Quando la signora Flora Buffa Taruffi, nella tarda mattinata di un luglio rovente di parecchi anni fa, prossima al parto, venne accompagnata in ospedale da suo marito Serse, confuso e accaldato, non prevedeva di affrontare una prova difficile.
Presentiva questo anche se in realtà la sua gravidanza era stata piuttosto travagliata e più volte si era presentato il rischio di un parto anticipato, evento che avrebbe ucciso il suo bambino.
Dall’ecografia aveva infatti saputo che era un maschietto, e dagli allarmi ripetuti nel corso della sua gestazione, aveva capito che il nascituro, suo figlio primogenito, non era un feto attendista, piuttosto un tipo agitato, impulsivo.
Si sentiva pronta, quindi, nonostante l’inesperienza, ad un parto facilissimo: impaziente com’era il piccolo Marzio, sì, avevano deciso di dargli quel nome, si sarebbe certamente tuffato nel mondo alla velocità di un siluro.
Il tempo di sistemarsi in una stanza della maternità e dall’ennesima fitta al ventre, più forte delle altre, capì che era arrivato il momento.
Il team del reparto, attrezzatissimo, un ginecologo e due infermiere espertissime, pronto come sempre, la attendeva in sala parto.
Il sorriso che dietro le mascherine aveva illuminato il viso dei sanitari, dopo un bel po’ che trafficavano intorno al pancione della signora Flora, scomparve, lasciando il posto ad una smorfia di preoccupazione che dopo un altro bel po’ di tempo, si era tramutata in un’espressione seccata di fastidio: quel parto, contrariamente alle previsioni materne, si era trasformato in una trattativa col nascituro, rivelatosi un tipo maledettamente diffidente.
Non c’era verso di stanarlo, non ne voleva sapere di venir fuori.
Provando un’intensa vergogna di sé, il ginecologo provò addirittura a fare le vocine per persuaderlo:
“Suuu, cicciobellissimo, ciccino, dai vieni qui, guarda che ti do, suu, dai bellino…”
La mamma ormai era oltre il dolore stesso: non lo sentiva più e quello stallo la imbarazzava moltissimo.
S’era fatta tutta rossa, ma non per lo sforzo: che figura, accidenti! Neanche nato e suo figlio già la faceva vergognare!
Non se lo spiegava: per tutta la gravidanza quel disgraziato di bambino aveva cercato di evadere prima del tempo, e adesso stavano tutti a pregarlo, invano, di farsi vedere.
All’interno della pancia materna, intanto il giovane Marzio si era deciso a resistere: per quanto lo riguardava, il nascere, che comportava inevitabilmente l’inizio del suo invecchiamento e del conseguente computo del suo tempo, poteva attendere!
Dopo tutto non si stava malaccio in quelle trippe, a pensarci.
Sì, era vero, c’era stata un epoca nella quale aveva provato curiosità per il mondo di fuori e avuto l’impulso a saltarci dentro per vederlo, ma quella era l’epoca in cui era un giovane feto incosciente: ora vedeva le cose con la maturità del quasi neonato.
Nel monolocale nel quale aveva abitato in quei nove mesi in fondo si stava benino: il vitto era decente, l’ambiente riparato, gli orari stabiliti, niente delinquenza: che si poteva volere di più?
L’unica sua possibile lamentela riguardava i gusti musicali di sua madre: dover sentire tutta quella robaccia di Antonacci, bah…!
Queste considerazioni, ormai radicate, lo rendevano inattacabile dalle lusinghe del personale medico:
“Cicci bellooo, guarda che ti doo: la fochina! Vieni a vedere com’è carina la fochina che fa Splasshhh. …”.
Lui teneva duro e non usciva.
Alla fine il renitente alla nascita venne preso con un cesareo eseguito in tutta fretta dal ginecologo, che aveva i nervi a fior di pelle per aver perso l’inizio della partita in tivvù, così Marzio Taruffi, dichiarato ufficialmente nato, potè iniziare la sua carriera di vivente.
Era però indispettito, nervosissimo, e già si preoccupava per la sua vecchiaia.
Per tutto il periodo dell’infanzia Marzio restò un bambino riflessivo, poco vivace, bersagliato per questo dagli sfottò dei bambini alfa, quelli più svelti e carismatici, che lo indicavano allo scherno generale per via delle sue timidezze.
Appassionato di quelle merendine snack dai nomi aggressivi, Panther, Tiger, Leopard, tenute insieme da una micidiale gang di zuccheri, tendeva di conseguenza ad una lieve pinguedine, poco tollerata dai canoni estetici giovanili.
Prendeva cotte a ripetizione per questa o quella compagna di scuola ed è inutile dire che pur essendo per il loro breve periodo di durata, molto intensi, quei sentimenti rimanevano nascostissimi a tutti, in particolare alle piccole maliarde che li accendevano.
