Oltre a quello di inviare Monsignor Benigno Bertoni a Tashkent, in Uzbekistan, per un ciclo di spericolati esercizi spirituali, tra i primi provvedimenti presi dalla massima autorità della Compagnia di Gesù in seguito alla scoperta del losco affare Frangiflutti – Bertoni, ci fu la requisizione a quest’ultimo, della famosa poltrona Onyric, originariamente in possesso del Direttore del Fogliaccio quotidiano.
Fu così che quel prodigio della tecnologia finì nella Sede Centrale dei Gesuiti, e precisamente nella sontuosa stanza del controllatissimo Monsignor Luis Verafé, Primo Assistente del Preposito Generale, ovvero il più stretto collaboratore del “Papa nero”, e venne piazzata in una zona non molto distante dal suo inginocchiatoio.
Don Luis, da ragazzo era stato tirato su da una madre devastata dall’idea di Dio e non se l’era passata benissimo.
L’ente supremo, perennemente evocato dalla donna, ingeriva platealmente in ogni attività del bambino.
Dio era attentissimo, concentrato in modo ossessivo sul fatto che lui dicesse per bene tutte le preghiere del mattino, del pomeriggio e della notte, e a sentire la mamma del futuro prete, Nostro Signore tendeva ad impermalirsi facilmente per suoi eventuali comportamenti sciatti: guai a recitare le orazioni tirandole via alla buona, senza sentimento o coscienza, o a mostrare fretta nel dirle!
Guai a correre strillando nel cortile con coetanei lasciati a briglie sciolte da genitori troppo distratti dal mondo! Guai a desiderare caramelle o dolciumi! Dio ci soffriva prima, e si infuriava poi, e di brutto.
Soggiorni di pena aggiuntiva, da scontare in Purgatorio, andavano immediatamente a gravare sulla fedina morale del povero bambino.
Al piccolo Luis era dunque sufficiente il continuo lamento della madre per rigare dritto, non solo perché lei era direttamente istruita dalle sfere celesti, ma anche perché la figura paterna, nel suo caso, era abbastanza sfocata.
Il Signor Arcangelo Verafè faceva infatti il rappresentante di biancheria intima e passava la maggior parte del suo tempo fuori di casa, vicino ad un mucchio di casalinghe annoiate e lontano dagli ardori che sua moglie riservava più all’Altissimo che a lui.
Da piccolo, inevitabilmente, il ragazzino, prigioniero di fervori religiosi così accesi, aveva le ginocchia già consumate dalle genuflessioni e l’animo pervaso da un timor di Dio così asfissiante che prima o poi l’avrebbe strozzato.
Paradossalmente fu salvato da un uomo di chiesa.
Spedito dalla madre a studiare presso l’istituto “Sant’Ignazio Divino Microfono”, tenuto dai padri Gesuiti, il giovane Luis vi incontrò Don Cinico Agnolesi, prete sostanzialmente ateo, come tanti suoi colleghi, ma uomo di mondo e di dottrina.
Don Agnolesi era un intellettuale di carattere freddo, al punto che quando era ancora un seminarista i suoi confratelli gli avevano affibbiato il nomignolo di “Varano” e si tenevano ben distanti sia dalla sua benevolenza che dalla sua possibile acredine, avendo capito, più o meno inconsciamente, che entrambe potevano essere letali.
Per temperamento le passioni allarmavano Cinico, lo turbavano al punto che se gli capitava di provarne qualcuna, la celava a se stesso e al mondo, e non solo per la presunta inopportunità, ma perché la avvertiva come un pericolo, come un fatto eversivo dei suoi progetti di vita.
Nulla doveva intralciare la sua ricerca di un posto di retropotere nel mondo, di uno spazio cioè in cui potesse far valere il patrimonio di pazienza speso negli studi e la sua abilità ben coltivata nel manovrare cose e persone.
Amava tenere segretamente le fila di molte trame e ottenere il risultato voluto, senza preoccuparsi di andare a segno dovendo necessariamente esprimere del bel gioco: il fine, qualunque fosse, bastava ampiamente a giustificare i mezzi, tutti ammessi.
