Ferragosto

Non c’era nulla di sfarzoso nella terrazza dello Stabilimento “Il Meduso”, nulla di affettato o di eccessivo, e, va detto a suo vanto, non aveva nemmeno quel classico tono falsamente umile, stile “tana del pescatore rococò”, che affliggeva molti locali della costa.
Gli arredi erano semplici, con appena un indizio di eleganza ed i tavolini erano apparecchiati in modo essenziale ma apprezzabile.
Quello di Lallo Tarallo occupava il centro della terrazza, il posto migliore per avere davanti il panorama ferragostano della spiaggia, meno brulicante di quanto si aspettasse il giornalista.

 

 

Erano circa le 11,00 di una mattinata torrida come tutte quelle che l’avevano preceduta  e il nostro eroe si era perso nella contemplazione di un mondo, quello della balnearità, che essendosene tenuto lontanissimo per almeno un paio di decenni, era divenuto per lui inedito, quasi esotico.
Si rese conto che da quando era un ragazzino non aveva più fatto le bolle gorgoglianti, soffiando nella cannuccia della gazzosa come si era sorpreso a fare un istante prima, sovrappensiero.
Si chiedeva come aveva fatto ad accettare quella marchetta, come aveva potuto pensare di riuscire a scrivere un “articolo di colore” sul Ferragosto e per di più per conto del giornalino, più un bollettino che altro, dell’Ordine dei Benzinai.

 

 

Gli venne in mente, e questo la diceva lunga sull’effetto della calura, che forse anche un articolo di “colore” sarebbe stato in grado di scatenare la reazione razzista di certe belle intelligenze nostrane:

“Lo doveva fare proprio di colore quel pezzo? Proprio non si poteva fare altro, eh? Lei evidentemente aveva già escluso di scrivere un articolo bianco e ariano su una festa della nostra Roma imperiale: lei vuole la promiscuità razziale nel giornalismo! Lei è un marcio boldrinista…”.

Rise e poggiò il bicchiere ormai vuoto. Pagò il conto e si risolse a fare quella camminata lungo la spiaggia che gli avrebbe dovuto fornire spunti utilizzabili per chiudere la faccenda con un pezzo di quelli che sembrano di seconda mano, intinti in un’orrida mediocrità.

Fatti appena pochi passi, la prima cosa che annotò era che, nonostante lo schiaffo deciso del sole, a sguazzare nell’acqua, a fare il bagno insomma, erano soprattutto i bambini.
La maggioranza degli altri bagnanti era impegnata, più o meno, nelle stesse cose che avrebbe potuto fare altrove, in un qualunque altrove.

 

 

Le signore, giovani o mature che fossero, messe le trippe a rosolare su strisce di sabbia arroventate, esponevano dorsi oleosi di creme e sudori al talento abbronzante dei raggi ultravioletti, mentre dita sottili con unghie policrome ticchettavano chissà quali intimi, trascurabili segreti ad altri esseri ticchettanti.
Parecchi tra i signori di una certa età stavano seduti sulle sdraio con aria sgomenta ed assente, altri, riparati dagli occhiali da sole, trivellavano con sguardo occulto le bellezze che gli arrivavano a tiro.

Lallo, intanto, pativa fisicamente l’avvicendarsi delle insulse musichette semicaraibiche che lo accompagnavano nella sua coraggiosa passeggiata.

Gli adolescenti che vedeva allignare qua e la nelle sabbie stavano chini in atteggiamento cupo, quasi autistico, ripiegati dolorosamente sugli schermi dei loro cellulari che come specchi rimandavano la loro stessa immagine, dipinta nella faccia e nelle parole tronche dei coetanei coi quali erano collegati.
Le ragazze più giovani, che si dividevano asciugamani vasti quanto un campo di calcio, erano forse le uniche che riuscissero a conversare tra loro, non rinunciando comunque ad uno svagato ticchettare.

Tarallo camminava sul bagnasciuga, sentendo su di sé gli sguardi di riprovazione del popolo balneante: i suoi calzoni lunghi arrotolati sulle caviglie e la polo con i Beatles che attraversano le strisce pedonali di Abbey Road, lo indicavano senza errori come un corpo estraneo a quei mondi di zumba acquatica, di braghe violente, di bikini ogm e di nudità arredate secondo la moda del giorno.
Scavalcò con un saltello agile, di cui fu il primo a meravigliarsi, i cadaveri di due signore stese secche sul bagnasciuga senza che nessuno tra quelle masse festanti avesse sentito il bisogno di chiamare il medico legale o di avvertirne i parenti.
All’altezza dello Stabilimento balneare del Cral degli Imbalsamatori si fermò incuriosito per una scena singolare: una ventina di bipedi dall’aria decisa ma non sveglissima aveva circondato minacciosamente un ometto scuro che teneva in mano un frigo portatile colmo di vongole.