Marzio, crescendo, sentiva di non essere competitivo: non era brutto ma nemmeno bello ed era anche fregato in partenza dalla sua acuminata timidezza, dalla scarsa autostima che lo rendeva diversissimo quando si trovava in situazioni opposte: se stando da solo, chiuso nella sua cameretta, si allenava senza problemi all’eloquenza, declamando ad alta voce gli immortali versi retrò di “Non è Francesca”, imparati da suo padre, devotissimo al sacro duo Mogol-Battisti, in prossimità della bella Jasmine Stupazzoni, divetta della sua classe quando frequentava la seconda media, non riusciva, invece, a pronunciare neanche la parola “rabarbaro” senza che gli si impigliasse la lingua nei denti.
Era comunque un ragazzetto curiosissimo, pieno di interesse per quello che gli accadeva intorno, tanto da venir scambiato, a torto, per un pettegolo.
In realtà si era già acceso in lui l’istinto del cronista, la vocazione che poi gli avrebbe segnato la vita.
Così, quando veniva a conoscenza di qualche fatto, più piccolo o più grande per importanza, lo annotava in ogni caso su un diario, un quaderno con stampata su l’immagine di Cindy Lauper che mangiava un cono gelato.
Inevitabilmente, non avendo veri e propri amici, su quel suo diario finivano per lo più le imprese dei compagni di classe, molte delle quali poco edificanti.
Se allora avessimo avuto la facoltà di sbirciare all’interno di quel libricino, in data 15 ottobre 1992 vi avremmo letto:
15 ottobre 1992
Flavio Gazzarra, con la scusa di raccoglierle, durante l’ora di lettere con la Serradoro, che si era presentata in minigonna, ha gettato in terra 7 penne Bic, 6 matite a punta fine, 5 a punta grossa, 2 temperini e la merendina di Pozzocavallo, composta da una trentina di brioss, legate insieme con uno spago, come fossero candelotti di dinamite.
Mentre indugiava nel raccogliere quest’ultimo pacco, godendosi, come disse poi, “un panorama così stupendissimo da sentirsi male”, gli strilli di Pozzocavallo imbestialito, hanno richiamato l’attenzione della Serradoro che, resasi conto del fine lubrico di quelle ripetute manovre, è arrossita violentemente e ha mandato Gazzarra in Presidenza con una nota. Si attendono le decisioni del preside”.
Accumulandosi nel tempo, queste note andarono fatalmente a costituire una specie di racconto-dossier, un bel mucchio di materiale compromettente per molti dei suoi compagni di classe, maschi o femmine che fossero.
Ce n’era abbastanza, infatti, anche per alcune delle giovani donne:
19 Dicembre 1992
Ho colto delle manovre tra la meravigliosa Francesca Guglia, la divina, e la sua dama servente, la brufolosa Foschi.
Non si sono accorte di me, così la Guglia ha passato alla Foschi un completo intimo, mutande e reggiseno, che intende indossare a Capodanno per sedurre Capozzoni, della Terza C, quell’imbecille alto tre metri che gioca a pallacanestro ma non si è ancora reso conto di avere il pollice opponibile.
Ho visto quel reggiseno: è a punta di missile come quello di Madonna.
Costanza Foschi, cinguettava leccando il culo alla Guglia, ma si vedeva che crepava di invidia, e quando ha visto che sugli slip del completino, proprio sul davanti, c’era stampata la scritta “Non sgualcirmi” ha avuto una crisi di risate che mi sono parse tossiche..”
Marzio portava sempre con sè quel diario, nascondendolo sotto il banco, pronto a prendere appunti se se ne fosse presentato il caso.
Ma dai e dai, quel suo tirar fuori di continuo il quaderno, scribacchiare cose e riporlo poi nella sua sede segreta, finì per dare nell’occhio.
Casacca, un tipo infido che allignava, viscido come una muffa verso gli ultimi banchi, denunciò i movimenti di Taruffi come sospetti al gruppetto dei bulli di classe.
Durante la ricreazione tutti loro, nessuno escluso, andarono a scoprire il diario, lo aprirono e, lette due o tre cose, impallidirono.
Non fu piacevole, infatti, per Parrozzi, tanto per dirne uno, ricordare di essere arrivato ultimo nella gara di scaccolo con lancio.
Per lui leggerlo, così, spiattellato nero su bianco, fu sgradevolissimo, ma non tanto perché si fosse reso conto così della disgustosità di quella competizione, ma solo perché l’aveva persa nettamente, ed il suo amor proprio se ne era sentito leso.
Quasi tutti trovarono descritte loro imprese poco commendevoli, cose che se fossero uscite dallo stretto ambito di chi le aveva fatte, avrebbero causato la riprovazione della società civile, inflessibile coi lanciatori di caccole o coi verniciatori di natiche.
L’irritazione dei notabili della classe nei confronti di Marzio, non si limitò alla distruzione di quella potenziale arma di ricatto, che venne smembrata e bruciata, ma sfociò anche in una punizione severa nei confronti di chi l’aveva ideata.