Questo era ciò che Agnolesi aspirava a fare e naturalmente sapeva che per riuscire in qualsiasi manovra, occorre tenersi lucidi.
Così, durante tutto quello che era stato il corso della sua formazione e per tutta la sua esistenza, Don Cinico aveva relegato le passioni smesse in una zona paludosa della sua coscienza, tenute lì accatastate, a fermentare pericolosamente.
Nessuno avrebbe potuto dire se e quando sarebbe esplosa quella bomba di roba repressa, così quella testa brillante appariva a quasi tutti quelli che lo conoscevano, perfettamente normale, uno scrigno di equilibrio e buon senso. Pochissimi avvertivano, attraverso un disagio che essi stessi non avrebbero potuto spiegare, la mostruosità e la pericolosità di quella normalità.
Perfino le vittime del suo spregiudicato carrierismo e delle sue congiure, persone colpite nelle loro ambizioni e negli affari e a volte negli affetti, non erano in grado di risalire a lui, a quel gesuita apparentemente corretto ed intelligente, individuandolo come il vero responsabile delle loro sventure. L’ex “Varano” finì per individuare nell’insegnamento della dottrina e nella consulenza politica gli spazi più adatti ad esprimere pienamente il suo talento di stratega.
E fu proprio lui, Don Cinico, allora insegnante di Teologia Sociale, ad intravedere nel suo giovane allievo Luis, così segnato dalla devastante opera educativa materna, un perfetto campo di azione per i suoi esperimenti sugli esseri umani scricchiolanti, quelli che versavano in situazioni particolarmente sgradevoli.
In pochi anni Agnolesi plasmò il giovane Verafè, desensibilizzandolo, insegnandogli il culto del conseguimento a tutti i costi del risultato prefisso. Lo esortò a compatire se stesso anche mentre guardava il cadavere del suo nemico rantolare vinto ai suoi piedi e lo allenò soprattutto a bandire dal suo animo ogni sentimento che non fosse puramente didascalico, di facciata, utile ad incantare i deboli e a servirsene.
E il ragazzo imparava: “A tutti i costi” divenne il suo motto favorito, la stella polare del suo percorso.
Monsignor Verafé, il gesuita di risulta, fu quindi il prodotto di una sorta di clonazione psicologica, copia quasi perfetta del suo mentore, Don Cinico.
La sua carriera, non casualmente, era stata altrettanto veloce e nulla sembrava poterla arrestare.
Leggendo il plico preparato dalla tribù Tarallo, quello che era stato consegnato dal falsissimo diplomatico spagnolo Don Rodrigo de Bazuca ai superiori di Monsignor Bertoni, incartamento che ricostruiva le malefatte di quest’ultimo in combutta con il Direttore di un fogliaccio di provincia e che conteneva anche le prove dell’uso a fini immorali di una poltrona ad alta tecnologia, Monsignor Verafè era stato il più inflessibile nel consigliare al Superiore Generale una punizione esemplare per Bertoni e, come sempre, venne ascoltato.
Ora si ritrovava la poltrona, quel sinistro arredo, nella sua stanza, proprio accanto all’inginocchiatoio, puntello delle sue frettolose e formali giaculatorie.
Per giorni guardò gelidamente la Onyric, indifferente, quasi fosse un trofeo di guerra il cui possesso non gli arrecava alcuna soddisfazione.
Ma una sera qualsiasi, per ragioni inspiegabili, e del tutto incongruamente rispetto alla forma mentis che con volontà feroce si era costruito negli anni, fece qualcosa di profondamente eccentrico per un uomo come lui, che non si voltava mai indietro: riprese in mano i documenti del Caso Bertoni, trovandosi quindi a maneggiare per la seconda volta la pennetta coi sogni vissuti dal Monsignore malandrino.
