La pandemia, per un soggetto patologico come Omar Tressette, titolare di una collezione imponente di idiosincrasie e di intolleranze a cose, persone e insetti, avrebbe potuto avere paradossalmente effetti positivi.
Impedendo per un periodo al grande intollerante di confrontarsi col mondo, nascondendo cioè alla sua vista le svariatissime cose che detestava o che avrebbe potuto fulmineamente detestare, la quarantena avrebbe potuto essere quasi una manna dal cielo per il suo fegato e, forse anche di più, per i fegati di coloro i quali avevano a che fare con lui.
Per tutti quei mesi Omar si era aggirato stranito per casa sua, guardandola, si può dire, come se la vedesse per la prima volta, scoprendola palmo a palmo come potrebbe fare un esploratore.
I primi giorni di isolamento erano stati i più duri: con sua moglie il dialogo era difficile, quanto a suo nipote Lisippo, che era diventato un imbalsamatore d’avanguardia, era stato sorpreso dallo stop pandemico mentre si trovava nel suo laboratorio, sito in un appartamento isolato in un quartiere dell’estrema periferia.
Erano i giorni in cui lavorava sulle spoglie mortali del criceto Raskolnikov, mancato all’esagerato affetto della famiglia con la quale era vissuto, gente che non volendo separarsene, lo aveva affidato alle mani eternatrici del giovane Tressette.
Solo per suo sfizio, fuori dall’orario di lavoro, Lisippo cercava di entrare nel Guinness dei tassidermisti come l’artista che aveva imbalsamato l’animale più piccolo, così si dava ad esperimenti temerari ma spesso soddisfacenti che avevano già avuto un esito positivo con uno scarafaggio ed un calabrone.
La sua prima, disturbata, reazione all’arrivo della pandemia, della quale, tra l’altro, si era accorto in ritardo, fu di esaltazione: avrebbe tentato la scalata all’immortalità, imbalsamando un coronavirus!!
Ignaro di ciò che agitava la mente strapazzata del nipote, Omar, in quei primi giorni di forzata reclusione, all’ennesimo coro patriottico che provenendo da balconi di case circostanti, gli aveva smosso gli umori peggiori, aveva imbracciato un antico schioppo francese del 15° secolo, vanto della sua collezione e ne aveva testato l’efficienza.
Il coso fece un gran botto che si perse però tra gli alti ragli dei vicini, che dalle terrazze strillavano “Ma il cieeelo è seempre più bluuuu”.
Omar, più fumante della sua arma, deluso dalla mancanza di vittime, si ritirò in casa.
Quei signori che, oltre ad ululare, avevano anche esposto la bandiera, si accorsero solo il giorno dopo del misterioso buco che si era aperto in quel vessillo, un foro irregolare coi bordi bruciacchiati.
Nessuno in quella famiglia riuscì a spiegarsi il mistero della bandiera bucata: solo il loro cugino Antimo, consultato telefonicamente, si disse certo che il foro fosse una conseguenza dell’attività omicida delle scie chimiche, che andavano trasportando il virus qua e là.
Tressette continuava a mordere il freno.
Nel suo recente passato il nostro bizzoso ometto, dopo una vita di lavoro, si era ritrovato con una grande disponibilità di tempo libero.
Il suo impero industriale ormai andava avanti bene grazie all’opera di collaboratori fidati, gli stessi che gli volevano bene, ma che ora erano selvaggiamente felici di non essere più sottoposti alle occhiute e quotidiane ispezioni da parte di quel capo, pronto a nitrire come un cavallo quando vede l’insegna di una macelleria equina, al primo loro paio di calzoni “sbagliato”.
Tressette quel tempo libero, invece di sfruttarlo per coltivare degli hobbies, delle passioni, lo aveva impiegato per coltivare a pieno i propri odi.
Con immaginabile sollievo di sua moglie, la Signora Sofronia, che al contrario di lui era un tipo aperto e contraeva passioni effimere con la stessa facilità con la quale in inverno si beccano i raffreddori, Omar ogni mattina, fatta colazione, naturalmente senza ruotare minimamente la sua tazzina di caffé, si vestiva, rimanendo sempre un po’ stazzonato, e si levava dai piedi.
Usciva di casa, presto, naso a terra, come un bracco.
A quel punto veniva preso in carica dalla città che veniva battuta palmo a palmo per strade e piazze, analizzata passante per passante e, in caso di esiti a lui sgraditi, smascherata da Tressette, maledetta da lui come se fosse un patriarca incazzato, e messa a soqquadro dalle sue reazioni esagerate.
Ne sapeva qualcosa il Professor Cervellenstein che col suo ostinato lavoro tentava da anni, conseguendo anche qualche successo, di limare gli eccessi idiosincratici del suo paziente più focoso.
