Circa quarant’anni fa, il 29 agosto 1978, moriva a Roma Luigi Vannucchi, un grande attore oggi quasi dimenticato, ma che fu protagonista per quasi tre decenni della scena teatrale e televisiva italiana.
Morì suicida, ingerendo un’overdose di barbiturici mista ad alcolici, nella sua casa di Roma la sera del 29 agosto del 1978. Fu scoperto ormai deceduto, nel suo letto, dalla domestica la mattina dopo, 30 agosto. È sepolto nella tomba di famiglia, nel cimitero della Certosa di Bologna.
Nato a Caltanissetta il 25 novembre 1930, si diplomò all’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica diretta da Silvio D’Amico. Esordì in teatro nel 1951 impersonando Gesù Cristo nel ‘mistero’ medievale “Donna del Paradiso”, allestito al Teatro Eliseo di Roma.
Seguì poi una lunga serie di prestigiosi allestimenti, portati in tournée anche all’estero, in cui Vannucchi si cimentò in pressoché tutti i classici del teatro occidentale, dai greci a Shakespeare, da Cechov a Pirandello. Una recitazione inquieta e nervosa, intrisa di un’intensità drammaticamente dolorosa, caratterizzava le sue interpretazioni teatrali e televisive.
All’inizio degli anni settanta Vannucchi entrò nella compagnia ‘Gli Associati’ con Valentina Fortunato, Giancarlo Sbragia, Ivo Garrani, Sergio Fantoni, Valeria Ciangottini ed altri. Alla base di questo sodalizio c’era la volontà di emanciparsi dai teatri stabili in cui spesso gli attori dovevano sottostare a questioni contrattuali discutibili e a limitazioni della propria libertà creativa. Con loro Vannucchi partecipò a spettacoli di grande successo: Strano interludio, Otello, Inferni, e altri. Uno degli allestimenti più importanti di questa Compagnia fu la rappresentazione de Il vizio assurdo di Lajolo-Fabbri, sulla vita di Cesare Pavese.
Lavorò anche nel cinema, sia come doppiatore (prestò la voce anche a Clark Gable e Clint Eastwood) sia come attore e tra i suoi film più significativi possiamo ricordare “L’arcidiavolo” di Ettore Scola (1966), “Il tigre” di Dino Risi (1967), “La tenda rossa” (una coproduzione italo-sovietica, 1970) oltre a “L’assassinio di Trotsky” (1972) di Joseph Losey.
Forse è grazie alle sue frequenti apparizioni in televisione che Luigi Vannucchi ha conquistato una vasta popolarità tra il pubblico italiano. Ha debuttato sul piccolo schermo nel 1954 con la trasposizione del dramma di Hochwälder intitolato “Il sacro esperimento”, diretto da Silverio Blasi. Durante gli anni ’60, con l’affermarsi del nuovo genere televisivo, lo sceneggiato a puntate, Vannucchi è diventato un volto familiare e amato da milioni di telespettatori. Tra le sue memorabili interpretazioni, ricordiamo “Una tragedia americana” (1962, diretto da A. G. Majano), “Delitto e castigo” (1963, sempre di Majano), “La donna di fiori” (il primo di quattro sceneggiati con il tenente Sheridan come protagonista, 1965), “Vita di Dante” (diretto da V. Cottafavi, 1965), “I promessi sposi” (diretto da S. Bolchi, 1967), “Giocando a golf una mattina” (1969, diretto da D. D’Anza), “Il cappello del prete” (1970, diretto da Bolchi), “A come Andromeda” (1972, diretto da Cottafavi), e “I demoni” (1972, diretto da Bolchi).
Era in cima alla sua carriera artistica e alla sua fama quando, il 29 agosto 1978, Luigi Vannucchi si tolse la vita ingerendo una dose letale di barbiturici. Questo gesto disperato richiama alla mente il tragico destino dello scrittore Cesare Pavese, l’ultimo personaggio interpretato dall’attore in televisione. “Il vizio assurdo”, una pièce scritta da Davide Lajolo e Diego Fabbri incentrata sulla figura di Pavese e trasmessa l’8 settembre, segnò così l’addio di Vannucchi al pubblico italiano. Era il punto finale nella straordinaria carriera dell’artista.
Il teatro fu indubbiamente il terreno in cui Luigi Vannucchi poté esprimere appieno il suo eccezionale talento interpretativo, spaziando in un repertorio straordinariamente variegato, che comprendeva sia i tragici greci che il teatro contemporaneo. Collaborando con rinomati registi italiani, tra cui Giorgio Strehler e Luigi Squarzina, Vannucchi ha dato vita a interpretazioni straordinarie sul palcoscenico.
