
Apriamo un confronto di opinioni su alcuni argomenti che interessano la nostra comunità. Abbiamo preso lo spunto dalle recenti proteste studentesche per iniziare con la scuola e la formazione. Il tema della discussione, alla quale speriamo che molti vogliano partecipare, viene posto dal Prof. Marcello Ciccarelli, che sviluppa il suo ragionamento a partire da alcune valutazioni sul recente libro di Mastracola e Ricolfi “ Il danno scolastico” edito dalla nave di Teseo.
Paola Mastrocola e Luca Ricolfi hanno recentemente pubblicato un libro “Il danno scolastico” nel quale analizzano la situazione attuale della scuola e dimostrano come la scuola pubblica abbia imboccato la strada dell’egualitarismo al ribasso, dei “saperi minimi”: sarebbero insomma piccole polpette di sapere, predigerite.
E’ stato un percorso che ha allargato il solco fra ceti alti e ceti bassi. I due studiosi sostengono la loro tesi misurando la crescente difficoltà degli studenti più svantaggiati a superare il gap economico-culturale di partenza. Una posizione senz’altro condivisibile.
Ben venga, dunque, il richiamo sui problemi sociali della formazione pubblica, che potrebbe magari essere utile a richiamare l’attenzione dei partiti e degli intellettuali, che sembrano aver dimenticato come per i giovani delle aree economiche e sociali più deboli l’unica possibilità di emergere sia una scuola seria, di qualità.
Ma la lettura del libro lascia dubbi che sia questa l’intenzione degli autori, anche per il modello alternativo che sembrano prefigurare.
Innanzitutto, appaiono interessati a individuare nella cultura pedagogica e politica dell’area progressista la causa di tale situazione. E’ un’ipotesi più politica che altro, perché non individua la causa più importante di questo stato di cose. Il perché è presto detto: artefice dell’attuale situazione scolastica è la cultura di mercato introdotta nella scuola e il modello culturale veicolato dai mezzi di comunicazione. Indizi che fanno propendere che il principale “colpevole” sia Berlusconi e non certo Berlinguer (Enrico).

E francamente appare sorprendente come un sociologo quale Ricolfi non valuti la pervasività culturale dei mezzi di comunicazione, in particolare proprio di quelli controllati da Mediaset. E che non ricordi lo slogan delle tre I (Informatica, Impresa, Inglese), con il quale Berlusconi affrontò la campagna elettorale del 2001 e che poi attuò nel quinquennio 2001-2005.
Dapprima il taglio lineare di 8 miliardi di fondi pubblici (Ministro Gelmini), con il quale affossò la riforma ( fatta dal governo Prodi) di Luigi Berlinguer appena varata, e poi proseguito con la Riforma Moratti (2003).
Una riforma che ha impresso l’attuale DNA della scuola azienda, rafforzato dalla Buona scuola (2015) del governo Renzi, con l’introduzione dell’alternanza scuola lavoro (400 ore per gli istituti tecnici e 200 ore per i licei) e con la concentrazione del potere nelle mani del preside diventato dirigente scolastico.

Se un limite ha avuto la cultura pedagogica progressista è stato quello di non aver difeso la sua unica riforma, quella del governo Prodi. Una riforma lasciata indifesa di fronte al fuoco incrociato dei sindacati del centrodestra, la Gilda, e di quelli dell’estrema sinistra, i Cobas, che portò alle dimissioni del ministro.
Quanto alla scuola che il libro prefigura, è evidente che gli autori, pur non esplicitandolo apertamente, rimpiangano la scuola del bel tempo andato.
Non a caso lo stesso Ricolfi la invoca, quando imputa al suo superamento l’attuale tracollo formativo.
Nell’intervista a “Il Giornale” del 15 ottobre 2021, il sociologo indica quali momenti decisivi che hanno aperto il varco al tracollo, l’istituzione della scuola media unica (1962), la progressiva eliminazione del latino, Il “donmilanismo” (“Lettera a una professoressa” 1967), la liberalizzazione degli accessi (1969), la soppressione della figura del maestro unico alle elementari (1990).
Dunque, a sentire i due, una scuola di qualità sarebbe quella che frequentavo all’A. Volta di Testaccio, a Roma.
In quinta elementare eravamo in 38. Fui poi il solo a intraprendere la scuola media, dopo che fui rimandato all’esame di accesso in Italiano. Dovetti così prendere lezioni private per decontaminare, almeno in superfice, il mio italiano dal dialetto romanesco, l’unica lingua parlata in famiglia, a scuola, all’oratorio dei salesiani. 16 di quei 38 studenti scelsero l’Avviamento professionale presso la Carlo Cattaneo o la Edmondo De Amicis, le uniche scuole post elementari a Testaccio. Gli altri si accontentarono della licenza elementare tranne i 6 che furono bocciati. Fra questi un certo Zottola, quattordicenne, già ripetente due o tre volte, relegato costantemente all’ultimo banco. Il Franti della situazione.

Per quella scuola non si sarebbe potuto parlare di “danno scolastico”, quanto piuttosto di “strage degli innocenti”.
Fra l’altro, quel tipo di scuola non sarebbe oggi neppure in grado di affrontare il principale problema irrisolto della scuola italiana: cioè l’inadeguatezza scientifica della formazione dei nostri giovani, causa, tra le altre, del ritardo dello sviluppo economico italiano.
Questo anche perché la scuola gentiliana poneva quale obiettivo della formazione scientifica solo l’educazione alla Logica, non producendo altri risultati, tanto da rendere plausibile, addirittura senso comune, la storica domanda “a che serve la matematica?”.
L’unica riforma che si era posta il problema del rinnovamento della formazione scientifica è stata quella di Luigi Berlinguer del 2000.
La sua esplicita finalità era una formazione culturale unitaria, ma articolata.
Unitaria perché assegnava compiti educativi generali, uguali alla formazione scientifica, a quella tecnologica e a quella umanistica; articolata perché prevedeva conoscenze e competenze, oltre che per proseguire gli studi universitari, anche per preparare gli studenti per il mondo di un lavoro che richiede innovazione e flessibilità.
In sintesi, fu un tentativo di far convivere nella stessa testa due formae mentis: l’esprit de finesse e l’esprit de géometrie.

Ma fu solo un tentativo perché abortì prima di vederne i risultati, e fu sostituito da una scuola che rende difficile il sapere generale, quello che governa l’ordine delle cose.
Una scuola dove l’uomo sociale di Aristotele non incontra quello biologico di Darwin né quello letterario di Shakespeare. Una scuola dove la filosofia, nel ricostruire i percorsi dell’uomo, non utilizza le immagini della natura che le scienze forniscono.
Infine una considerazione di tipo etico. La balcanizzazione dei saperi innesta una sorta di relativismo della responsabilità sociale. Ognuno si sente parte di una filiera che produce oggetti o saperi particolari e dunque si sente responsabile solo della sua specializzazione, non avvertendo il senso del legame sociale, l’interesse per il bene comune.
Il che, tradotto a livello comportamentale, lo porta a giustificare come degni di attenzione solo la propria persona ed il suo più stretto habitat.
Che poi qualcuno lo identifichi addirittura come diritto alla (propria) libertà è solo un ulteriore indice dei problemi indotti da questo tipo di formazione.
Marcello Ciccarelli, in pensione, attivo solo cerebralmente. Una volta docente e amministratore. Ancora appassionato di matematica e politica.