La Gazzetta della Palude

C’era una volta, tanto tempo fa, in un Paese lontano lontano, una ridente cittadina adagiata lungo una bella costa sabbiosa, ricca di dune e baciata dal sole.
Al tempo in cui i fatti che vado a raccontarvi si svolsero era una città giovane, perché meno di cento anni in un Paese dalla cultura millenaria erano realmente pochi.
Le terre di quel luogo erano definite “redente” in quanto sottratte, con una grandiosa opera di bonifica, ad una palude che le infestava, con tanto di malaria. 

In molti rimpiangevano l’epopea della bonifica come un periodo felice e anche il giornale locale, sensibile alle ragioni della nostalgia, si era scelto un nome evocativo di quella che da molti veniva ricordata come l’età dell’oro (anche i treni arrivavano in orario!).
Il fatto che il Governo che perseguì la bonifica avesse portato in dote anche una sanguinosa guerra, la fine dei diritti e delle libertà personali e il razzismo di Stato, e che molti bonificatori ci avessero perso la salute, quando non la vita, sembrava un vago ricordo fastidioso da confinare nel dimenticatoio.

Prosciugati i terreni, però, la palude era in parte rimasta nelle teste e nelle abitudini di quei cittadini a farsi gli affari propri, senza troppi riguardi per i lacci e lacciuoli delle leggi, come si conviene ai pionieri nelle terre di conquista, secondo la scuola del caro vecchio far west.
Le cose proseguivano abbastanza bene su quella strada, con la città che cresceva disordinatamente, sommersa da colate di cemento e arricchita da affari più o meno leciti.

Fino a quando alcuni gruppi criminali si fecero troppo sfacciati, andandosi a scegliere i referenti politici alla luce del sole: polizia e magistratura decisero allora che forse era arrivato il tempo di far rispettare le leggi.
Fu così che alcuni cittadini pensarono di potersi proporre come nuovi bonificatori, per tentare la strada del buon governo, nell’interesse della comunità e non di pochi, con l’aggravante del rispetto della legalità.

A sorpresa, quelle persone vennero democraticamente elette al governo della città.
Gli inizi non furono facili, perché la buona volontà non sempre era sufficiente a sopperire alle carenze di esperienza specifica nell’amministrazione di un comune piuttosto grande.
C’era da scontare una pesante eredità di carenze e di impicci, certo, ma questo messaggio faticava a passare verso la gente che si attendeva risultati miracolosi e immediati. 

Quando le cose cominciarono ad andare meglio, le critiche, sempre state pesanti e rumorose, invece di diminuire aumentarono.
Che dilettanti della politica potessero arrivare al potere era già un increscioso incidente, ma che riuscissero pure a raggiungere qualche obiettivo, lasciando fuori dai giochi coloro che si erano spartiti la torta fino ad allora, era veramente inaccettabile.

Il giornale locale, fedele al suo nome, guidava la fronda degli scontenti e anzi sollevava sempre nuovi argomenti di critica, incarnando quindi l’essenza dell’opposizione piuttosto che registrarne i rilievi.
Libertà di stampa e di espressione, per carità, fino a quando si rimane nell’alveo dei fatti reali e della contestazione argomentata degli stessi, però. Evidentemente questo martellamento non era considerato sufficiente da chi aveva interesse a buttare giù i novelli amministratori a spallate, perché a un certo punto le cronache narrano di una campagna stampa serrata, basata su una falsa notizia.

Si trattava di una presunta indagine che avrebbe riguardato l’intera Giunta, a partire dal Sindaco, sulla presunta illegittimità di una delibera.
Pur essendo a conoscenza di una mezza smentita da parte delle autorità giudiziarie, la campagna stampa andò avanti per giorni, con toni sempre più alti e con argomentazioni sempre più ardite, a supporto di quel processo mediatico che aveva la sentenza già scritta nei titoloni sparati a tutta pagina: condanna senza appello.

Il teorema, dato per dimostrato, era quello dell’omologazione dei nuovi amministratori ai vecchi: “qui è tutto un magna magna”, frase liberatoria e autoassolutoria di tutti i furbetti con la coscienza sporca. Chi tira su la testa dal fango della palude deve essere bastonato e ributtato sotto, che non venga in mente a nessuno che si possa amministrare senza seguire interessi personali; “colpirne uno per educarne cento”, antico adagio mai realmente passato di moda.

Rivoluzione cinese “colpirne uno per educarne cento”

E allora giù palate di melma per coprire questa “vergogna”, fino a quando non si torni alla normalità, alla tradizione di mediocrità tanto a lungo coltivata, al destino di sottomissione fisso ed immutabile.

Quando non fu più possibile ignorare le voci dissonanti che provenivano dal palazzo di giustizia, finalmente quella testata mise in prima pagina la non notizia – che non sarebbe stata necessaria se prima si avesse avuto un minimo di deontologia professionale – della non indagine a carico della Giunta. Probabilmente un brutto rospo da mandare giù, ma sempre meglio di una querela. Come tutti i bravi leoni da tastiera che diventano agnelli quando le cose si mettono male.

Proprio in quel tempo un illustre professore coniava un neologismo per descrivere la condizione patologica che colpiva alcune persone povere di spirito: “poraccitudine.
Diversa dalla pusillanimità, che ha un che di inconsapevole e involontario, la poraccitudine si caratterizza per la malafede che ne accompagna le manifestazioni esteriori.
Derivando da un atto di volontà che segue interessi e fini spesso inconfessabili, questa patologia ha l’aggravante di lasciare la bocca amara e un indefinito senso di malessere in coloro che ne soffrono, o almeno in coloro che mantengono quel minimo di caratteristiche che consentono di ricomprenderli nella categoria degli umani. 

Altri tentarono di inquadrare il problema come “sindrome dello specchio del bagno, prendendo a spunto l’attacco di nausea che, nella solitudine della stanza privata, dovrebbe prendere ogni mattina i soggetti affetti da tale disturbo. Probabilmente la sinteticità del termine singolo ne decretò infine il successo sulla frase più articolata.

Come finì l’avventura della seconda bonifica, vi chiederete.
Le cronache sono molto lacunose al riguardo e chi ha provato a ricostruire i fatti alla fine si è dovuto accontentare di affidarsi a deduzioni più o meno logiche.
Secondo alcuni, vista la situazione che ancora oggi affligge quella città, probabilmente finì male: gli oppositori dovrebbero aver avuto la meglio e quei novelli governanti potrebbero essere rimasti schiacciati da uno dei vari tsunami di fango ciclicamente sollevati, dalla Gazzetta della Palude e da altre inesauribili fonti.

Per altri, invece, il fatto che negli annali non sia rimasta traccia dei festeggiamenti che sicuramente avrebbero accompagnato la capitolazione, con fuochi d’artificio e cantanti neomelodici d’ordinanza, potrebbe essere un indizio, se non di successo, quanto meno di sopravvivenza.
Ma si tratta di fatti accaduti tanto, tanto tempo fa e purtroppo la memoria spesso segue, inesorabile, suoi labirintici percorsi che portano all’oblio, ora come allora.

Una cosa però appare chiara e regge alla prova del tempo: la poraccitudine ancora oggi è lungi dall’essere stata debellata.

Tanto il vostro Erasmo dal Kurdistan vi doveva, senza nulla a pretendere.

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