Innamoramenti collettivi

Non se ne abbia a male l’amica Nota Stonata, la mia non vuole essere un’invasione di campo. Non sarei mai in grado di cimentarmi col sentimento che prima o poi coinvolge, e talvolta sconvolge, la vita di grandissima parte degli esseri umani, e in ogni caso proprio mai col suo stile elegante.

Vorrei provare invece a sondare un aspetto sempre più evidente della vita sociale: le infatuazioni di massa, la tendenza, cioè, a sentirsi uniti ad altri simili nella condivisione di un’idea, di un progetto, di un’emozione. Non gli amori consolidati, quindi, che spesso sfociano in una fede (sovrannaturale o molto più terrena, come nel caso dei tifosi sportivi), ma quei movimenti di opinione che in un certo momento sostengono la tesi A, per poi, qualche tempo dopo, “tradire” A per B.

Grafico esemplificativo

Argomento che potrebbe confondersi col tema generale della moda, col quale condivide alcune dinamiche; a me interessa maggiormente approfondire questo fenomeno dal punto di vista della mobilità politica, come registrata dai flussi elettorali.

L’infedeltà elettorale è fenomeno relativamente recente nel nostro Paese, che si può far risalire al 1994, anno delle prime elezioni col sistema misto maggioritario-proporzionale, coincidente con la discesa in campo di Berlusconi e del suo partito-azienda.
Prima di allora una variazione di un punto percentuale faceva la fortuna o segnava la sorte di una classe dirigente, in un sistema bloccato con scarsa mobilità nel voto.
Basti pensare che il PSI di Craxi (nonostante fosse stato due volte primo ministro col pentapartito) arrivò al massimo a circa il 14% dei voti alle politiche, partendo diversi anni prima da poco meno del 10%.
Erano i tempi dei partiti ideologici, con forte senso di appartenenza nell’elettorato. Poi il crollo del muro di Berlino si portò giù anche le ideologie e le contrapposizioni storiche, e forse anche gli orizzonti ideali.

Il muro di Berlino

Fu proprio il Cavaliere a introdurre una nuova modalità di raccolta del consenso, mutuata dalla sua esperienza imprenditoriale: il marketing elettorale applicato al partito personale. 
Bravissimo nel raccattare voti, forse meno nel governare, dopo le varie roboanti promesse oggetto (inutilmente) di tanta satira – meno tasse per tutti, e via così – coniò la frase che avrebbe determinato una frattura mai più sanata tra governo del Paese e cittadini governati: “(non) mettere le mani nelle tasche degli italiani”.

Una svolta verso il disfacimento del contratto sociale, con lo stesso governante che dipinge lo Stato come un mariuolo nemico dei governati. Tana libera tutti e copertura politica verso gli evasori, che hanno trovato il massimo supporto alla loro azione vigliacca: chi può evita di contribuire secondo le proprie possibilità (in aperta violazione del dettato costituzionale), lasciando l’onere a chi non può evitarlo (reddito fisso con ritenuta alla fonte), senza rinunciare però ad usufruire dei benefici pagati da altri.
La cosa peggiore è che tale nefasto linguaggio è stato adottato anche dai suoi competitor politici: slogan che vince non si cambia, senza curarsi delle conseguenze.

Da allora è un’escalation a chi le spara più grosse; a chi, per farsi amica la bestia e i suoi cattivi pensieri, abbassa l’asticella dell’etica e sdogana gli istinti peggiori.
L’obiettivo pare essere quello di farsi popolo, di somigliare ai frequentatori del bar sotto casa usando il medesimo linguaggio e gli stessi superficiali argomenti: semplificare le situazioni complesse per proporre soluzioni tanto facili da comprendere quanto inefficaci, per apparire persone qualunque e quindi potersi proporre come rappresentanti (o portavoce) del popolo. Abbiamo avuto il rottamatore che, dimenticando l’importanza di ergersi sulle spalle di chi ci ha preceduto per poter mantenere una statura adeguata, si è ridotto a gnomo dall’ego ipertrofico, trovandosi infine rottamato lui stesso. E tutto per amore di battute e slogan da quattro soldi, solo per far presa sul popolino.

