Il SOLITO GIRO

Riporto questa incredibile storia così come l’ho ricevuta.

Esterno notte. Piove con gocce sferzanti, oblique dal vento di grecale. Brutta storia, quando si alza il grecale.

Un cane rinsecchito abbaia a un nemico immaginario. È zuppo, ma non fa nulla per tentare di asciugarsi. Semplicemente è rassegnato all’acqua, come chi le ha già viste tutte.

Mi avvio a chiudere un’altra pessima giornata al solito bar. Ormai un’abitudine, da quando a casa non c’è più nessuno che mi aspetti.

Poso l’ombrello tra tanti altri, sperando di ritrovarlo all’uscita. Il mio solito tavolo isolato è occupato da una coppietta che si limona con gli occhi. Altro brutto segno, avrei dovuto fare attenzione.

Trovo posto a centro sala, proprio dove non vorrei mai stare. Con un cenno ordino al barista il solito giro. Quello mi guarda e, continuando ad asciugare un bicchiere, mi fa intendere che ha capito.

Noto la nuova cameriera alla sua prima sera di servizio che si destreggia tra i tavoli, come se non avesse mai fatto altro nella vita. Bella oltre ogni dire, di una bellezza inconsapevole. Chissà dove l’ha pescata, il Sudicio.

Jack Vettriano “Singing Butler” (1992)

Entra un gruppetto chiassoso. Guappi di periferia, non è la prima volta che li vedo. Attaccabrighe che si divertono a umiliare gli altri, forti della forza del branco. Meglio stare alla larga, meglio non alzare lo sguardo.

Il più grosso, quello che si atteggia a capobanda, porta le dita alla bocca e lancia un prolungato fischio acuto all’indirizzo della nuova cameriera. Poi le urla l’ordinazione, accompagnata da un commento osceno.

Un guappo di periferia

Lei si volta lentamente, lo guarda, increspa un sopracciglio e continua a servire al tavolo, come se non avesse sentito. Intorno si alza un silenzio gelido, una coltre di bocche aperte e sorsi sospesi.

Il bufalo sta facendo una pessima figura. Non può far altro che imbufalirsi e partire alla carica, è nella sua natura.

Non so cosa mi accade, l’istinto di sopravvivenza si prende una vacanza e “ehi pecoraro”, gli faccio, “hai qualche problema?”.

Quello si volta come se gli avessi sventolato uno straccio rosso sotto al naso e mi punta deciso. I suoi compari si alzano di scatto dal tavolo ma lui, con un gesto, li ferma. È chiaro che basta e avanza, con me.

Focalizzo: un armadio quattro stagioni, con una buffa palla in cima, si sta dirigendo verso di me con passi decisi e fare minaccioso. Improvvisamente l’istinto sbadato si ripresenta. Vorrei tanto riavvolgere il nastro, ma ancora non si sa come fare.

Provo a buttarla sulla dialettica, l’unica arma che mi illudo di avere: “Ascolta amico, le ragazze meritano rispetto, e questo fiore più di ogni altra. Non puoi insultarla e aspettarti che ti butti le braccia al collo. Questo atteggiamento da bullo ti nuoce, ascolta un fesso. Vedo nei tuoi occhi una grande sensibilità. Tu non sei così, ti atteggi solo per impressionare quei decerebrati dei tuoi amici”.

Parlo cercando di prendere tempo, di allontanare da me l’ineluttabile.

“Ognuno di noi può scegliere che parte recitare in commedia, non c’è nulla di prestabilito. Non facciamoci impressionare da facile sociologismo d’accatto: le condizioni familiari e socioeconomiche sono solo alibi per i deboli di spirito. Tu puoi molto di più, potresti essere un esempio per tutto il quartiere, per la città, per il nostro amato Paese e per il mondo intero!”

Forse ho esagerato con l’enfasi, ma lui sembra acquietarsi e mi guarda con curiosità, come fa il bambino dispettoso con lo scarafaggio prima di schiacciarlo.

Rincuorato, proseguo: “e invece guardati, fare il capobanda di quattro dementi che non chiedono alla vita altro che l’illusione del rispetto, quando invece si tratta di paura mista a ribrezzo. Così butti il tuo tempo e le tue potenzialità. Impegnati in qualche progetto positivo, invece di andare facendo lo stronzo in giro.”

Mi accorgo troppo tardi di aver usato il vocabolo sbagliato. Ho l’immediata percezione che quella sia l’unica parola che ha capito, delle tante che ho sputato.

Faccio solo in tempo a notare che due badili travestiti da mani si alzano verso di me.

Mi sveglio in un bagno. No, non di sudore. Il Sudicio deve chiudere e mi viene a pescare sdraiato scompostamente nella sua cloaca.

Gli chiedo della nuova cameriera. Quello mi guarda come se gli parlassi degli ufo. Mi alzo sorretto da braccia robuste e controllo allo specchio arrugginito i miei connotati. La solita faccia insignificante.

Raccatto l’ombrello incredibilmente al suo posto e mi avvio sotto la pioggia, senza neanche aprirlo. Ho bisogno di schiarirmi le idee. Forse devo cambiare qualcosa nel “solito giro”. Magari modificare la sequenza.

Alla lunga, dopo le classiche due pinte, limoncello, grappa, sambuca, amaro e rum producono qualche effetto collaterale.

Tanto il vostro Erasmo dal Kurdistan vi doveva, senza nulla a pretendere.

Edward Hopper “Nighthawks” (1942)

 


 

 

 

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