Mentre Tarallo, recatovicisi per un comune, seppur forte, mal di testa, soggiornava nel reparto gastritici irrecuperabili del maggiore ospedale della città, sequestrato in realtà dal losco Dottor Frangiflutti, cugino e confidente del direttore scalzato del “Fogliaccio Quotidiano”, Consuelo, che ne aveva perso le tracce mentre Lallo faceva la fila al Pronto Soccorso, disperata, mise al corrente gli amici dell’allarmante smaterializzazione del suo fidanzato, e tutti, senza alcuna eccezione, ne rimasero ovviamente sconvolti.
Si incontrarono subito, parlarono e cercarono di capire, chiedendosi angosciosamente dove fosse finito Tarallo, e in quali condizioni si trovasse, posto che gli fosse stata risparmiata la vita.
Si doveva assolutamente far qualcosa e quel qualcosa fu affidato alla persona più adatta a carpire informazioni.
Afid il falsario, forte di solide relazioni con gente in grado di truffare la propria zia prediletta, aveva sguinzagliato certe sue conoscenze, le meno specchiate, gente spietata e insensibile, in grado di reggere un intero album di Fedez senza batter ciglio: d’altronde per riuscire a sapere qualcosa sul dove fosse recluso Lallo, quelli erano i tipi giusti.
Il risultato fu che dopo alcuni giorni dalla sparizione dell’amico giornalista, quell’uomo dai mille volti e dai cento talenti, venne a conoscenza dei traffici di un oscuro portantino, una persona apparentemente di basso profilo, ma ben piantata all’interno del mondo ospedaliero.
In tal modo il prezioso ometto acquisì un ghiotto menù per pingui ricatti nei confronti di quel tizio.
Che sputasse dove tenevano recluso Lallo, pensavano incazzati quegli amici, o sarebbero stati cavoli suoi: sul piatto del vecchio giradischi che sonnecchiava in casa Cervellenstein, stazionava minacciosissimo un Lp di Rocco Hunt, un ordigno tremendo che con tutte le cautele del caso, si era procurato Abdhulafiah.
Una fonte certa aveva finito per fare alla Banda Tarallo la soffiata decisiva: un tale Venanzione Sfilatini, dipendente ospedaliero, un manovale del settore sanitario, aveva messo su un traffico di dentiere nel reparto Geriatria.
Era, come facilmente si evinceva, un affare sporchissimo, che agli occhi di Afid metteva il farabutto in una condizione svantaggiata: meritava di essere “torchiato” a dovere e costretto a chiacchierare come un rapper.
Perfino l’etica sbarazzina di Afid fu scossa da quella verità: quali fatti loschi accadevano nella Sanità cittadina, del tutto ignorati dalla cittadinanza?
In sostanza, questo tale, probabilmente in combutta con altri, aveva messo in pratica dei rapimenti pseudoterapeutici, volti al riprovevole affare che veniva poi messo in atto: numerosi tra i ricoverati in ospedale, quelli anziani e soli per la precisione, erano stati in realtà strappati alle amate case, contro la loro volontà, da una troppo zelante filiale locale dell’Assistenza Sociale.
Accadeva che da un furgoncino con la croce medica stampata su, ma che per i metodi brutali di prelevamento, ricordava il camioncino di un accalappiacani, scendevano due tizi nerboruti, con l’etichetta di “assistente sociale”, ma con delle facce tanto trucibalde da far appassire le petunie in fiore o, come diceva Marx, Groucho però, dei tipi con una faccia da fermare gli orologi.
Rivestiti da camici piuttosto sudici, alle primissime ore dell’alba, sfondavano senza alcun ritegno le porte delle abitazioni dei vecchi, dei ripari fragili quanto le loro giunture, e acchiappavano i poveretti.
Deboli e mezzi intontiti, quei disgraziati non erano in grado di opporre alcuna resistenza: venivano sbattuti dentro il furgoncino in un sinistro concerto d’ossa, così come stavano, rubati al loro sonno e, generalmente, senza aver potuto portarsi appresso i preziosissimi denti di riserva.
Sarebbero stati in seguito ricoverati a forza e fatti oggetto di un odioso ricatto: accontentarsi della robaccia liquida che passava il convento, cioè minestrine d’acqua marina riscaldata con poche, isolate stelline di pasta a nuotarvi dentro, più spaventate del commercialista di un mafioso, oppure pagare la gang, recuperare una dentiera e mettersi così in grado di affrontare con successo il malinconico polletto in lattice, il vero trionfatore della mensa dell’ospedale.
