Beata Ignoranza

Può sembrare provocatorio, ma l’ignoranza negli ultimi tempi sembra andare di moda.

Non si pensi ad un appellativo offensivo: ignorante è chi ignora, chi non è consapevole di molte cose.
Sotto questo punto di vista anche Socrate potrebbe ricadere nella definizione, secondo la nota affermazione: “l’unica cosa che so è di non sapere”. Forse il suo intento era quello di differenziarsi da chi riteneva (a torto) di sapere, ma la frase può essere interpretata anche nel senso che il sapere non si ha mai per dato, ma è un processo continuo dove l’obiettivo è il percorso stesso.

Socrate

Una buona massima sull’ignoranza viene da Edgar Allan Poe, uno scrittore da paura: “L’ignoranza è una benedizione, ma perché la benedizione sia completa l’ignoranza deve essere così profonda da non sospettare neppure se stessa.” In tempi recenti il medesimo concetto è stato sintetizzato nel famoso motto “beato te che non capisci un c…”, attribuito al Pierino di Alvaro Vitali e ripreso in parecchie altre situazioni. Ben prima e in maniera più elegante si era espresso sul tema Howard P. Lovecraft: “È uno che si gode la vita, come tutti quelli a cui è risparmiata la maledizione dell’intelligenza.

Conosciamo bene la disgrazia di incappare in un ignorante quando è pure saccente, arrogante e presuntuoso; questo personaggio, per aver imparato a leggere e a gugolare sul web, ritiene di poter disquisire alla pari con medici, ingegneri, avvocati e ogni altra persona con preparazione specifica.

Si è arrivati a stigmatizzare la competenza, a considerarla causa dei mali del Paese. Chiamo in soccorso Isaac Asimov per esprimere sinteticamente un concetto che ad alcuni potrà sembrare banale, ma che sarebbe bene arrivasse a tutti gli altri: “Se la conoscenza può creare dei problemi, non è con l’ignoranza che possiamo risolverli.

Isaac Asimov

È chiaro quindi che un Paese, se volesse investire nella sua crescita, dovrebbe prima di tutto impiegare le proprie risorse in scuola, università e formazione. La recente dichiarazione di un Ministro alla Pubblica Istruzione (Marco Bussetti) non lascia spazio ad interpretazioni: “Non è detto che per migliorare servano più finanziamenti: la scuola deve diventare efficiente con quello che ha. Come diceva mia nonna: ci si scalda con la legna che si ha.

Frase a mio modo di vedere inaccettabile, in quanto presenta gli ennesimi tagli alla scuola come ineluttabili. È certo che le risorse disponibili siano scarse, ma è compito della politica stabilire le priorità. Abbiamo un livello di spesa per scuola e università tra i più bassi in Europa (solo Romania, Bulgaria e Irlanda fanno peggio) e in recenti bozze delle leggi di bilancio se ne prevedeva, come ad esempio nel 2019, una ulteriore riduzione. Altro che nonna, si tratta di scelta politica di questo Governo. Perché l’investimento in cultura e competenza dà i suoi frutti negli anni a venire, mentre i nostri governanti sono solo interessati a incassare il dividendo in voti al prossimo appuntamento elettorale.

Ma non è solo questo. Il permanere del popolo in uno stato sub-culturale fa il gioco di chi deve diffondere le proprie narrazioni propagandistiche spacciandole per reali e veritiere.

Da sempre i regimi autoritari diffidano della cultura
in quanto causa prima del pensiero critico, una sciagura per chi sogna il pensiero unico. Sintomatica la frase, attribuita a Goebbels, “quando sento la parola cultura metto mano alla pistola”.

Del resto Silvio Berlusconi, prima di lanciare il proprio prodotto-partito sul mercato elettorale, aveva commissionato una serie di indagini demoscopiche per individuare il suo target, l’elettore tipico cui rivolgere il messaggio pubblicitario. Da questi studi è venuto fuori il risultato, come da lui stesso dichiarato, che la parte maggioritaria dell’elettorato ha la cultura di un bambino di quinta elementare, e la stessa capacità di comprensione delle situazioni complesse. Per questo ha tarato la sua propaganda su messaggi semplici e facilmente comprensibili, anche se (come prevedibile) i provvedimenti indicati come risolutivi si sono dimostrati inadatti ad affrontare la complessità e la criticità della situazione.

E da allora (era il 1994) nulla è stato più come prima: dal milione di posti di lavoro con meno tasse per tutti si è arrivati all’abolizione della povertà e al “prima gli italiani” (con corollario di affermazioni nostalgiche, da “me ne frego” a “molti nemici molto onore”), passando per la “rottamazione” delle vecchie classi dirigenti. Frasi semplici, brevi, da spot. Fanno il paio con le pubblicità più spericolate (veri attentati alla logica), come quella che, dopo aver pubblicizzato il proprio detersivo che dà “un bianco che più bianco non si può”, qualche mese dopo se ne esce con la nuova formula che garantisce “un bianco oggi ancora più bianco”.

A forza di solleticare la pancia dell’elettorato, anche il linguaggio si è andato deteriorando, sdoganando i cattivi pensieri e quel po’ di anima nera che ciascuno si porta con sé. Grazie all’amplificatore dei social e al pessimo esempio dei talk show, si fa a gara a chi urla e insulta di più, evitando accuratamente ogni tipo di ragionamento e di confronto civile.

La satira, anche quando apparentemente efficace, nulla può di fronte a questa degenerazione.
Essendo rivolta alla minoranza degli acculturati, o almeno a coloro capaci ancora di un minimo di autonomia di pensiero, si arrende di fronte a chi non è in grado di comprenderla in quanto incapace di leggere e decifrare i tempi correnti. Ignorante, appunto.

Ecco allora che 25 anni di lotta strisciante alla cultura, anche da parte di insospettabili, hanno sedimentato quell’humus su cui ha attecchito questa mala pianta fatta di paura, ottusità, confusione di cause con effetti, risposte sbagliate a problemi a volte concreti, a volte solo evocati strumentalmente. Chi comprende tutto questo vive l’angoscia di non riuscire a trovare la forma adatta per comunicare con gli altri, con coloro che vivono (beatamente inconsapevoli) nel giardino incantato dell’ignoranza.

Allora viene da riporre l’ultima speranza nella costruzione di un linguaggio comune, un esperanto che consenta di comunicare, con toni rispettosi dell’altro, il proprio pensiero, ancorché semplificato. Affidarsi al potere salvifico della parola, ultimo baluardo dell’intelligenza. Impegnandoci a fondo forse ce la possiamo fare (almeno spero).

Date retta a un ignorante.

Tanto il vostro Erasmo dal Kurdistan vi doveva, senza nulla a pretendere.

Erasmo dal Kurdistan è persona mutevole, con una spiccata tendenza alla tuttologia.
Vorrebbe affrontare la vita con leggerezza e ironia, ma raramente riesce a mantener fede a un impegno così arduo.
Scioccamente convinto di avere qualche dote letteraria (molto) nascosta, si prodiga nel vano tentativo di esternarla, con evidente scarsa fortuna.
Maniaco dell’editing e dell’interpunzione, segue un insano culto del punto e virgola (per tacere delle parentesi e delle amate virgole).
Tenta di tenere a bada una innata tendenza didascalica e quasi pedagogica pigiando sul pedale della satira di costume, ottenendo di comico solo il suo pio tentativo.
Il più delle volte si limita ad imbastire dimenticabili pipponi infarciti di luoghi comuni.

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