Tuttavia, va sottolineato che il teatro deve gran parte della sua magia all’interazione diretta tra gli attori e il pubblico, un elemento che lo rende un’esperienza irriproducibile al di fuori dei suoi contesti dedicati alla performance dal vivo.
In passato, la televisione italiana ha realizzato numerose trasposizioni televisive di opere teatrali. Purtroppo, al giorno d’oggi, molti di questi lavori sono difficilmente reperibili per il pubblico, in gran parte a causa delle politiche dell’archivio della Rai, che sembrano ostacolare la diffusione di questa ricca collezione di opere.
La situazione è un po’ migliore per quanto riguarda gli sceneggiati televisivi, che occasionalmente vengono riproposti dalla televisione di stato.
“Il cappello del prete” venne trasmesso in tre episodi tra il 1° e il 15 febbraio 1970. Questa produzione televisiva, tratta dall’omonimo romanzo di Emilio de Marchi pubblicato nel 1887, fu abilmente adattata e diretta da Sandro Bolchi. Nel ruolo principale troviamo Luigi Vannucchi, che interpreta il barone napoletano Carlo Coriolano di Santafusca, un libertin nichilista amante del gioco, il cui stile di vita rischia la rovina a causa di un debito non pagato.
Portato all’abisso dalla disperazione, il barone compie un omicidio terribile, uccidendo il prete Cirillo, un sacerdote ricco sospettato di usura, e nasconde il corpo in un pozzo. Tuttavia, dimentica il suo cappello sul luogo del delitto. Sarà proprio questo dettaglio, il cappello ritrovato da un guardiano, a mettere la giustizia sulle tracce dell’assassino.
La scena chiave, che rimane indelebile nella memoria, è situata negli ultimi quindici minuti, in cui il barone Santafusca è convocato dal magistrato incaricato del caso per una semplice interrogazione. Durante un duello dialettico, Santafusca si ritrova ad ammettere il suo crimine, precipitando nella follia. La straordinaria bravura di Vannucchi nel ritrarre il progressivo cedimento psicologico di Santafusca è eccezionale. Partendo dall’iniziale tracotanza e arroganza, il personaggio attraversa fasi di incertezza, timore e, alla fine, si sprofonda nella disperazione totale che conclude la vicenda.
“I demoni” fu trasmesso in cinque episodi dal 20 febbraio al 19 marzo 1972. Questo sceneggiato, adattato per la televisione da Diego Fabbri basandosi sull’omonimo romanzo di Fëdor Dostoevskij, fu diretto con maestria da Sandro Bolchi. La storia narra le vicende di una enigmatica setta nella Russia zarista, la cui ambizione è sovvertire l’ordine stabilito attraverso una serie di delitti. Luigi Vannucchi offre un’interpretazione straordinaria del personaggio ambiguo di Stavrogin, che alla fine compie il gesto estremo del suicidio. In un’intervista, l’attore ha rivelato di avere una particolare affinità per questo personaggio, avendone sviluppato un profondo interesse all’età di sedici anni, quando ha letto il romanzo per la prima volta.
Tuttavia, la caratterizzazione del personaggio dello scienziato John Fleming in “A come Andromeda” è probabilmente l’interpretazione di Luigi Vannucchi ancora oggi più acclamata e popolare. Questo sceneggiato è un adattamento dell’originale britannico “A For Andromeda”, scritto da Fred Hoyle e John Elliot, trasmesso dalla BBC nel 1961. La versione italiana, diretta con abilità da Vittorio Cottafavi, è stata trasmessa in cinque episodi dalla Rai tra il 4 gennaio e il 1° febbraio 1972.
La trama ruota attorno all’intercettazione e decifrazione di un enigmatico messaggio spaziale da parte di un gruppo di scienziati britannici. Seguendo le istruzioni contenute nel messaggio, gli studiosi, con il sostegno del governo e dell’esercito, costruiscono un super-calcolatore che darà vita a un essere artificiale, una misteriosa ragazza chiamata Andromeda. John Fleming, l’uomo che ha decifrato il messaggio, è l’unico a sospettare che dietro a questa strana simbiosi tra la macchina e Andromeda si nasconda una minaccia mortale per il mondo, ma le sue preoccupazioni vengono ignorate e gli eventi si precipitano.
