Che cosa si direbbe oggi di un imprenditore che, in un momento di crisi dovuto a problemi di sovrapproduzione, caccia i due direttori che gli chiedono di licenziare 500 operai e, cosciente del valore dei suoi prodotti, macchine da scrivere, addizionatrici, telescriventi, calcolatrici, personal computer, con stabilimenti in tutto il mondo, assume invece 700 venditori, crea nuove consociate estere, e supera la crisi?
A chiederselo è Alberto Saibene, autore del libro “L’Italia di Adriano Olivetti”, pubblicato dalle Edizioni Di Comunità.
Il saggio non è solo una biografia in senso classico del grande imprenditore italiano, ma vuole essere anche la ricostruzione di un’epoca e di un Paese, l’Italia, che voleva assolutamente rinascere.
È la storia di un uomo rivoluzionario, talmente avanti con i tempi da risultare anche oggi atipico. Per certi versi, anzi, soprattutto oggi apparirebbe tale, in un Paese dove gli industriali sono diventati finanzieri e nel quale soltanto gli indici del prodotto vengono considerati un valore: i soldi, dunque, avanti a tutto, perfino davanti alle strategie industriali di maggior respiro.
Basterebbe leggere alcune sue frasi per capire quanto fosse proiettato in avanti. Le sue sono le parole di un imprenditore illuminato:
Essere felici:
non posso che sottolineare queste semplici parole e il loro significato incredibilmente dirompente.
Costruire felicità presuppone che la ricerca di tutto ciò che il genio umano, l’intelligenza unita a sensibilità, creatività e visione di insieme, può mettere in campo, concorra a realizzare un mondo più giusto.
Non si può costruire la felicità sull’infelicità di alcuni, non esiste dimensione felice ove ci siano sofferenza e ingiustizia.
Tutti possono e devono concorrere a creare un mondo migliore,
un luogo nel quale nessuno sia lasciato indietro.
Sono considerazioni personali le mie, ma guardando al modello di Olivetti ritengo che possano essere utopie applicabili, destinate alla realtà di ognuno.
Là dove la dimensione umana e la dignità sono salvaguardate, dove la realizzazione di ogni singolo è promossa e resa possibile, perché considerata un dato sensibile per l’intera comunità, si costruisce la Felicità.
Adriano Olivetti (Ivrea 1901 – Aigle 1960) si prefissò quindi di attingere a un incredibile patrimonio umano, diverso e ricco, fatto di libertà e di bellezza, e di valorizzarlo per arrivare ad una possibile felicità.
A lui bastava poco per capire gli uomini. Sapeva portare dalla sua parte le migliori intelligenze del suo tempo e fu così in grado di mettere in campo una forza intellettuale inimmaginabile e innovativa, un esercito di cervelli, un impasto di ingegneri, filosofi, psicoanalisti, poeti, scrittori, sociologi, architetti ed economisti. Tutte persone assolutamente diverse tra loro, ma ciascuna lasciata libera di esprimere il proprio carattere e avere una propria capacità di azione. Pensate a tutto questo e confrontatelo coi modelli del mondo di oggi, in cui, quasi ovunque, più della libertà conta il servilismo: il paragone sarebbe improponibile.
Con Olivetti hanno lavorato Paolo Volponi, Franco Momigliano, Luciana Nissim, Geno Pampaloni, Luciano Gallino, Giovanni Giudici, Giorgio Fuà, Bobi Bazlen, Ludovico Quaroni, Cesare Musatti, Ettore Sottsass, Francesco Novara, Renato Rozzi, Franco Ferrarotti, Leonardo Sinisgalli, Furio Colombo, Franco Fortini, Ottiero Ottieri, Bruno Zevi, Emilio Aventino Tarpino, Giancarlo Lunati, Guido Rossi, Renzo Zorzi.
È impressionante la quantità e la qualità di questi nomi: si trattava di un vero e proprio “parterre de roi” dell’intellighenzia italiana.
