Da sempre sono attratto dall’universo dell’umorismo, un luogo sterminato e antichissimo della mente umana che nonostante la sua insondabile vastità è tutt’altro che freddo e men che meno buio, popolato com’è da milioni di pianetini affollati e illuminati dal pullulare di vita intelligente.
Così nella mia vita ho esplorato costantemente questo spazio, viaggiando da Marziale fino ai giorni nostri, tenendolo sempre d’occhio.
Molti anni fa mi sono imbattuto in “Credono di essere noi”, un libro di Bruno Caruso, un pittore che frequentò il mondo intellettuale romano del dopoguerra, segnato dal peso dell’eredità bellica ma pronto a vivere le possibilità illimitate del nuovo capitolo politico e sociale che si apriva in Italia.
Il volumetto ricrea per noi quell’epoca fecondata da tanti talenti che sarebbero diventati notissimi. Erano molto spesso dei provinciali quegli scrittori, artisti, giornalisti, sceneggiatori, registi e polemisti che si ritrovavano a passare il tempo alla loro maniera negli storici caffè romani.
Venivano dal sud, dalla bassa padana, dal centro Italia, dalle grandi isole, da ogni parte della penisola insomma, ma si erano inseriti così bene nelle pieghe della città eterna, da riuscire meglio dei romani stessi a coglierne il respiro millenario, l’indifferenza aristocratica alla sostanza effimera del brutto e l’ironia sorniona del suo genius loci.
Liberatisi la sera dall’impiccio dei lavori grazie ai quali riuscivano in qualche modo a tirare avanti più o meno decorosamente, si ritrovavano in parecchi da Canova, da Rosati, al Caffè Greco, all’Aragno, al Café de Paris o al Doney o in mille piccole trattorie, come quella, mitica e ben frequentata, di “Cesaretto”, posti solitamente misurati nel prezzo e generosi nelle porzioni.
Stiamo parlando, per intenderci, di gente come Maccari, Longanesi, Flaiano, Mazzacurati, Cardarelli, De Feo, Bartoli, Talarico, Fellini e tantissimi altri.
Sappiamo tutti a quali grandi imprese letterarie, artistiche, editoriali e cinematografiche fece da placenta quel pezzetto di mondo romano e quali furono dunque gli esiti straordinari di quell’affannarsi in mille lavori intellettuali diversi, spesso esercitati contemporaneamente da qualcuno di quei personaggi.
Molte e notevoli opere uscirono da quei lombi.
Meno conosciuta, tuttavia, perché la sua memoria è legata in gran parte alle testimonianze di chi si trovò a frequentare quella microsocietà bizzarra e indipendente, è la ricchissima produzione di scherzi, battute, calembours, aforismi, doppi sensi, sillogismi e di giochi di parole che quelle belle teste si lasciarono dietro.
Quel libro di Caruso, già allora una rarità che prontamente acquistai, è una delle poche fonti utilizzabili per ritrovare e per godere di quelle perle di intelligenza e di ironia che a volte scivolava nel sarcasmo.
Raro e prezioso come i ricordi che Ennio Flaiano, soprattutto, snocciolò disorganicamente in tanti appunti sparsi, poi raccolti in volumi.
Dal racconto di Bruno Caruso, pittore come si è detto, ma anche penna corrosiva, si ricava che fu il poeta Cardarelli, una personalità apparentemente cupa ed enigmatica, col suo spirito acre ed asciutto, a fare da detonatore a tutti gli altri in quella esplosione di umorismo a più sapori che segnò il periodo che intercorse tra i tardi anni Quaranta e i primi anni Sessanta.
Cardarelli era in effetti un personaggio ingombrante.
Soffriva di problemi circolatori e quindi lo si vedeva spesso seduto al Café de Paris, col cappotto, in pieno agosto.
Stava li, sullo scranno come un giudice, immusonito come un rimprovero vivente, a guardare il flusso ininterrotto di gente a Via Veneto.
Non era ricco e i camerieri di quel caffè lussuoso per deferenza gli praticavano i prezzi di vent’anni prima.
Lui, già ben fuori del suo tempo, non aveva la minima idea di godere di quel riguardo e non venne mai sfiorato dal dubbio che quei prezzi non fossero più che congrui.
Una volta, al termine di una passeggiata serale che a causa della sua età e dei problemi respiratori era stata per lui faticosa, di colpo si fermò, ansando.
Indicò ai suoi seguaci intimoriti la folla che brulicava da Rosati e con la voce cavernosa di un oracolo disse tre parole risolutive:
“Corromperemo anche loro!”.
Una frase insomma, che fondeva umorismo a sfondo cinico con la coscienza del passo pesante della Storia.
Marino Mazzacurati, altro instancabile animatore di quelle serate, era uno scultore e pittore emiliano che, tra l’altro, fu lo scopritore del genio naive di Ligabue.
Nel dopoguerra aveva lavorato a mille monumenti pubblici dedicati alla Resistenza e ai suoi martiri, spargendoli un po’ in tutta Italia.
Col tempo e con la distanza storica che andava aumentando, le commesse iniziarono a venir meno, così per lui cominciò un periodo difficile.
Fu dunque una manna dal cielo l’incarico che gli venne affidato dalla Repubblica di Francia, per realizzare a Parigi un monumento al maquis, il partigiano francese.
Sarebbe stata una svolta, con l’attenzione della critica puntata su di lui e i prevedibili effetti positivi che ne sarebbero scaturiti
Quasi contemporaneamente però, commise l’errore di firmare una petizione contro il Generale De Gaulle e la sua politica in Algeria.
