Avendo da piccolo desiderato sopra ogni cosa imparare a leggere per non dover dipendere da nessuno nell’approvvigionarmi di storie, e riuscito infine a rendermi indipendente un po’ prima dell’età canonica, sono ovviamente diventato un lettore onnivoro. Non mi sono quindi richiuso, quindi, in qualche ghetto particolare e ho letto un po’ di tutto, costruendomi, com’è ovvio, dei gusti personali, senza disdegnare alcun genere.
La qualità dei libri è stato l’unico discrimine che ho sempre adottato, sperando man mano che passavano gli anni, di non dover perdere tempo con libri “carini”, ma pretendendo semmai che fortuna e scelte lungimiranti mi portassero a leggere opere belle, o bellissime.
Per trovarle avevo, ed ho tuttora a disposizione, l’immane serbatoio della letteratura, italiana ed internazionale, condizionato solo, riguardo a quest’ultima, dalle scelte della nostra editoria, che per molto tempo sono state un po’ anguste.
Così, alcune nazioni, come India o Cina, ad esempio,che pure sono vaste e popolate come continenti e che presumibilmente possedevano una enorme ricchezza letteraria, per decenni sono state trascurate dalle maggiori case editrici italiane.
Poi, in tempi relativamente recenti, qualcosa si è sbloccato e le pubblicazioni di romanzi di autori indiani o cinesi nella nostra lingua, hanno puntualmente confermato che quei paesi avevano prodotto, e continuano a farlo, una letteratura davvero importante.
Io approfittai della nuova opportunità e mi accostai volentieri alle opere di molti scrittori a me sconosciuti in precedenza: il viaggio in queste letterature si è rivelato stimolante come cercare l’avventura in nuovi mondi.
Tra gli altri libri incontrati, diversi anni fa lessi “Grande seno, fianchi larghi”, uno splendido romanzo del cinese Mo Yan.
Mi trovai dinanzi ad un’opera di grandi e soddisfatte ambizioni letterarie, con una densa trama da romanzo familiare.
Era il classico esempio di microcosmo che si tuffava nell’universale, divenendone un simbolo, attraverso una storia con tanti emissari che andava a sfociare felicemente in un complesso affresco sociale.
La storia di Shangguan Lu, la capostipite della famiglia, una donna che per ovviare alla sterilità del marito, difetto ritenuto socialmente imbarazzante, concepisce nove figli con sette uomini diversi, segna l’inizio di una ricca saga, degna di un Faulkner o di un Garcia Marquez.
Il destino dell’unico suo figlio maschio, personaggio debole e immaturo, raccontato con uno stile che in certe situazioni non disdegna anche lo schizzo comico, allude indirettamente ad una parziale inadeguatezza della società cinese contemporanea, sempre in bilico tra la conservazione ed il proiettarsi in avanti.
Qualche tempo dopo aver letto il romanzo, a riprova autorevole della qualità di quella mia piccola scoperta, Mo Yan ricevette il premio Nobel per la Letteratura.
Rassicurati quindi dal più alto riconoscimento possibile, sul fatto che una letteratura cinese esiste eccome, e che l’autore in questione, pur essendo il più autorevole, non è assolutamente l’unico scrittore di livello in quell’ambito, ci converrà intanto sapere qualcosa in più sulla sua vita e sulla sua carriera.
Mo Yan, che in realtà si chiama Guan Moye, è nato a Gaomi, un villaggio di contadini nella regione dello Shandong.
Del suo paese natale lo scrittore farà il luogo specchio della società, la sua Macondo, il villaggio che ricorrerà spesso come ambientazione delle sue opere maggiori.
Alcuni tumulti che colpirono la sua famiglia all’epoca della Rivoluzione Culturale lo costrinsero ad abbandonare la scuola: ad undici anni era costretto a pascolare bovini.
Successivamente, dopo aver lavorato per qualche anno in una fabbrica di cotone, si arruolò nell’Esercito di Liberazione Popolare: quello fu l’unico espediente possibile per affrancarsi dalla miseria della vita contadina.
Per il futuro scrittore iniziò un periodo di vita particolarmente duro, le cui asprezze verranno ricordate nelle sue prime esperienze di scrittura, ma fu proprio la carriera militare a permettergli di iscriversi al Dipartimento di Letteratura dell’Accademia di Arti dell’Esercito, presso la quale riuscì a laurearsi nel 1986, un anno che si rivelò fondamentale per lui.
Il suo talento narrativo si era manifestò già con un primo lavoro, “Pioggia in una notte di primavera”, ma fu col suo successivo libro, “Sorgo Rosso”, che Mo Yan si garantì una immediata visibilità internazionale e una laurea honoris causa presso l’università di Pechino.
Il celebre regista Zhang Yimou ne trasse infatti un film e la pellicola permise al regista di vincere l’Orso d’Oro al prestigioso Festival Internazionale del Cinema di Berlino.
Il romanzo, molto intenso, è in parte autobiografico perché racconta la storia d’amore del nonno dello scrittore con la sua amata e della loro partecipazione alla resistenza nei confronti dell’invasore giapponese.