Il pensiero di Adriano Olivetti, che abbiamo già compreso quanto fosse innovativo, fu la risultante di un miscuglio di pratica diretta, esperienza sul campo e studio delle più moderne idee sull’industrializzazione.
A 13 anni venne convinto dal padre Camillo, imprenditore di origine ebraica e fondatore dell’azienda di famiglia, a lavorare come operaio in fabbrica per comprendere bene la durezza di quel lavoro. Appena ventenne decise di intraprendere un viaggio negli Stati Uniti, dove visitò molte fabbriche tra cui gli stabilimenti automobilistici Ford, e proprio in quella circostanza si rese conto dell’importanza, per un progetto industriale, di avere rigorosi metodi scientifici di organizzazione del lavoro e di ottimizzazione della produttività.
Negli anni seguenti approfondì queste tematiche, studiando il Taylorismo e accompagnandole anche con la lettura di pensatori liberali e sociali che ai suoi occhi potevano temperarne gli eccessi.
Dalla fusione di tutte queste influenze venne fuori una concezione assolutamente originale, nella quale l’attività d’impresa doveva assicurare non solo buoni profitti, ma anche realizzare lo sviluppo sociale, culturale e umano di chi vi lavorava, nel pieno rispetto delle aspirazioni individuali.
Insomma lavorare per la Olivetti non doveva significare solo poter soddisfare, attraverso il lavoro, i bisogni primari dell’uomo, ma creare anche le condizioni per garantirgli benessere materiale e spirituale.
Concetti troppo utopistici? Alcuni allora dissero così, cercando di farlo passare per un folle, ma Adriano Olivetti non si fece per questo scoraggiare ed i risultati che ottenne gli diedero ragione.
A chi gli chiedeva se il suo pensiero non fosse troppo utopico, rispondeva:
Per aumentare i profitti non si faceva leva solo sull’organizzazione razionale del lavoro ma soprattutto sulla motivazione e sulla partecipazione dei lavoratori alla vita e al futuro dell’azienda. Era un atteggiamento illuminato: parlare di motivazioni e di coinvolgimento dei lavoratori nella vita dell’azienda significava realizzarli attraverso il lavoro, renderli parte integrante del progetto industriale, riconoscerne i meriti e le qualità, creare una rete e condividere obiettivi.
Tutto ciò, va ancora ripetuto, significava, nelle intenzioni di Olivetti, mettere le premesse per creare felicità. La storica fabbrica di Ivrea divenne in effetti il centro di una cultura aziendale rivoluzionaria, che fondeva gli aspetti scientifici con altri, di tipo umanistico.
Nonostante Olivetti avesse introdotto un vero e proprio sistema di servizi sociali per gli operai (quartieri residenziali, ambulatori medici, asili nido, la mensa, la biblioteca e più avanti anche un cinema: tutte cose totalmente gratuite), ed avesse ridotto le ore della giornata lavorativa, mantenendo invariato il salario, sia la produttività che la qualità risultarono enormemente aumentate.
La Felicità funziona, si direbbe!
Tenendo costantemente d’occhio il fine di un successo aziendale, l’imprenditore piemontese puntò sempre all’eccellenza tecnologica, all’apertura verso i mercati internazionali e alla cura del design industriale.
Molti aspetti che sono comuni nella realtà imprenditoriale contemporanea, come la comunicazione, la cura e lo sviluppo del brand, la pubblicità, la grafica, lo studio della sociologia e della psicologia lavorativa, ebbene queste novità vennero tutte introdotte, ancor prima degli anni sessanta, nei numerosi stabilimenti che la Olivetti aprì in Italia e all’estero (Brasile e Stati Uniti).
Negli anni cinquanta molti prodotti a marchio Olivetti divennero dei veri e propri oggetti di culto, simboli di modernità. Il più famoso di questi fu la macchina da scrivere portatile “Olivetti Lettera 22”, che ricevette premi sia in Italia (Compasso d’Oro nel 1954), sia all’estero (“Miglior prodotto di design del secolo”, secondo l’Illinois Institute of Technology nel 1959).