Acquisita l’informazione, si trattava ora di passare all’azione.
Gli amici di Tarallo usarono la smisurata potenza estetica di Consuelo per prelevare quell’orribile Venanzione Sfilatini: la ragazza, appostata di sera fuori della sua abitazione, non appena il nauseante soggetto fu uscito di casa alla volta di un’imperdibile conferenza sulla paradontite, lo bloccò e gli sorrise.
Semplicemente gli rivolse un sorriso .
Fu sufficiente, eccome!
Venanzione Sfilatini, lo stesso uomo, grosso e bestiale, che ammucchiava vecchietti, uno sull’altro, in un furgone, come si fa coi panni sporchi nel cestone di casa, abbacinato da quel sorriso di ultraterrena bellezza, sentì cori di voci bianche e le gambe cedergli di botto.
Perse i sensi come un musicofilo ben nutrito al minuto 2 di una canzone dei Negramaro.
Impacchettato a dovere da Abdhulafiah e Afid che seguivano Consuelo con discrezione, il farabutto venne dunque portato nello studio del Professor Cervellenstein per essere interrogato da quest’ultimo, in confidenza con la psiche umana come il sedicente Jovanotti lo è con le “stecche”, e da un Omar Tressette più rabbuiato ed intollerante del solito.
Quando rinvenne, il malvivente in camice non si trovò dinanzi la indescrivibile bellezza di Consuelo, ma lo sguardo ostilissimo di una vecchia che, da com’era combinata, pareva avere ancora qualche voglia da togliersi.
Sfilatini ebbe un brivido, pensò di essersi infilato in un incubo.
Intanto quella stranissima vecchia fumava nervosa, una ciminiera praticamente, ed emetteva dense soffiate puzzolenti, che dirigeva contro il suo naso.
La Signora Cleofe, come si è capito, faceva anch’essa parte dell’Alta Corte che avrebbe condotto l’interrogatorio, e non faceva nulla per celare la sua cattiva disposizione al mascalzone, che si era appena riavuto.
Marzio Taruffi, col suo aroma dallo stesso potenziale devastante di una fuga di uranio, e perciò tenuto come carta di riserva, seguiva gli eventi con sua sorella Trudy in una stanza attigua, pronto ad intervenire.
Dopo la Signora Cleofe entrarono nella sala torture Abdhulafiah, il consulente finanziario ambulante, Omar Tressette che considerò con disgusto il camice impataccato del prigioniero, ed infine il Professor Cervellenstein, che per una volta aveva perso la sua espressione bonaria….
Mentre questi accadimenti si mettevano in moto, lo stesso giorno, ma ad un’ora molto più tarda e ad una certa distanza da essi, un discreto ma ben udibile picchiettìo, fece risuonar sordo la porta dell’abitazione del sacrestano della Chiesa Cattedrale di Strappoli di Sotto.
In quel momento Donaldo Ducco stava guardando un vecchio film di Louis de Funès insieme a Matilde di Canossa, fatta evadere dalla magica poltrona Onyric, della quale il sacrestano, amico di Lallo, aveva la custodia.
I due stavano allacciati come anguille in amore e si divertivano come matti, tanto che gli sghignazzi della Grancontessa tenevano allegro l’intero isolato del paese.
“Chi l’avrebbe mai detto Maty – ripeteva Ducco estasiato, – che tu, tutta Papa e zucca dura, ti saresti rivelata invece una dolcissima compagna di gazzarre?”
“Avrei voluto vedere se non lo saresti diventato anche tu, un caciarone e gozzovigliatore – si affrettò a rispondere la Canossa, mentre ingoiava una patatina fritta – se ti avessero costretto a sposare un pendant femminile di Goffredo il Gobbo, mio marito, brutto di aspetto, deforme e pallosissimo e che, oltretutto, aveva pure il gozzo! Una roba…”
“Scusa- rispose Ducco intenerito – non avrei voluto causarti brutti ricordi, avrei dovuto capirlo che esisteva un motivo serio che ha favorito la tua inossidabile ed esplosiva allegrezza.
Ma dimmi, lo sopporti ancora? Sei tuttora sposata? Mi pare che all’epoca tua non ci fosse ancora il divorzio, così…”
“Vero, niente divorzio in tribunale, per rispetto al Papa, ma esistevano comunque i cosiddetti “divorzi creativi”, nel corso dei quali non si sprecavano carte bollate: venivano praticati spessissimo e non si lasciavano dietro sfibranti polemiche o noiose tensioni postmatrimoniali.