Quei tizi formavano una eterogenea compagnia, accomunata solo da una certa inelegante corposità e da pettorine verdi con un coccodrillo palestrato stampato sopra, che tutti loro indossavano sopra il muscolame.
Attorniandolo e sovrastandolo, praticamente stavano persuadendo con la forza il piccoletto di non essere persona gradita su quella spiaggia, di esserlo anche meno nella loro amatissima città, niente affatto nella cristianissima Italia e men che meno nel Cosmo, da essa plasmato a sua immagine e somiglianza.
Utilizzando una dialettica un po’ scarna ma di indubbia incisività, accompagnavano il loro discorsetto con delle spintarelle portate ora dall’uno, ora dall’altro:

“Te ne devi da annaa, hai capito?

Tornetene ar paese tuo e nun stà a rompe li coijoni, che qua li africani, i mussurmani e l’artra merda der genere nun la volemo: valle a vende ar Congo ‘ste cazzo de vongole! Iregolare, sei iregolare, vattene tu o te buttamo noi fori d’Italia! Oo capisci o no?”.

 

 

Il piccoletto, per nulla intimorito, sembrò rizzarsi, prendere statura sotto la spinta della rabbia: stava crescendo a vista d’occhio insomma. Mulinò le braccia, come a scacciare uno sciame di tafani, per allontanare i coccodrillisti rampanti che gli stavano più addosso e si qualificò urlando, paonazzo ma perfettamente lucido. 

Era Odoacre Patané da Cosenza, giudice del Tar del Lazio, uomo noto per l’amore incondizionato che nutriva per sole e mare, ma altrettanto celebre per la sua dirompente collericità.
Aveva acquistato poco prima da un ambulante senegalese, regolare e fornito dei necessari permessi, quel secchiello di vongole che i paramilitari d’acqua salata, in foia da caccia grossa allo straniero, avevano scambiato per merce sua. Patané, di poco più forbito dei suoi assalitori, li investiva di epiteti al peperoncino ed intanto era già stato in grado, manovrando il cellulare alla velocità della Colt di Tex Willer, di avvisare una volante.

“Voi non sapete a chi avete pestato i piedi, pezzi di cretini!

– così, si può dire col cuore in mano, si confidava con loro il giudice, al colmo dell’imbizzarrimento – Io le vongole le mangio quando cazzaccio mi pare e gli abusivi non spetta a voi individuarli o espellerli, c’è lo Stato a farlo, testine di vitello!
Fatemi semmai vedere il contratto di affitto della vostra sede, piuttosto, che lo so benissimo che siete proprio voi ad essere più irregolari e clandestini di tutti quelli che sono arrivati qua in vent’anni!
E cominciate a darmi i vostri nomi, forza, che è arrivata la pattuglia e con tutto quello che c’è da fare non può perdere troppo tempo appresso a dei coglioni”.

 

 

Tarallo non perdeva una parola di quel dialogo e senza averne l’aria s’era accostato al gruppo dei legionari da spiaggia.
Al contrario di Odoacre Patané, gli pseudomiliti avevano perso parecchio volume, sgonfiandosi vistosamente.
Frattanto una coppia di poliziotti, parcheggiata l’auto di servizio sulla strada soprastante, cominciava a scendere faticosamente la china sabbiosa, sudando sotto quel sole cecchino, mandando silenziosi vaffanculi ai pretesi giustizieri e ingoiando sabbia a palate con le scarpe chiuse.
I cacciatori di ambulanti peroravano intanto la loro causa. 

“Dottò nun ce rovini: l’avemo scambiato per uno de ‘sti negri… Nun se offenda, ma puro lei esaggera un po’ co ‘sto sole… ce se po’ sbajà facile. Ma noi semo volontari ar servizzio der popolo italiano, nun ce faccia passà i guai!”.

“No, voi siete dei deficienti ottusi che avrebbero moltissimo da imparare da qualcuno de “sti negri”!

Meno stronzate, meno palestra e più libri:

forse con cento anni di studio a testa un domani potreste anche piazzarvi davanti ad uno specchio senza creparlo!

E adesso vi lascio agli agenti, ho da fare: stasera ho ospiti a casa e gli faccio gli spaghetti con le vongole.
Ah, tanto perché lo sappiate, uno di loro è un commercialista di colore che fu costretto a scappare dal suo paese in guerra.
Quello è uno che nella zucca ha tanto cervello da essere sufficiente per un migliaio di voi: vi è chiaro?”.
L’ometto scuro, sprizzando ancora fulmini, detto questo si allontanò velocemente.

Tarallo, sbalordito, si trovò per l’ennesima volta a pensare a che tipo straordinario fosse il suo amico Abdhulafiah…

Decise di rientrare a casa.
Troppo sole, troppi schermi, troppi caraibi de noantri.
E poi ormai aveva tirato su qualche idea da piazzare in quel pezzo “di colore” che aveva accettato di scrivere per il Giornalino dell’Ordine dei Benzinai.

  

  

     

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