Allora espatrio

Quante volte ci è capitato di pensare, o anche di commentare con amici, che la misura è colma, che non c’è più niente da fare, che bisogna organizzarsi per lasciare il Belpaese che ormai è sempre meno bello e accogliente.
Gli spunti non mancano e anzi le motivazioni sembrano sempre più solide: il degrado (anche morale e culturale), l’incapacità di dare risposte ai problemi in tempi ragionevoli, il costo crescente della proverbiale disorganizzazione italica (in parte compensata dall’altrettanto proverbiale inventiva), il peso della corruzione e della criminalità più o meno organizzata, la mancanza di senso civico e di attenzione per il bene comune, l’individualismo miope, il crescente cattivismo nutrito dalla paura (sapientemente indotta) come paradigma dei nuovi valori di riferimento, l’intolleranza verso tutto ciò che si percepisce come “diverso”, l’incontro tra popoli e culture inteso come minaccia, lo sdoganamento dei cattivi pensieri diffusi a mezzo social, l’idiosincrasia per ogni opinione non omologata al pensiero unico dominante, l’esaltazione dello spirito animale che la cultura non riesce più a tenere sotto controllo.

Una soluzione, quella dell’espatrio, riservata a pochi.
Qualcuno potrebbe vederla come una sorta di confino dorato per radical chic, un buen retiro in attesa di tempi migliori.
Di natura assolutamente diversa dall’emigrazione, un po’ come buttarsi nel vuoto con un robusto elastico assicurato alla caviglia.
C’è il brivido dell’imprevisto ma anche la certezza di poter tornare, se la destinazione prescelta e idealizzata non dovesse mantenere le promesse.
E infatti uno dei punti critici è proprio quello di trovare un posto sicuramente migliore di quello che si lascia.

Guardi la Francia e ti ritrovi con i gilet gialli che mettono Parigi a ferro e fuoco (e poi, tutta quella spocchia…); l’Inghilterra non è più neanche europea; i Paesi del Nord hanno il grande freddo della lunga notte invernale (però a servizi per la persona non si battono, ma neanche a suicidi); in Germania c’è troppo ordine per i nostri gusti e si parla una lingua veramente brutta; l’estremo oriente ci è precluso per profonde differenze culturali; nei Paesi in via di sviluppo ci sono troppi limiti alla qualità della vita rispetto alle nostre abitudini; gli USA hanno la fissa delle armi e della pena di morte (e con Trump si cadrebbe dalla padella alla brace); giusto il Canada si avvicina alla nostra sensibilità in tema di diritti umani e servizi sociali, ma anche lì… che clima!

Rimangono i Paesi latini, culturalmente a noi vicini, amanti del buon vivere ma anche meglio organizzati della penisola (anche se non ci vuole molto).
In America Latina sembrano esserci molte opportunità, anche se spesso ci sono carenze sul lato sicurezza e stabilità politica.

La Spagna sembra offrire tutto ciò che serve:

clima, servizi, enogastronomia di livello, mare, gioia di vivere e senso della comunità. Nei piccoli centri, però, che nelle grandi città i problemi sono gli stessi ovunque (o quasi).

Intanto si va sempre più diffondendo la figura dell’espatriato fiscale: il pensionato a caccia del Paese del bengodi senza tasse sulla pensione.
È sufficiente trascorrere più di sei mesi in una di queste nazioni ed ecco che il sogno di ogni cittadino si tramuta in realtà: il reddito lordo diventa netto.
Per valutare la reale convenienza c’è da calcolare anche il costo della vita, della locazione di una dimora adeguata e dei trasferimenti.
In Europa le mete preferite sono Malta, Cipro e soprattutto il Portogallo.
I servizi lusitani, anche sanitari, sono di assoluto livello, il clima è buono (al sud ottimo per persone di una certa età), il livello dei prezzi leggermente inferiore al nostro e l’accoglienza è buona; persone aperte e ospitali.
Certo, deve piacere il baccalà, piatto nazionale, ma viene servito in modo così vario che sicuramente si troverà una ricetta che fa al caso nostro.

A questo punto penso che sia chiara la differenza che passa tra espatriare ed emigrare.
L’espatriato ha spesso un biglietto di andata e ritorno, non taglia i ponti, mantiene comunque un porto sicuro dove tornare.
Chi emigra lo fa per sempre, spesso impegna i risparmi di una vita (suoi e dell’intera famiglia) per un biglietto di sola andata, non sa molto della sua destinazione e anzi a volte non sa neanche di preciso dove andrà.
È una persona in fuga, da guerre o da fame poco importa, che sente di non avere alternative e si gioca l’ultima carta, mettendo sul piatto anche la propria vita.

Noi dovremmo saperne qualcosa: per molto tempo siamo stati terra di emigrazione, prima in Europa e poi nel nuovo mondo.
Le rimesse degli emigranti sono state la fonte essenziale di valuta forte che ha finanziato il nostro boom economico.
Tanti “paisa’” si sono fatti strada nei Paesi di destinazione: operatori economici, artisti, sportivi, amministratori pubblici fino alla presidenza della nazione che li ha accolti.
Purtroppo oggi in troppi sembrano non ricordare questa storia, che sarebbe più adeguato chiamare epopea.
Allora forse il nostro problema principale, oggi, che se ne porta molti altri dietro, è la mancanza di memoria.

Tanto il vostro Erasmo dal Kurdistan vi doveva, senza nulla a pretendere.

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