Con tali modi bruschi Don Oronzo spedì Ducco e la riluttante Cleo ad eliminare l’affresco dipinto da quest’ultima, riproducente il dio egizio Horus in tutta la sua gloria, così i due si avviarono verso la parete di fondo della chiesa per dare inizio al lavoro. Si prolungava frattanto l’attesa dell’organista locale, Olimpio Steccalmassimo, convocato per invogliare San Carminio a riprendere in mano il suo strumento, seppur molto più raffinato e complesso di quelli del suo tempo, e farlo scendere infine dal quadro di Santa Berengarda nel quale il martire, come si è detto, si era infiltrato iniziando subito a darle lezioni di canto. Il parroco, sfogatosi a dovere, si riunì al piccolo gruppo che sostava nella cappellina dinanzi al dipinto ormai affollato, e tentò comunque la via del dialogo, infittendo le sue preghiere e le implorazioni al santo perchè uscisse dalla tela. L’eco prolungato di quell’esortazioni faceva il giro delle navate vuote, rimbombando attorno alla cupola della chiesa poi, scendendo in picchiata sui banchi, avvolgeva i presenti, dandogli l’impressione di trovarsi nel vortice di una dimensione ultraterrena: “E tuuu Berengardaaa, Venerabileee Santaa, aiutaaa noi in questa dura provaa, e intercedi presso il tuo inaspettato ospitee perché rientri in paceee nella sua bella sedee”.
Don Oronzo, implorandola, pensava in tal modo di procurarsi la più autorevole delle complicità. Ecco perchè rimase, come tutti, impietrito, quando dal quadro venne invece fuori un’esile, ma educatissima e melodiosa vocetta femminile, che prese a cantare con piglio mistico:
“Il mio destinoo è di stare accanto a te, con te vicinoo più paura non avròòò e un po’ più donna io saròò montagne verdi nei tuoi occhi rivedròòò”….
Nel silenzio della chiesa quel canto così timido prese uno spazio enorme ed ebbe un immenso impatto emotivo, tanto che perfino Marzio Taruffi, acceso laico in ogni sua fibra, ne rimase profondamente colpito, ed emise un sottile fischio di stupore: “Accidenti come canta! Divinamente, direi.. Per essere un’esordiente poi…”,e lasciò la frase incompleta, ma densa di significato.
Tarallo invece, da consumato giornalista d’inchiesta, andò al sodo e concluse: “L’ha convinta, cavolo, e ora la situazione si complica dannatamente: qui, da ora e per l’eternità, si rischiano continui duetti a base di Montagne verdi, non lo crede Don Oronzo?” Il prete neanche lo sentì: completamente sconvolto e rosso paonazzo in volto, aveva recuperato dalla tasca della tonaca un portapillole d’argento e stava ingurgitando un’intera manata di compresse di “Tormentin”. “Dovrò chiudere la chiesa con un pretesto– esclamò con le mani nei capelli – non si può dir messa in questa anarchia martirica, come reagirebbe la gente? Al di la della probabile confusione di moltissimi fedeli, ne conosco più d’uno che per far bella figura inviterebbe i santi a cena a casa sua! Debbo ricontattare con urgenza Sua Eccellenza il Vescovo: stavolta dovrà esercitare la sua autorità, venire di persona e dare necessariamente una mano… Ma quando arriva questo dann… benedetto organista?”
Come fosse stato evocata dal nulla, comparve allora la florida figura di Olimpio Steccalmassimo, che prese subito ad interloquire concitatamente, sentendosi forse in colpa per il forte ritardo: “Deve scusarmi Don Oronzo se le ho negato la mia arte per un certo lasso di tempo, ma, deve credermi, ipotizzo che mio figlio e mia nuora nutrano mio nipote Settimio, un bambino di soli otto mesi, con bistecche di maialone, di armadillo o con altre schifezze letali. Solo così mi spiego le sue immani eruzioni intestinali, che quando me lo lasciano in custodia me ne danno da spalare, sa? E non le dico che odoracci tremendi..”
“Ma le pare il caso, Olimpio, di scendere così tanto nei dettagli – replicò il parroco, nauseato – abbandoniamo la bassezza di questi discorsi viscerali e torniamo invece a noi che abbiamo bisogno di lei per… per… per… ah sì, per valutare l’acustica della nostra chiesa nell’imminenza della Festa Patronale di Sant’Abbondanziana Martire”. “Ma, mi scusi padre, la festa si tiene ogni 13 di ottobre e non siamo nemmeno a maggio” rispose dubbioso l’organista, che, raggiunto dall’eco del canto di Berengarda, aggiunse poi:“Ma chi è che canta?”. E Don Oronzo, che non poteva far trapelare nulla del caos che aveva nuovamente invaso le zone sante del paese, si affidò allora alla più insipida e sciatta delle risposte: “Le cose si devono fare per tempo proprio per non avere sosprese all’ultimo minuto, e in sagrestia stanno provando uno spettacolino parrocchiale, ecco perché sente cantare: non ci faccia caso”. L’organista parve accettare quelle due ovvietà e, tutto contento, salì la scaletta che portava alla sua postazione, sedendosi dinanzi alla tastiera dell’organo settecentesco. “Cosa devo suonare?”, strillò verso il basso per farsi udire. “Boh, non lo so, faccia un po’ quello che si sente di fare, tanto è per far uscire il sant… per fare uscire il suono dallo strumento e controllarne la qualità”, rispose Don Oronzo che era stato sul punto di fare un’irreparabile gaffe. “Ah beh, allora…” disse Olimpio, confortato dalla possibilità di esprimere liberamente la sua arte.
Così, poco dopo, aggiungendosi ad una situazione già surreale, le note allegrotte del “Ballo del Qua Qua” si diffusero come un maremoto all’interno della chiesa, di un barocco sorvegliato e severo, precipitandolo nel mondo del grottesco. Tarallo, Consuelo e Taruffi, sbalorditi, calarono all’unisono le mandibole, come se dalla bocca, perfettamente sincroni, fossero scesi tre sipari in direzione del collo. “Ma.. ma.. non è possibile suonare qui questa cosa, accidenti! E’ fuori contesto e dubito che possa piacerealsanto – mormorò sconcertata la bellissima compagna di Lallo –va bene che ha già assaggiato Marcella Bella, ma far sentire Al Bano e Romina ad un martire del Trecento dopo Cristo è come servire al pranzo sociale di un club di vegani un vagone di cinghiali farciti.E guardate Don Oronzo!”.
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