Nel pieno della chiusura generale, le sedute con Omar erano state sospese: senza occasioni scatenanti, le sue rabbie prevedibilmente si sarebbero anch’esse messe in quarantena.
Così Tressette, come una tigre in gabbia, dopo la famosa schioppettata, passò la prima settimana ad esplorare casa sua.
Era una grande villa, con moltissime stanze, ambienti nella maggior parte dei quali il nostro eroe non aveva mai messo piede.
Di tutto quel ben di Dio, d’altronde, non sapeva che farsene, a lui bastavano il suo studio e la sua camera da letto.
Lui e sua moglie, in effetti, dormivano in camere separate a causa del russare leonino della signora, un concerto di versi selvaggi che una notte avevano portato un inferocito e assonnato Tressette sull’orlo di uno spettacolare uxoricidio.
Al termine di un programma di concerto notturno che sembrava tenuto da un ensemble di belve a digiuno da un anno, culminato in un ruggito così forte e spaventoso da svegliare anche l’autrice, la Signora Sofronia, con un sussulto, si era trovata ad un millimetro di distanza dalla propria, la faccia del marito, alterata dall’esasperazione.
Con terrore la donna si rese conto che Omar, ridendo d’un ghigno folle di vendetta, teneva in mano un lettore mp3 con inseriti dentro “Tutti i Fucceffi di Jovanotti”, e dall’espressione feroce dell’ometto, privato di ore e ore di sonno, si intuiva che sarebbe stato davvero capace di servirsi di quell’arma.
Alla fine, destatosi per fortuna da quella trance di furore, Tressette aveva risparmiato la vita a Sofronia.
In seguito al pericoloso episodio, era stata presa la giudiziosa decisione di separare le loro vite notturne.
A dire la verità, al di là della stanza da letto e dello studio, Omar usava anche un’altra stanza, più grande delle altre: era quella nella quale accumulava gli oggetti disparati che considerava trofei della sua battaglia in nome dell’estetica, quelli sottratti ai nemici.
Erano cose colpevoli, a suo giudizio, di guastare l’armonia dell’universo e di avere di conseguenza caratteristiche per lui urticanti.
Tazzine di caffé, strappate ai ruotatori da bar, intere o fatte a pezzi, orrende canottiere dalle fantasie impervie, con colori visibili anche ai defunti, calzoncini corti d’ogni foggia e sguaiatezza e, soprattutto, una distesa impressionante di ciabatte estive dalle fogge e dalle tinte più diverse.
Questi reperti erano il risultato dei tanti duelli rusticani nei quali l’iroso Tressette si era buttato a capofitto.
In una teca di vetro, in posizione di assoluta rilevanza, erano esposte le prede più preziose: sette paia degli orribili sandalazzi teutonici che costituivano il maggior tabù estetico di Omar Tressette.
Non era stato facile strapparli dai piedacci inguardabili di cittadini fratizzati: ciascuno di essi gli era costato ora una contusione, altre volte una serie di graffi, oppure un pulviscolo di lividi.
Oltre le amate stanze, nelle quali gli era caro il sostare, l’Omar dei tempi pandemici si era spinto ad esplorare il resto della casa, ma, avendo sbrigato quell’incombenza in una decina di giorni, privato, com’era, della possibilità di mettersi a caccia di cose da detestare, aveva cominciato ad annoiarsi.
Finiva immancabilmente per approdare nell’immensa sala di ricreazione della signora Sofronia.
Ciondolava con il muso lungo nei pressi della moglie, sempre impegnata in attività così strambe da dipingergli in faccia un’aria nauseata.
Successe anche quel giorno che lei stava prendendo a distanza lezioni di Yabusame.
E’ un dato di fatto sul quale sussistono pochi dubbi: se c’è una cosa che disturba l’apprendista femmina dello yabusame, è il trovarsi intorno un marito che prende a commentare con ironico cinismo i suoi coraggiosi tentativi di mettere in pratica la materia che si sta tentando di apprendere.
Il fatto che Tressette facesse commenti malevoli e sottolineasse le incertezze di Sofronia, facendo pure le vocine, peggiorava lo stato delle cose.
Imparare quella roba, infatti, non è cosa semplicissima, parlando dello yabusame, in quanto esso è, nientemeno che, l’arte del tiro con l’arco a cavallo giapponese, anzi, no, è l’arte giapponese di tiro con l’arco a cavallo, indifferentemente dalla nazionalità dell’equino.
Comunque la si definisca, quest’arte, posto che uno si sia procurato un arco e delle frecce, richiede in ogni caso la presenza di un cavallo, non quella di un marito che ti girella intorno facendo le vocine: la convivenza tra i due, quando si verifica, può rivelarsi infatti, difficile.