“A come Andromeda” continua a godere di una straordinaria popolarità e viene considerato da molti uno dei migliori sceneggiati mai prodotti dalla televisione italiana. Questo successo è dovuto a diversi fattori: una trama ben strutturata e coinvolgente, personaggi ben delineati, una regia attenta, ambientazioni suggestive, una colonna sonora incantevole, ma soprattutto all’eccezionale interpretazione di Luigi Vannucchi nel ruolo di John Fleming. Questa produzione televisiva ha reso l’attore noto a un vasto pubblico, composto da decine di milioni di telespettatori, in un’epoca in cui c’erano solo due canali televisivi.
La vita dell’attore è sempre stata, a torto o a ragione, impregnata di un alone romantico ed avventuroso, ma anche un’attività pericolosa. E se quest’ affermazione oggi risulta risibile c’è stato un periodo a cavallo tra gli anni sessanta e settanta in cui purtroppo tutto questo assumeva connotati drammatici.
Vannucchi aveva da poco interpretato per la televisione lo sceneggiato ‘Il vizio assurdo’, tratto dal libro di Davide Lajolo sulla vita di Cesare Pavese. Lo scrittore piemontese scrisse un diario che contemplava la sua morte, la realtà sprofondava in un libro che metteva in scena il suicidio. La sofferenza raggiungeva il livello di guardia e quando lo scrittore non trovò più consolazione neppure nella sua arte decise di morire. Anni dopo l’attore Luigi Vannucchi si mise nelle vesti dello scrittore e recitò il diario di Pavese, immedesimandosi nel ruolo fino in fondo, tanto che di lì a poco si suicidò ingurgitando un mix di alcool e di barbiturici, proprio come Pavese. L’attore forse, restò vittima di un personaggio anche se la sua interpretazione televisiva de Il vizio assurdo rimarrà memorabile.
Di quel ruolo Vannucchi sentì tutto il peso e gli soccombette oltre quarantacinque anni fa. Ma questa è una storia diversa, intima e privata. I motivi del suicidio non sono mai stati chiariti definitivamente, qualcuno ha ipotizzato la ‘paura di non riuscire più a lavorare’, del fatto che la televisione italiana stesse cambiando e Vannucchi aveva paura di non trovare più posto, altri hanno parlato di una “possibile” depressione ma sono solo illazioni.
Bibliografia:
- Bruzzone Mariagrazia, Piccolo grande schermo. Dalla televisione alla telematica, Ed. Dedalo – Bari 1984;
- Giammusso Maurizio, La fabbrica degli attori, pubblicazione della Presidenza del Consiglio – Roma 1989;
- Diego Fabbri e Davide Lajolo, Il vizio assurdo, Ed. Nuova Cultura, Roma 2005.
- www.vicolostretto.net/luigi_vannucchi
Lino Predel non è un latinense, è piuttosto un prodotto di importazione essendo nato ad Arcetri in Toscana il 30 febbraio 1960 da genitori parte toscani e parte nopei.
Fin da giovane ha dimostrato un estremo interesse per la storia, spinto al punto di laurearsi in scienze matematiche.
E’ felicemente sposato anche se la di lui consorte non è a conoscenza del fatto e rimane ferma nella sua convinzione che lui sia l’addetto alle riparazioni condominiali.
Fisicamente è il tipico italiano: basso e tarchiatello, ma biondo di capelli con occhi cerulei, ereditati da suo nonno che lavorava alla Cirio come schiaffeggiatore di pomodori ancora verdi.
Ama gli sport che necessitano di una forte tempra atletica come il rugby, l’hockey, il biliardo a 3 palle e gli scacchi.
Odia collezionare qualsiasi cosa, anche se da piccolo in verità accumulava mollette da stenditura. Quella collezione, però, si arenò per via delle rimostranze materne.
Ha avuto in cura vari psicologi che per anni hanno tentato inutilmente di raccapezzarsi su di lui.
Ama i ciccioli, il salame felino e l’orata solo se è certo che sia figlia unica.
Lo scrittore preferito è Sveva Modignani e il regista/attore di cui non perderebbe mai un film è Vincenzo Salemme.
Forsennato bevitore di caffè e fumatore pentito, ha pochissimi amici cui concede di sopportarlo. Conosce Lallo da un po’ di tempo al punto di ricordargli di portare con sé sempre le mentine…
Crede nella vita dopo la morte tranne che in certi stati dell’Asia, ama gli animali, generalmente ricambiato, ha giusto qualche problemino con i rinoceronti.