Al termine delle lezioni una squadraccia composta da Gazzarra, Casacca, Parrozzi, Tubicini e Spezzalossi seguì Taruffi che, svagato come sempre, non si accorse affatto di essere tallonato.
Arrivati nella piazza principale della città, Tubicini diede il segnale d’attacco: i cinque bulli, piombati di colpo su di lui, afferrarono da dietro l’ignaro Taruffi che, preso alla sprovvista, cominciò a divincolarsi e a scalciare come un mulo.
Nessuno dei passanti intervenne a suo favore: quelli più anziani ridevano addirittura, pensando alle loro ragazzate di gioventù.
Un vecchio dall’aria distinta, un insospettabile, insomma, esclamò: “Tie, ma guarda un po’ tu che storia: ‘sta cosa la fecero a me quando in gita scolastica caramellai con lo zucchero il letto di Patanè!”
Marzio, abbandonato in questo modo dall’opinione pubblica, fu così sopraffatto, gettato nell’ampia vasca della fontana comunale e tenuto a forza immerso in quel gelato liquido dicembrino per venti, interminabili minuti.
Tornò a casa più bagnato di Bruce Springsteen a fine concerto, buscandosi nei giorni successivi un raffreddore tanto imponente da cementargli le narici per una settimana: il povero ragazzo dovette sperare di metter su delle branchie per poter respirare in qualche modo.
Uscito da quel dramma, giurò vendetta, non solo contro i cinque, ma anche contro l’acqua, che da quel momento in poi subì la sua totale inimicizia, e che fu da lui snobbata per il resto della sua vita.
Gonfio di rabbia repressa, seguendo il consiglio di un suo zio poco perbene, decise di scaricare quell’energia furiosa andando incontro alla sua prima esperienza carnale: sì, la gioventù era finita in fondo a quella dannata fontana: ora era tempo di diventare un uomo!
Quella di accettare le dimissioni della sua verginità, fu una scelta della quale si pentì subito dopo averla messa in pratica.
Sua partner in quella impresa fu infatti una signorina apparentemente inappropriata alla cerimonia che avrebbe dovuto celebrare, una tizia ingombrante che gli era stata caldamente raccomandata, come sempre, da quello zio scellerato.
Era una rossa vistosissima, di età prossima a quella della pensione.
Americana di Baton Rouge, per via del suo mestiere tutti la chiamavano Batton Rouge.
Poco incline alla schizzinosità, Madame Batton fu assai materna col giovane Marzio, che riuscì a rimanere in intimità con lei per la bellezza di trentacinque secondi e qualche spiccio di centesimi.
Lei, intenerità da quell’incontinenza giovanile, lo congedò con un abbraccio, anche se il ragazzo, ad annusarlo, sembrava non essersi lavato da almeno una settimana…
Lallo Tarallo, giovane sin dalla nascita, è giornalista maltollerato in un quotidiano di provincia.
Vorrebbe occuparsi di inchieste d’assalto, di scandali finanziari, politici o ambientali, ma viene puntualmente frustrato in queste nobili pulsioni dal mellifluo e compromesso Direttore del giornale, Ognissanti Frangiflutti, che non lo licenzia solo perché il cronista ha, o fa credere di avere, uno zio piduista.
Attorno a Tarallo si è creato nel tempo un circolo assai eterogeneo di esseri grosso modo umani, che vanno dal maleodorante collega Taruffi, con la bella sorella Trudy, al miliardario intollerantissimo Omar Tressette; dall’illustre psicologo Prof. Cervellenstein, analista un po’ di tutti, all’immigrato Abdhulafiah, che fa il consulente finanziario in un parcheggio; dall’eclettico falsario Afid alla Signora Cleofe, segretaria, anziana e sexy, del Professore.
Tarallo è stato inoltre lo scopritore di eventi, tra il sensazionale e lo scandaloso, legati ad una poltrona, la Onyric, in grado di trasportare i sogni nella realtà, facendo luce sulla storia, purtroppo non raccontabile, di prelati lussuriosi e di santi che in un paesino di collina, si staccavano dai quadri in cui erano ritratti, finendo col far danni nel nostro mondo. Da quella faccenda gli è rimasta una sincera amicizia col sagrestano del luogo, Donaldo Ducco, custode della poltrona, di cui fa ampio abuso, intrecciando relazioni amorose con celebri protagoniste della storia e dello spettacolo.
Il giornalista, infine,è legato da fortissimo amore a Consuelo, fotografa professionista, una donna la cui prodigiosa bellezza riesce ad influire sulla materia circostante, modificandola.
Lallo Tarallo è un personaggio nato dalla fantasia di Piermario De Dominicis, per certi aspetti rappresenta un suo alter ego con cui si è divertito a raccontarci le più assurde disavventure in un mondo popolato da personaggi immaginari, caricaturali e stravaganti