Fu un momentaneo blackout della sua personalità, come se il ragazzino che era stato, ossessionato dalle smanie religiose di sua madre e strozzato dal suo asfissiante controllo, fosse rinato e avesse intravisto una via di fuga. Un’irruzione emozionale imprevedibile aveva forzato il vuoto pneumatico della sua sfera profonda, occupandola momentaneamente.
Monsignor Verafè, quasi in stato di sonnambulismo, sedette sulla poltrona con il viso contratto da una smorfia di preoccupazione ed eccitazione al contempo.
La sua maschera di falsa ragionevolezza, di solito impassibile, tradiva ora qualcosa di malsano, di malato.
Con la mano che aveva preso a sudare, infilò la pennetta nella presa e si trovò di colpo dentro uno dei sogni fatti da Bertoni.
La bocca gli si spalancò per la sorpresa senza riuscire ad emettere un solo suono e si accorse di essere in una dimensione parallela.
Verafé addirittura incrociò l’altro Monsignore sulla soglia di una stanza dalla quale proveniva la luce abbacinante di una giornata di sole splendente.
Bertoni, era proprio lui, gli sfilò a fianco a testa bassa, senza guardarlo in faccia e senza dire una parola.
Uscì di scena.
Una voce femminile molto musicale, bassa e sensuale, invitò Verafé ad entrare.
“Vieni pure Luis caro: Benigno sta giusto andandosene” …
Rosso in faccia per la reazione allarmata del suo temperamento, di solito più che cauto, e che in quel tono seduttivo della voce intravedeva una minaccia, Verafè, facendo un passo incerto in avanti, entrò comunque in quella camera luminosa.
Senza esservi minimamente preparato si trovò davanti gli occhi verdi e immensi di Ava Gardner, il suo sorriso sterminato e il suo corpo generoso: un panorama meraviglioso, mai visto.
Le ginocchia, quelle stesse ginocchia consumate dalle genuflessioni ai tempi in cui era un bambino represso dalla madre, gli si piegarono di botto.
Lallo Tarallo, giovane sin dalla nascita, è giornalista maltollerato in un quotidiano di provincia.
Vorrebbe occuparsi di inchieste d’assalto, di scandali finanziari, politici o ambientali, ma viene puntualmente frustrato in queste nobili pulsioni dal mellifluo e compromesso Direttore del giornale, Ognissanti Frangiflutti, che non lo licenzia solo perché il cronista ha, o fa credere di avere, uno zio piduista.
Attorno a Tarallo si è creato nel tempo un circolo assai eterogeneo di esseri grosso modo umani, che vanno dal maleodorante collega Taruffi, con la bella sorella Trudy, al miliardario intollerantissimo Omar Tressette; dall’illustre psicologo Prof. Cervellenstein, analista un po’ di tutti, all’immigrato Abdhulafiah, che fa il consulente finanziario in un parcheggio; dall’eclettico falsario Afid alla Signora Cleofe, segretaria, anziana e sexy, del Professore.
Tarallo è stato inoltre lo scopritore di eventi, tra il sensazionale e lo scandaloso, legati ad una poltrona, la Onyric, in grado di trasportare i sogni nella realtà, facendo luce sulla storia, purtroppo non raccontabile, di prelati lussuriosi e di santi che in un paesino di collina, si staccavano dai quadri in cui erano ritratti, finendo col far danni nel nostro mondo. Da quella faccenda gli è rimasta una sincera amicizia col sagrestano del luogo, Donaldo Ducco, custode della poltrona, di cui fa ampio abuso, intrecciando relazioni amorose con celebri protagoniste della storia e dello spettacolo.
Il giornalista, infine,è legato da fortissimo amore a Consuelo, fotografa professionista, una donna la cui prodigiosa bellezza riesce ad influire sulla materia circostante, modificandola.
Lallo Tarallo è un personaggio nato dalla fantasia di Piermario De Dominicis, per certi aspetti rappresenta un suo alter ego con cui si è divertito a raccontarci le più assurde disavventure in un mondo popolato da personaggi immaginari, caricaturali e stravaganti