Battuta da 4 soldi

Cosa dire ancora degli anticasta, di quelli nati da un vaffa e rapidamente mutati in boiardi, con tanto di corte dei miracoli (e dei miracolati) al contorno. Uno vale uno, ma uno vale tutti, se è il titolare dell’impresa che detiene i diritti del marchio vincente. Il santone che tira le fila dietro le quinte, senza che nessuno lo abbia eletto ma “investito” per discendenza ereditaria. Fa venire in mente l’antica canzonetta che faceva più o meno così:

Guru suo padre, guru sua madre, guru la figlia della sorella, era guru pure quella, era guru pure quella…

Con la farsa della “democrazia diretta” in salsa salvasalvini, probabilmente quello che era stato l’ultimo innamoramento elettorale è giunto ai titoli di coda; il nuovo tradimento si sta orientando verso il socio di governo, come nei più classici drammi della gelosia.
Ma vediamola nei numeri, questa tanto sbandierata democrazia diretta. Arrotondando, su 100.000 iscritti alla piattaforma Rousseau hanno votato la metà, di questi il 60% ha scelto di seguire le indicazioni dei capi e negare la procedibilità dell’azione contro il Vicepremier “cattivo”, mentre il 40% ha deciso di sfidare apertamente le gerarchie. 

Al centro il Vicepremier “cattivo”,
in uno dei suoi più riusciti travestimenti (cit. Nick Carter)

Si potrebbe quindi sintetizzare che a favore del salvataggio si sia espresso il 30% dei militanti, un altro 20% si è espresso per l’autorizzazione a procedere e il restante 50%, pur essendo contrario al salvacondotto, ha preferito non esporsi col voto.

Ponzio Pilato nella toilette

Inoltre pare che nessuno prenda in considerazione il fatto che tutti gli iscritti (inclusi i pesci in barile che hanno scelto di non opporsi apertamente allo scudo parlamentare) rappresentano meno dell’1% degli elettori che hanno votato il M5S alle ultime elezioni politiche (10.750.000 circa).
Sarò all’antica ma, se questa è la democrazia diretta, io continuo a preferire la democrazia rappresentativa a suffragio universale (senza “portali” intermediari più o meno sotto controllo).

La leghista Donatella Galli che scrisse su Facebook “Forza Etna, forza Vesuvio, forza Marsili” in un post contro i meridionali nel quale si augurava “una catastrofe naturale nel centro-sud Italia”. 

C’è stato chi, per anni, ha predicato la supremazia del nord, tifando Vesuvio ed Etna, insultando i meridionali come l’ultimo troglodita delle valli alpine, e oggi si trova ad andare a chiedere il voto a quelle stesse persone offese senza ritegno, con tanto di felpa (ora divisa) d’ordinanza.
A chi, ancora affetto dal problema dell’esercizio della memoria, si ostinasse a chiedere conto di tanta incoerenza, i diretti interessati non potrebbero rispondere sinceramente, e cioè che è cambiato il copione della commedia e l’ineffabile selfista ne è solo il migliore interprete su piazza.
Ma la cosa più singolare è che quelli indicati come reietti qualche tempo prima, oggi vadano a spellarsi le mani sulla balla del “prima gli italiani”, non ponendosi neanche alla lontana il problema della credibilità di chi pronuncia uno slogan tanto roboante quanto vuoto di contenuti.

Una vignetta di Vauro

In ciascuno di questi casi è scattato l’innamoramento, con risultati elettorali che hanno fatto gridare al miracolo.
Ma l’accelerazione dei brutti risvegli sembra mostrare come, a forza di solleticare gli istinti peggiori, quello che all’inizio poteva effettivamente apparire come innamoramento si sia via via mutato in infatuazione; con l’ultimo caso siamo forse di fronte a un semplice incapricciamento.
Basti pensare alla parabola del PD: alle Europee di cinque anni fa raccoglieva oltre il 40% dei consensi espressi (con l’aiutino demagogico degli 80 euro), e sappiamo come è andata a finire solo una manciata di anni dopo.
Per cui anche coloro che oggi appaiono invincibili, sorretti da campagne mediatiche su poche frasi acchiappagonzi, probabilmente passeranno in fretta, non appena gli illusi torneranno in sé e vorranno uscire dall’incubo. 

Questi movimenti ondivaghi a frequenza crescente non sono però neutrali: oltre a spingere l’elettorato verso l’astensionismo (riducendo nei fatti gli spazi democratici), nei periodi di vacche grasse si avvantaggiano sempre i soliti noti, coloro cioè che poi non pagano dazio quando arriva il tempo di lacrime e sangue.
In questo modo la società si polarizza sempre più e, a fronte dei pochi che accumulano tantissimo, cresce il numero di coloro che vengono marginalizzati: gli espulsi dalla classe media che si affacciano sul baratro dell’indigenza.
Così il principio di uguaglianza, pilastro delle democrazie liberali nate con la rivoluzione francese, è il grande sconfitto di questi innamoramenti di massa, che spesso prendono le sembianze della schizofrenia.
Servirebbe uno bravo per una terapia collettiva. Avercene…

Il professor Cervellenstein
Il professor Cervellenstein

Tanto il vostro Erasmo dal Kurdistan vi doveva, senza nulla a pretendere.

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