Io, ad esempio, ho fruito di un’altra eventualità favorevole: sono vedova, a tutti gli effetti, e sai come ho perso (si fa per dire..) mio marito? Le malelingua dissero che io ci avevo messo dentro una zampa o due, ma si trattò solo di un piccolo incidente: in relazione ad un ispirato consiglio del suo intestino, Goffredo si è acquattato in una frasca per dargli un immediato seguito, ma una freccia, scoccata chissà da dove e da chi, gli si è piantata dritta dritta nel didietro, tra le sue due opulente natiche!”.
“Certo che – osservò Ducco pensieroso – non si può davvero dire che il tuo ex nella vita abbia avuto culo! Già era gobbo…
“Beh… si, povero cocco palloso…” e Matilde, distrattamente compassionevole, rinforzò così il concetto, riavvinghiandosi poi, felice, al prestante sagrestano.
“ Ma chi è che bussa a quest’ora?– scattò Ducco ad un picchiettare improvviso: Maty, imboscati subito, che è meglio che non ti vedano”.
La Grancontessa, un po’ immusonita, svaporò immediatamente, e Donaldo andò ad aprire solo una piccola porzione di porta.
Erano le tre del mattino e la luce fioca ed irreale dei lampioni in strada rischiarava appena un volto roseo e dai tratti infantili, smentiti però da una barbetta scura in fin di mento.
“Ma che diavolo le prende? Chi è lei per presentarsi ad un’ora così poco cristiana?”
Il tono di Ducco tradiva per intero una grossa irritazione: sperava in cuor suo in un altro finale per quella nottata, ma Matilde ormai era rientrata nella poltrona: avrebbe dovuto aspettare, noleggiare un altro film comico e ritentarci…
“Apra – replicò l’intabarrato personaggio –sono Monsignor Angiolo Missitalia e per conto della Curia Vaticana vengo ad ispezionare la poltrona Onyric, affidata alla sua custodia. Mi consegni dunque le chiavi della stanza in cui è poggiata e torni pure a dormire”
“Sìì, dormire…” pensava Ducco, era una parola dormire ora: mai più ci sarebbe riuscito per quella notte!
“Ma poi che idea, quella de ‘sti megapretoni, di fare ispezioni notturne senza avvisare: è roba da pazzi”, pensò, considerando con acuto rimpianto le forme snelle e attraenti di Matilde.
Spalancò comunque la porta, prese il gran mazzo di chiavi della Chiesa di Sant’Abbondanziana Martire e le consegnò al prelato, spiegando la funzione di ciascuna di esse: quella della stanza della Onyric era la più corta e tozza.
Vide il monsignore prendere il mazzo, voltargli le spalle e avviarsi verso la mole imponente della chiesa in cui l’anno prima si erano verificate le ripetute fughe dei santi dai quadri che ne ospitavano le effigi.
Non poteva sapere, il sagrestano, che la storia del mandato della Curia era tutta un’invenzione e che il prelato stava agendo per conto proprio.
Di cuore, Donaldo augurò a Mons. Missitalia di imbattersi in quello svitato di Proto, il santo tuttora più vivace del lotto dei dipinti, il più renitente ad accontentarsi di essere solo adorato, e di beccarsi così un colpo per la paura!
Piermario De Dominicis, appassionato lettore, scoprendosi masochista in tenera età, fece di conseguenza la scelta di praticare uno sport che in Italia è considerato estremo, (altro che Messner!): fare il libraio.
Per oltre trent’anni, lasciato in pace, per compassione, perfino dalle forze dell’ordine, ha spacciato libri apertamente, senza timore di un arresto che pareva sempre imminente.
Ha contemporaneamente coltivato la comune passione per lo scrivere, da noi praticatissima e, curiosamente, mai associata a quella del leggere.
Collezionista incallito di passioni, si è dato a coltivare attivamente anche quella per la musica.
Membro fondatore dei Folkroad, dal 1990, con questa band porta avanti, ovunque si possa, il mestiere di chitarrista e cantante, nel corso di una lunga storia che ha riservato anche inaspettate soddisfazioni, come quella di collaborare con Martin Scorsese.
Sempre più avulso dalla realtà contemporanea, ha poi fondato, con altri sognatori incalliti, la rivista culturale Latina Città Aperta, convinto, con E.A. Poe che:
“Chi sogna di giorno vede cose che non vede chi sogna di notte”.