A conferma di questa scomoda verità, tra tutti i presenti quel giorno nell’immane salone della signora Tressette, Akikazo, il cavallo, appariva il più nervoso.
Per una moglie di una certa età, stare sul dorso di un animale che si è persuaso che suo marito sia la peggiore delle escrescenze che deturpano il pianeta, può rivelarsi destabilizzante.
Dallo schermo gigante, in collegamento diretto col Giappone, il venerabile Maestro di Yabusame Bunzo Watanabe latrava secco istruzioni nella sua lingua e la signora Sofronia, non conoscendo il giapponese e ostacolata dall’ondeggiare nervoso di Akikazo, tentava solo di imitarne i movimenti.
Omar, sempre preciso, sternutì proprio nel momento in cui sua moglie, coordinandosi con Bunzo Watanabe, stava scoccando la freccia verso il fondo del lunghissimo salone sul quale aveva poggiato il grande bersaglio.
L’impennata del cavallo, degna di quello di Napoleone nel famoso quadro di David, disarcionò Sofronia, e la sua freccia, sviata dalla caduta, imboccò la strada della finestra e, trovandola sgombra, la infilò, uscendo fuori dalla villa.
Tressette, raccattata sua moglie, che fortunatamente stava bene, si mise in faccia la mascherina con su la Z di Zorro, dono di Consuelo, e si precipitò fuori per recuperare la freccia e controllare che il numero dei morti e dei feriti fosse risultato modesto.
In strada non c’era quasi nessuno, a parte un ometto panciuto in calzoncini e sandali che stazionava, orribile a vedersi, all’uscita del supermercato reclamando, a parere di Omar l’indignazione del mondo.
Teneva in mano un’accecante canottiera turchese stracciata.
Aveva l’aria stupefatta e spaventata, e tanta voglia di parlare al mondo di ciò che gli era capitato:
“L’avevo appena comprata – uggiolava dispiaciuto – ero appena uscito fuori dal supermercato che ho sentito qualcosa passarmi velocissimo vicino all’orecchio, era una specie di fischio! Non so che sia stato davvero: so solo che quella “cosa” mi ha stracciato questa canottiera bellissima, nuova nuova, accidentaccio cane! Era pure in offerta!”.
Tressette sbirciò i resti di quell’orrore turchese e complimentandosi con la freccia di sua moglie per il buongusto dimostrato, per la prima volta in vita sua, ebbe un dubbio di natura ontologico-metafisica: “E se esistesse davvero?”.
Lallo Tarallo, giovane sin dalla nascita, è giornalista maltollerato in un quotidiano di provincia.
Vorrebbe occuparsi di inchieste d’assalto, di scandali finanziari, politici o ambientali, ma viene puntualmente frustrato in queste nobili pulsioni dal mellifluo e compromesso Direttore del giornale, Ognissanti Frangiflutti, che non lo licenzia solo perché il cronista ha, o fa credere di avere, uno zio piduista.
Attorno a Tarallo si è creato nel tempo un circolo assai eterogeneo di esseri grosso modo umani, che vanno dal maleodorante collega Taruffi, con la bella sorella Trudy, al miliardario intollerantissimo Omar Tressette; dall’illustre psicologo Prof. Cervellenstein, analista un po’ di tutti, all’immigrato Abdhulafiah, che fa il consulente finanziario in un parcheggio; dall’eclettico falsario Afid alla Signora Cleofe, segretaria, anziana e sexy, del Professore.
Tarallo è stato inoltre lo scopritore di eventi, tra il sensazionale e lo scandaloso, legati ad una poltrona, la Onyric, in grado di trasportare i sogni nella realtà, facendo luce sulla storia, purtroppo non raccontabile, di prelati lussuriosi e di santi che in un paesino di collina, si staccavano dai quadri in cui erano ritratti, finendo col far danni nel nostro mondo. Da quella faccenda gli è rimasta una sincera amicizia col sagrestano del luogo, Donaldo Ducco, custode della poltrona, di cui fa ampio abuso, intrecciando relazioni amorose con celebri protagoniste della storia e dello spettacolo.
Il giornalista, infine,è legato da fortissimo amore a Consuelo, fotografa professionista, una donna la cui prodigiosa bellezza riesce ad influire sulla materia circostante, modificandola.
Lallo Tarallo è un personaggio nato dalla fantasia di Piermario De Dominicis, per certi aspetti rappresenta un suo alter ego con cui si è divertito a raccontarci le più assurde disavventure in un mondo popolato da personaggi immaginari, caricaturali e stravaganti