Societät der musicalischen Wissenschaften (Società per corrispondenza di scienze musicali), un circolo intellettuale frequentato da compositori e matematici del quale Bach era membro, e che era stata fondata dall’ amico Lorenz Christoph Mizler, insieme a Giacomo de Lucchesini e Georg Heinrich Bümler.
L’opera, considerata all’epoca l’esempio di uno stile superato, non piacque al pubblico che non la capì e, per giunta, non essendo essa nemmeno compiuta, ebbe un insuccesso tale che le appena trenta copie vendute fino a tutto il 1756 non bastarono nemmeno a ripagare le lastre di rame per l’incisione.
Come afferma Alberto Basso in “Frau Musika” l’opera rappresenta il
“manifesto dell’ars subtilior, della musica che assottigliandosi, riducendosi all’essenziale e all’indispensabile mirando al delicato e all’intimo, si fa silenzio, si organizza in forma talmente pura che il suono pare inafferrabile, ineffabile, le sue strutture irripetibili, […] il suo significato arcano ed occulto come una formula alchimistica”.
Come per molte altre opere di Bach, anche per “L’arte della fuga” vari studiosi evidenziarono la presenza di diversi riferimenti numerologici, che, secondo alcuni, ispirerebbero l’intera sua struttura.
Hans-Eberhard Dentler, ad esempio, individuò una fitta rete di relazioni numerico-simboliche all’interno della raccolta.
L’intera opera, secondo lui, sarebbe infatti strutturata sulla base di elementi e rapporti numerici associati a significati filosofici: unità (conferita dall’adozione di una sola tonalità uniforme), principii speculari, contrappunti (lemma che sarebbe riferito al bilanciamento degli opposti) e musica delle sfere.
Dentler teorizzò così che “l’Arte della fuga” fosse stata scritta per visualizzare principi filosofici pitagorici.
La sua ipotesi si basava sull’amicizia di Bach con Johann Matthias Gesner a Weimar, rapporto che coltivò anche in seguito, dal 1730 in avanti, allorquando il sodale si trasferì come rettore alla Thomasschule di Lipsia, dove Bach era Kantor.
Gesner ebbe così l’opportunità di impartirgli lezioni di filosofia greca, ponendo l’accento sul pensiero di Pitagora.
Sicuramente si nota poi l’influenza sul compositore, del matematico Eulero, conosciuto alla corte di Federico II di Prussia, a Postdam.
Tra gli studenti di Gesner v’era anche Mizler, amico di Bach.
Nel 1738, Mizler, come accennato, fondò un’associazione, la Korrespondierenden Sozietät der musikalischen Wissenschaften, alla quale Bach aderì nel giugno del 1747, e di cui anche Haendel e Telemann erano membri.
La società, proponendosi di conciliare musica, filosofia, matematica e scienze, dedicava un notevole interesse alle teorie pitagoriche e altre filosofie numerologiche, come la Kaballah.
“L’arte della fuga” dunque sarebbe influenzata da idee consimili, costituendo anzi un enigma nel senso classico: un puzzle contenuto all’interno della sua struttura.
Quest’ultima si articolerebbe infatti secondo i rapporti numerici e filosofici di unità, tetraktys (il rapporto di 1,2,3 e 4, disposti a formare il triangolo perfetto), principio speculare, Contrapunctus e Musica delle Sfere.
Il vocabolo stesso “fuga” potrebbe essere interpretato come “volo”, inteso tanto in riferimento alle frasi musicali, quanto all’ascesa dell’anima verso Dio.
Fu il compositore tedesco Salomon Jadassohn, allievo di Franz Liszt, autore di un Manuale di contrappunto, il primo a riconoscere solo nel 1894, cioè ben 143 anni dopo la pubblicazione dell’opera, in un accurato e meticolosamente analitico saggio, l’incomparabile complessità e l’irraggiungibile magnificenza della titanica opera bachiana, e la “multiformità” della sua struttura.
Ma fu solo con l’edizione Breitkopf & Härtel del 1927, curata dal musicologo e compositore svizzero Wolfgang Graeser, che si ebbe la consacratoria presa di coscienza dell’importanza di quest’opera.
Essa venne definita dallo stesso, nella prefazione al volume, come
e ancora
“la più possente della musica occidentale, è il coronamento di uno sviluppo decennale della creazione bachiana, e secolare della storia della musica occidentale; il suo ultimo significato metafisico diviene comprensibile soltanto entro la cornice di questo enorme sforzo creativo: Bach si considerava solo un umile operaio di Dio, eppure, dalle sue mani prodigiose fluisce un torrente, un fiume, un oceano di poesia musicale, quale non era mai stata scritta prima di lui, né mai lo sarà dopo”.
L’Arte della Fuga è un’opera straordinariamente complessa, e, nello stesso tempo, straordinariamente affascinante, di un fascino misterioso, quasi elusivo.
Bach ha voluto sondare tutte le possibilità, sia formali che espressive, dell’arte del contrappunto.
In un certo senso, è come se un grande matematico avesse voluto esplorare tutte le possibilità del calcolo logaritmico, superando tutto ciò che fino a quel momento era mai stato fatto prima di lui, e che lo avesse fatto solo per soddisfare un suo bisogno spirituale interiore.
Bach, con quest’opera, si staglia come un gigante solitario, anche in assenza di alcunchè di romantico e di provocatorio: egli non vuol sfidare niente e nessuno, se non le possibilità musicali in se stesse, in un vortice poliedrico e visionario.
Lino Predel non è un latinense, è piuttosto un prodotto di importazione essendo nato ad Arcetri in Toscana il 30 febbraio 1960 da genitori parte toscani e parte nopei.
Fin da giovane ha dimostrato un estremo interesse per la storia, spinto al punto di laurearsi in scienze matematiche.
E’ felicemente sposato anche se la di lui consorte non è a conoscenza del fatto e rimane ferma nella sua convinzione che lui sia l’addetto alle riparazioni condominiali.
Fisicamente è il tipico italiano: basso e tarchiatello, ma biondo di capelli con occhi cerulei, ereditati da suo nonno che lavorava alla Cirio come schiaffeggiatore di pomodori ancora verdi.
Ama gli sport che necessitano di una forte tempra atletica come il rugby, l’hockey, il biliardo a 3 palle e gli scacchi.
Odia collezionare qualsiasi cosa, anche se da piccolo in verità accumulava mollette da stenditura. Quella collezione, però, si arenò per via delle rimostranze materne.
Ha avuto in cura vari psicologi che per anni hanno tentato inutilmente di raccapezzarsi su di lui.
Ama i ciccioli, il salame felino e l’orata solo se è certo che sia figlia unica.
Lo scrittore preferito è Sveva Modignani e il regista/attore di cui non perderebbe mai un film è Vincenzo Salemme.
Forsennato bevitore di caffè e fumatore pentito, ha pochissimi amici cui concede di sopportarlo. Conosce Lallo da un po’ di tempo al punto di ricordargli di portare con sé sempre le mentine…
Crede nella vita dopo la morte tranne che in certi stati dell’Asia, ama gli animali, generalmente ricambiato, ha giusto qualche problemino con i rinoceronti.