La commessa gli venne prontamente revocata.
“Chi si firma è perduto”
commentò amaramente.
Uno dei bersagli preferiti dei suoi sfottò al vetriolo, fu proprio Cardarelli: vedendolo seduto al Caffè Greco, intento come al solito a scrutare silenzioso i turisti e le turiste che passavano, Mazzacurati commentò: “Ventimila seghe sotto i marmi”. E alludendo, in un’altra occasione, al pallore cinereo dello scrittore, che sembrava sempre sul punto di agonizzare, lo definì “il più grande poeta morente”.
Memorabili furono i duelli verbali e le prese in giro tra Amerigo Bartoli, pittore, e il già citato Vincenzo Cardarelli.
I due, solo dialetticamente com’è ovvio, se ne davano di santa ragione.
Durante uno dei loro litigi Cardarelli, alludendo alla non eccelsa statura di Bartoli, disse burbero: “Non sono un principe del Rinascimento, che ho bisogno del nano”.
Flaiano rinforzò in seguito lo stesso concetto sostenendo che quando Bartoli litigava con la moglie, poi passeggiava nervoso tutta la notte sotto il letto.
Leo Longanesi, giornalista e editore, un altro piccoletto, era così caustico che, avendone perfettamente coscienza, si autodefiniva
“il carciofino sott’odio”.
A volte una stessa frase passava, modificandosi, dall’uno all’altro dei membri di quel cenacolo.
Alludendo allo stile oscuro del critico d’arte Giulio Carlo Argan, Mazzacurati lo aveva ribattezzato:
”Mi spezzo ma non mi spiego” e Flaiano riutilizzando la battuta, l’aveva cambiata, facendone un autoritratto:
”Mi spezzo ma non m’impiego”.
Quasi nessuno riuscì ad essere risparmiato dall’umore corrosivo di questi intellettuali rotti ad ogni malizia, ad ogni strale ironico o sarcastico.
Quando l’attrice e scrittrice Elsa Di Giorgi, dopo un amore tumultuoso e seminascosto, venne abbandonata da Italo Calvino, inesorabilmente il solito Mazzacurati la definì ”Il resto del Calvino” e una simile sorte toccò anche a Sandro De Feo, poco elegantemente chiamato “Cafone il censore”.
“Siamo pochi ma indecisi a tutto”:
così Ennio Flaiano descrisse nel suo modo acuminato quel suo gruppo di amici che infestò fertilmente la vita culturale italiana del dopoguerra, dissipando senza ritegno patrimoni di intelligenza e di umorismo per le strade di Roma, illuminandone le serate.
Con lo scorrere del tempo quel mondo che aveva arricchito l’imperturbabile città eterna rendendola in un certo senso provincia della provincia, inevitabilmente si sfaldò.
La società prese a correre e l’Italia incappò nel boom economico. Saltarono confini, cambiarono ruoli sociali, si capovolsero fortune e sfortune: la società di massa già incombeva con la sua inedita sguaiatezza.
Tutti presero a consumare e cambiò, in fretta e per sempre, la funzione degli intellettuali.
Alcuni dei protagonisti della intellighenzia dei caffè e di quella stagione irripetibile, seppero dare una sintesi geniale perfino di questo mutamento epocale e del carico di malinconia che ciò che era tramontato lasciava fluttuare nel presente. Con questo aneddoto Bruno Caruso conclude il suo libro di ricordi:
«I tempi ormai stavano cambiando, morivano gli amici più vecchi, qualcosa nell’aria si stava inquinando irreparabilmente e gli uomini nuovi cominciavano inesorabilmente ad involgarirsi. Qualche anno dopo Flaiano attraversando un giorno frettolosamente Piazza del Popolo, incontrò Mazzacurati sotto l’Obelisco. Si scambiarono un mesto saluto e qualche convenevole.
Poi, volgendo insieme lo sguardo verso Rosati affollato da tipetti nuovi, dalle nuove generazioni di ambiziosi cineasti ancora senza nome, da attorucoli del tutto sconosciuti, poetastri in sordina e scrittorelli in incognito, con i jeans e i primi capelli lunghi, Flaiano, con un velo di amarezza e di compassione disse sottovoce a Mazzacurati:
“Li vedi? Credono di essere noi”».
Piermario De Dominicis, appassionato lettore, scoprendosi masochista in tenera età, fece di conseguenza la scelta di praticare uno sport che in Italia è considerato estremo, (altro che Messner!): fare il libraio.
Per oltre trent’anni, lasciato in pace, per compassione, perfino dalle forze dell’ordine, ha spacciato libri apertamente, senza timore di un arresto che pareva sempre imminente.
Ha contemporaneamente coltivato la comune passione per lo scrivere, da noi praticatissima e, curiosamente, mai associata a quella del leggere.
Collezionista incallito di passioni, si è dato a coltivare attivamente anche quella per la musica.
Membro fondatore dei Folkroad, dal 1990, con questa band porta avanti, ovunque si possa, il mestiere di chitarrista e cantante, nel corso di una lunga storia che ha riservato anche inaspettate soddisfazioni, come quella di collaborare con Martin Scorsese.
Sempre più avulso dalla realtà contemporanea, ha poi fondato, con altri sognatori incalliti, la rivista culturale Latina Città Aperta, convinto, con E.A. Poe che:
“Chi sogna di giorno vede cose che non vede chi sogna di notte”.