Il tono realistico e anteroico della narrazione, privo della tradizionale retorica patriottica, rendeva molto più credibile ed espressivo l’intreccio e costituiva sicuramente una nota originale nell’ambito letterario cinese.
Lo pseudonimo scelto già a quei tempi dallo scrittore, Mo Yan, in cinese significa “Non parlare”, e lui stesso ha spiegato in un’intervista, che quell’espressione gli veniva detta dai suoi genitori come monito severo in un periodo, come quello della Rivoluzione Culturale, in cui una sola parola sbagliata poteva provocare conseguenze gravi.
Due anni dopo quel fortunato romanzo, nel 1988, Mo Yan diede alle stampe “La canzone dell’aglio”, un’opera ambientata in un villaggio immaginario che alludeva ad una vicenda realmente accaduta a Cangshan, nella provincia dello Shangdong , poco prima.
Una rivolta contadina contro le autorità locali, scoppiata per le scelte infauste di queste ultime e che avevano lasciato invenduta l’intera produzione dell’aglio, unico sostentamento del villaggio, era stata duramente repressa.
Il racconto di quella storia, articolato, emozionante, e denso di brillanti espedienti narrativi, carico com’era di riferimenti a funzionari corrotti, preoccupò il potere cinese che dopo i fatti di Piazza Tienanmen temeva l’esprimersi di ogni sentimento antigovernativo.
Il romanzo fu quindi censurato.
Anche il successivo lavoro di Mo Yan, “Il paese dell’alcol”, il cui tema, il cannibalismo nei confronti di bambini, era ancora più duro, metteva in luce possibili perversioni di ufficiali governativi e la corruzione di parte della società cinese.
Nel 1997 fu pubblicato “Grande seno, fianchi larghi”, il grande romanzo familiare di cui si è già parlato e che confermò in pieno la statura letteraria del suo autore.
“Le sei reincarnazioni di Ximen Nao”, romanzo pubblicato nel 2006 , attraverso le reincarnazioni a cui il protagonista è sottoposto per salvarsi l’anima, lo scrittore fornisce un ritratto della Cina tra il 1950 e il 2000.
Tre narratori diversi raccontano i passaggi affrontati dal protagonista, che si fa asino, bue, maiale, cane, scimmia ed infine bambino, spesso alla luce di un umorismo vivace e paradossale.
L’opera fu scritta in soli quarantadue giorni ed interamente a mano, anche per aumentare il valore del manoscritto, destinato alla figlia dello scrittore.
Il più recente romanzo di Mo Yan “Le rane”, altrettanto complesso dei precedenti, raccontando la vita di una levatrice, Wan Xin, ripercorre le tappe del difficilissimo rapporto tra la Cina e la procreazione, sfociato in leggi severe per il controllo delle nascite.
Come sempre l’ambientazione è quella cara allo scrittore, la sua zona di origine, lo Shandong, provincia che da sola vanta novantadue milioni di abitanti.
Nonostante in molte sue opere si rintracci una severa critica alla corruzione degli organi governativi periferici, Mo Yan non ha mai messo in dubbio il complessivo percorso politico compiuto dal potere cinese negli ultimi decenni, tanto da attirarsi gli strali di molti dissidenti, perfino in occasione del suo conseguimento del Premio Nobel.
Vicepresidente dell’Associazione degli Scrittori Cinesi, il romanziere, anche in recenti interviste, ha ribadito la sua vicinanza alla dirigenza del paese, elogiando i passi compiuti con le politiche anticorruttive messe in atto negli ultimi anni.
Quale che sia tuttavia il giudizio che noi occidentali siamo in grado di dare sulle posizioni politiche di un autore appartenente ad un paese così distante e per alcuni versi, ancora così misterioso, come lettori abbiamo a disposizione la più percorribile possibilità di conoscerlo.
La sua grande abilità narrativa ed il suo alto livello letterario non attendono altro che una nostra verifica.
Piermario De Dominicis, appassionato lettore, scoprendosi masochista in tenera età, fece di conseguenza la scelta di praticare uno sport che in Italia è considerato estremo, (altro che Messner!): fare il libraio.
Per oltre trent’anni, lasciato in pace, per compassione, perfino dalle forze dell’ordine, ha spacciato libri apertamente, senza timore di un arresto che pareva sempre imminente.
Ha contemporaneamente coltivato la comune passione per lo scrivere, da noi praticatissima e, curiosamente, mai associata a quella del leggere.
Collezionista incallito di passioni, si è dato a coltivare attivamente anche quella per la musica.
Membro fondatore dei Folkroad, dal 1990, con questa band porta avanti, ovunque si possa, il mestiere di chitarrista e cantante, nel corso di una lunga storia che ha riservato anche inaspettate soddisfazioni, come quella di collaborare con Martin Scorsese.
Sempre più avulso dalla realtà contemporanea, ha poi fondato, con altri sognatori incalliti, la rivista culturale Latina Città Aperta, convinto, con E.A. Poe che:
“Chi sogna di giorno vede cose che non vede chi sogna di notte”.