PREFAZIONE:
Sono venuto a sapere dell’esistenza delle mura del Monte Carbolino grazie ad un amico e collega che, conoscendo la mia passione per la ricerca di nuovi sentieri, un giorno mi portò alcune fotocopie di una rivista di archeologia, fotocopie che descrivevano proprio queste antiche costruzioni, sfidandomi a trovare un cammino che le potesse raggiungere.
Scoprii queste mura imponenti solo dopo qualche mese e dopo diversi tentativi infruttuosi. Da allora ci porto gli amici, che a volte mi prendono in giro per l’entusiasmo che provo nel far vedere “stì dù sassi”.
La voglia di raccontare la storia e la cultura del nostro territorio, che non penso sia a conoscenza di tutti, ha fatto il resto. Però, come ho fatto con Gusville, ho provato a narrare delle mura e della necropoli di Caracupa, di cui sono venuto a sapere in seguito, non in maniera accademica, ma cercando di divertirmi e divertire.
Durante le ricerche fatte per documentarmi, la lettura poi dell’articolo “La metamorfosi degli Dei”, di Gabriella Cetorelli e Sergio Schivo, ha fatto prendere una strada diversa ed inaspettata a quanto stavo scrivendo. Un fatto imprevisto questo, che mi ha portato a dare ragione a chi dice che “un racconto vive di vita propria”.
PS: nel Museo Nazionale Preistorico Etnografico Luigi Pigorini, che si trova all’EUR, si possono vedere gli oggetti recuperati nelle tombe scavate a Caracupa e quelli rinvenuti nelle tombe scavate presso l’abbazia di Valvisciolo.
12 Agosto 1996
Aveva subito capito che la tomba era diversa dalle altre. Lo scheletro, deposto supino con le braccia adagiate sui fianchi, era circondato da un sontuoso corredo.
Gli scavatori dovevano ancora terminare il loro compito di pulitura, ma di tutte le tombe scoperte al momento sotto il Monte Carbolino, vicino all’Abbazia di Valvisciolo, quella era sicuramente la più ricca.
Si cominciavano a distinguere alcuni anelli, una collana e due ferma trecce ai lati del cranio.
I monili, l’ampiezza della cassa toracica, il bacino largo e aperto, tutto faceva pensare che dovesse trattarsi di una donna.
“Una principessa”, pensò.
La principessa di Caracupa.
24 Luglio 2017
La notte era buia.
Senza luna, senza stelle, senza luci.
Praticamente un buco nero esploso nella Pianura Pontina, nel quale comunque il Vecchio riusciva a muoversi a piccoli passi, annusando l’aria come un cinghiale sospettoso, sondando il terreno con i suoi stivali da pescatore.
I sensi erano tutti all’erta, anche se sull’udito incominciava a non farci più tanto affidamento.
Qualche mese prima era andato dal dottore. Acufene, era stata la diagnosi. Sicuramente la parola verrà dal greco, pensò: Acu=rottura, fene=di palle. Manca “grande” all’inizio, ma va bene lo stesso.
Il Vecchio stava ancora percorrendo il sentiero battuto, un po’ come facevano i poveri soldati che si venivano a trovare accidentalmente in un campo minato, un passo impercettibile alla volta, con la fronte imperlata di sudore, trascinando la pianta dei piedi, come se sotto gli stivali avesse avuto le pattine, in attesa di sobbalzare alla prima asperità del terreno.
Così il Vecchio stava seguendo il sentiero, in attesa di sentire la radice.
Lì avrebbe dovuto voltare a destra. Del resto, aveva pianificato tutto alla perfezione.
Che quella sera sarebbe stata una notte senza luna l’aveva visto consultando il calendario di Barbanera, appeso in cucina.
Che ci sarebbe stata la possibilità di vedere poche stelle l’aveva capito poi guardando le previsioni del tempo il giorno precedente sul canale 501 di Sky: tasto verde, principali città, Lazio, Latina: mattina nuvolo, pomeriggio nuvolo, sera nuvolo.
Da qualche giorno l’anticiclone delle Azzorre si era preso una vacanza e la variabilità del tempo aveva portato a giornate di sole alternate a giorni di pioggia. Buono per chi va a cercare funghi, ma non per lui che voleva un poco di tempo stabile per pianificare le sue uscite, di nascosto da tutti e tutto.
Terza condizione: né torce, né altre luci accese.
Certo il Vecchio non era uno sprovveduto ed aveva comunque portato con sé una di quelle diavolerie comprate dai cinesi: una mini torcetta tanto piccola quanto potente, capace di illuminare a giorno l’Abbazia di Valvisciolo, che vedeva quasi di fronte, in alto, illuminata già di suo.
A chi lo avesse incontrato a quell’ora di notte sarebbe venuto un coccolone. Gli stivali da pescatore gli davano un’andatura impacciata, quasi fosse uno zombie. Uno zombie della prima generazione, di quelli lenti e maldestri, alla Walking Dead e alla Romero, per intenderci, e non velocissimi e ipercinetici come quelli di World War Z.
Il grosso camicione a fiori e la folta barba bianca lo facevano sembrare un santone, anche se lo zaino Invicta, fregato a sua nipote, lo faceva regredire da uomo saggio ad attempato scolaro fuori corso.
E non sarebbe stata tanto la strana combinazione di “santone zombie alle elementari” a spaventare lo sventurato che lo avesse incontrato, quanto quel prolungamento della mano destra, lucido, argenteo, che sfiorava il terreno ritmicamente, come quelle protesi aliene che il cattivo di turno si fa innestare, al termine di operazioni improbabili, nei film di serie B, e che alza al cielo prima di gridare al mondo la propria volontà di conquistarlo.
Beh, anche il Vecchio doveva aver gridato qualcosa quando su internet incominciò a vedere i prezzi di questo aggeggio (anche se in effetti aveva digitato solo due parole: metal + detector).
Il Vecchio non voleva conquistare il mondo, voleva solo impossessarsi di una piccolissima parte dei suoi tesori, tanto piccola che nessuno se ne sarebbe accorto. Il mondo avrebbe continuato a girare come sempre, ma lui avrebbe vissuto una vecchiaia migliore, possibilmente al caldo e con la pancia piena.
Il fatto di stare lì di notte, sotto le falde del Monte Carbolino, intabarrato come un marziano, era dovuto al verificarsi di due eventi, avvenuti lo stesso giorno, un mese prima.
Coincidenze?
Al Vecchio piaceva sempre ricordare una frase letta in un libro
“le coincidenze, a volte, sono i segnali misteriosi della vita, ai quali bisogna sempre credere”.
continua…
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A Renzo Rossi piace creare.
Disegna chiassose e sgargianti foreste abitate da animali antropomorfi, a volte miti ed amichevoli, a volte irosi e dispettosi.
Raccoglie tronchi e legni in riva al mare per inventarsi strane sculture.
Rovescia vasi per dipingerli e colorarli.
Quando, con grande fatica, si mette a scrivere, vuole stupire, meravigliare, per raccontare storie che pensa siano poco note, di posti a noi vicini.