È tempo di respiro

Nel breve tragitto che percorro uscendo di casa (se fosse importante misurare la vita in chilometri sarei decisamente ancora al nastro di partenza) mi godo ogni raggio di sole.
Sarà che camminare di Primavera, in una stagione incurante di quanto sconquasso hanno avuto le nostre vite, non può che rivelare dettagli impensati.
Perdersi nella manciata di margherite di un angolo di prato o imbattersi nel volo sparuto di una farfalla, scoprire con sorpresa fioriture selvatiche sul ciglio del marciapiedi o spiare il volo di merli intenti a farsi un nido, è una diversa, inconsueta consuetudine.

Non mi mancano i bar, dove la gente straparla di tutto, né credo che le piazze virtuali siano meno affollate de “la qualunque”, neanche provo la mancanza di una pseudo normalità che in fondo ha sempre avuto solo un sapore di routine senza attenzione. 
Non è questo… semmai ci possa mancare l’abitudine al cappuccino caldo con la schiuma, tra le parole sommesse, senza clamore, questa è ben altra cosa, così come altro è il silenzio complice di una passeggiata, mano nella mano, o il beneaugurante abbraccio del calore amico.

La sponda del fiume, quella opposta, dove è rimasto il tempo del “normale”, rimanda in sequenza i fotogrammi di ricordi; in fondo la Vita non è che una manciata di istanti degni di nota, altri sono semplici “note a margine”, sono ciò che serve a tenere insieme le altre, il tessuto connettivo che fa da impalcatura, che può sostenere la meraviglia della meraviglia, deviare nella scoperta, svelare ciò che salta allo sguardo, si distingue e commuove:

la Bellezza non ha bisogno di una messa in scena.

Era appena ieri, non è passato un secolo, da quando il tempo scorreva con la frenesia, nel mantra perenne di ripetitivi: “non ho tempo”, che non ci hanno fatto assaporare né contemplare altro che uno specchio, dove ci eravamo tutti messi in posa, alla stregua di attori, prima di calcare le nostre scene. 

Il mondo, niente di più che la nostra piccola realtà, esigeva l’urgenza, l’emulazione di modelli, possibilmente vincenti, la popolarità.
Mancava proprio il tessuto connettivo, l’impalcatura solida capace di reggere e che avevamo confusa con quella di un enorme mercato, dove le solitudini, sotto l’imperativo di vendere e comprare, attecchivano non meno di oggi, soltanto meglio camuffate o, forse, per meglio dire, eluse.
Così, non abbiamo vissuto di illusioni, ma di elusioni; ci ha presi e tenuti sulla corda, lo stordimento prodotto dalla velocità, dal tenersi occupati col mantra del “non ho tempo”, mentre riempivamo un secchio bucato per svuotare il mare o usavamo un setaccio, da agitare in aria, per contenere il vento.


Mi pare oggi che, nel breve tragitto dei quattro passi intorno al mio isolato, si scopra una parte di mondo estraneo sino a ieri, mi pare di accompagnarmi coi pensieri miei, con le assonanze e le metafore, con le allitterazioni di una vita, e di comporre una geografia del mio vivere inconsueto, senza battere il tempo o le distanze.
Uniche assenze sono questi abbracci, che a guardare bene si restringono a pochi momenti veri e soprattutto posti fuori dai rituali di circostanza; sono gli abbracci che ho sentito in fondo al cuore e che continuo a sentire, una stretta che non mi lascia, malgrado la pestilenza che ci ha abbattuti e ha raso al suolo le nostre minime certezze, malgrado la superficialità di urgenze velleitarie, dagli ardori consumistici, che lasciano strani rimpianti, per chi li prova, mentre c’è chi non ha più nulla e non sa quale sarà il domani.

Viviamo un’epoca malsana nella quale ha prevalso l’interesse di bottega; ancora i politicanti, come meccanismi inceppati, ruotano attorno al perno del potere, sanno solo girare per emulare i sé stessi di ieri, sempre la stessa grinta d’arroganza, quasi fosse la sola prova della loro esistenza in vita. L’unica che sanno.
Non è tempo di recriminazioni, di propagandistiche stagioni, che inseguono stagioni elettorali fatte di vuoti d’aria dai polmoni: è tempo invece di respiro; dietro le mascherine che celano il volto non può mancarci anche quest’aria; è tempo di curarsi di ciascuno, prima che del superfluo stare a tempo, scandendo riti inutili e banali circostanze.

Nessuna velleità, solo la necessaria aspirazione.

Fino a poco tempo fa mi sono nascosta dietro l’eteronimo di Nota Stonata, una introversa creatura nata in una piccola isola non segnata sulle carte geografiche che per una certa parte mi somiglia.
Sin da bambina si era dedicata alla collezione di messaggi in bottiglia che rinveniva sulla spiaggia dopo le mareggiate, molti dei quali contenevano proprio lettere d’amore disperate, confessioni appassionate o evocazioni visionarie.
Oggi torno a riprendere la parte di me che mancava, non per negazione o per bisogno di celarla, un po’ era per gioco un po’ perché a volte viene più facile non essere completamente sé o scegliere di sé quella parte che si vuole, alla bisogna.
Ci sono amici che hanno compreso questa scelta, chiamandola col nome proprio, una scelta identitaria, e io in fin dei conti ho deciso: mi tengo la scomodità di me e la nota stonata che sono, comunque, non si scappa, tentando di intonarmi almeno attraverso le parole che a volte mi vengono congeniali, e altre invece stanno pure strette, si indossano a fatica.
Nasco poeta, o forse no, non l’ho mai capito davvero, proseguo inventrice di mondi, ora invento sogni, come ebbe a dire qualcuno di più grande, ma a volte dentro ci sono verità; innegabilmente potranno corrispondervi o non corrispondervi affatto, ma si scrive per scrivere… e io scrivo, bene, male…
… forse.
Francesca Suale

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