Olivetti morì tragicamente e prematuramente il 27 febbraio 1960, colpito da una trombosi cerebrale sul treno Milano-Losanna.
Il suo continua ad essere uno splendido esempio delle infinite potenzialità di una visione umana, di una concezione felice e creativa dell’attività d’impresa, oltre che una prova dei successi che si possono in tal modo raggiungere.
Questo esempio, purtroppo, pur splendido e vincente, non è stato più considerato come meritava né tanto meno è stato replicato in epoca contemporanea, venendo anzi ignorato, forse perché seguire orme come quelle di Olivetti richiede uno spessore umano notevole e doti non comuni di spirito ed intelligenza, merci davvero rare.
La sua è stata dunque un’eredità rifiutata, nonostante l’ingombro sulla scena italiana, non solo quella economica, di molti pseudo grandi imprenditori, uomini di potere che ostentano profitti e successi non sempre legati alle loro capacità. Cultura ed esperienza, come dimostra la vicenda di Olivetti, contano eccome e tutti dovremmo nutrircene molto di più per ambire ad una crescita forte ed equilibrata del nostro Paese.
Ricordo a questo proposito quello che anni fa disse significativamente un economista:
”Nessuna nazione può permettersi di essere ricca ed ignorante per più di una generazione, pena la perdita pesante di competitività”.
Prima di lasciarvi vorrei condividere alcuni significativi versi scritti da Adriano Olivetti, augurandovi di sentirli risuonare a lungo dentro di voi.
Ognuno può suonare
Senza timore e senza esitazione
La nostra campana.
Essa ha voce soltanto
Per un mondo libero,
materialmente più fascinoso
e spiritualmente più elevato.
Suona soltanto per la parte
Migliore di noi stessi,
vibra ogni qual volta
è in gioco il diritto contro la violenza,
il debole contro il potente,
l’intelligenza contro la forza,
il coraggio contro la rassegnazione,
la povertà contro l’egoismo,
la saggezza e la sapienza
contro la fretta e l’improvvisazione,
la verità contro l’errore,
l’Amore contro l’indifferenza.
Adriano Olivetti
Fino a poco tempo fa mi sono nascosta dietro l’eteronimo di Nota Stonata, una introversa creatura nata in una piccola isola non segnata sulle carte geografiche che per una certa parte mi somiglia.
Sin da bambina si era dedicata alla collezione di messaggi in bottiglia che rinveniva sulla spiaggia dopo le mareggiate, molti dei quali contenevano proprio lettere d’amore disperate, confessioni appassionate o evocazioni visionarie.
Oggi torno a riprendere la parte di me che mancava, non per negazione o per bisogno di celarla, un po’ era per gioco un po’ perché a volte viene più facile non essere completamente sé o scegliere di sé quella parte che si vuole, alla bisogna.
Ci sono amici che hanno compreso questa scelta, chiamandola col nome proprio, una scelta identitaria, e io in fin dei conti ho deciso: mi tengo la scomodità di me e la nota stonata che sono, comunque, non si scappa, tentando di intonarmi almeno attraverso le parole che a volte mi vengono congeniali, e altre invece stanno pure strette, si indossano a fatica.
Nasco poeta, o forse no, non l’ho mai capito davvero, proseguo inventrice di mondi, ora invento sogni, come ebbe a dire qualcuno di più grande, ma a volte dentro ci sono verità; innegabilmente potranno corrispondervi o non corrispondervi affatto, ma si scrive per scrivere… e io scrivo, bene, male…
… forse.
Francesca Suale
definire Adriano Olivetti “imprenditore” o “industriale” è riduttivo. Da quello che sappiamo era un santo laico, una persona illuminata senza nazionalità o categoria, con grande umanità, con l’unica economia possibile, quella della soddisfazione reciproca, dell’utilità, della risposta alle esigenze. Le sue macchine erano al servizio delle persone e non il contrario. Olivetti sarebbe da studiare a scuola, in ogni scuola. Nella sua storia, nel suo percorso c’è quello di cui ha bisogno la società. Il resto è disumanità