La foschia lattiginosa, velandoli, smussava i margini di ogni cosa visibile, e per le vie senza troppa personalità della città di provincia, assumere l’aspetto trasognato che essa gli donava era una specie di benedizione.
Stretti l’uno all’altra Lallo Tarallo e Consuelo camminavano tacendo.
Non avevano un perentorio bisogno di parlare: si trovavano in uno di quei momenti in cui potevano apprezzare fino in fondo le due magie che stavano vivendo.
Innanzitutto quella esterna, insolita, con le strade anonime del posto che approfittavano di quella nebbiolina filante per mettere in scena un’aria di misterioso incanto, una seduzione ben al di fuori della loro portata quotidiana.
C’era poi la magia interna, quella di due persone complementari che, dopo anni sprecati a vivere altrimenti, si erano trovate infine, e non avrebbero potuto ora essere più unite.
Il loro passo era perfettamente sincrono e sorridevano per uno scambio di commenti divertenti, ma di cose divertenti da dirsi ne trovavano di continuo.
Al passaggio della coppia, non certo per merito di Lallo, lampioni guasti, spenti da mesi, si accendevano d’improvviso e, spedendo la loro luce giallina a sondare la nebbia, contribuivano a consolidare l’inusuale atmosfera di quel tardo pomeriggio.
Consuelo e Tarallo si salutarono sotto il portone del palazzo che ospitava la redazione del fogliaccio sul quale il giornalista scriveva, ospite malsopportato.
Sere prima, nel corso di una scena inaudita e grottesca, Lallo si era sottratto a stento alle avances del Direttore, Ognissanti Frangiflutti, che era stato colpito nell’intimo della massa cerebrale da una parola pronunciata inavvertitamente da Tarallo, un motto che, toccando evidentemente i tasti chimici giusti, li aveva portati a reagire festeggiando allegramente, inducendoli ad abbandonarsi ad un inedito delirio amoroso.
Si era così liberata sorprendentemente una carica di libido a propulsione atomica, un tipo di pulsione fino a quel momento rivolta da Frangiflutti soprattutto ai piaceri del comando.
Tornando a casa, rosso dall’imbarazzo, Lallo aveva telefonato a Cervellenstein cercando il conforto autorevole del parere dello psicologo.
Il professore in quel momento aveva un caso impegnativo da sbrogliare, rassicurò quindi Tarallo che l’avrebbe richiamato presto, dopo aver congedato il suo paziente.
Chiusa la comunicazione, lo Psicologo tornò a rivolgersi alla figura allampanata e tetra che occupava il lettino carnivoro dello studio.
L’uomo disteso, apparentemente un cinquantenne, aveva una faccia di lunghezza non comune: tra i suoi capelli radi e la punta del mento c’era tanto di quello spazio da poter essere dichiarato area edificabile.
Quella faccia troppo lunga, da statua dell’isola di Pasqua, come spesso capita, dava a chi si trovava al cospetto di quel tizio l’impressione che questi fosse un braditipo, una persona cioè poco reattiva, dai ritmi vitali e dai riflessi molto lenti.
I suoi gesti, cautissimi, sembravano confermare l’ipotesi e la distanza tra fronte e bocca in effetti era tale in lui che una sua frase, elaborata dal cervello, doveva percorrere un significativo tratto di strada prima di essere lavorata ed espulsa, stanca morta, dall’apparato vocale.
Tra il suo pensare e il suo dire c’era insomma lo stesso intervallo di tempo che si avverte tra domanda e risposta nelle interviste televisive intercontinentali, il classico ritardo causato dal satellite.
Anche la voce gli usciva stentata, bassa di tonalità, un sordo, monotono brontolio.
Quell’uomo, così bersagliato da varie mascalzonate della natura, si chiamava Arturo Toscanelli e lavorava nel settore intrattenimento di una grande ditta di onoranze funebri.
Cervellenstein, riposto il telefono nel cassetto, gli si rivolse:
“Allora Signor Toscanelli, mi stava dicendo…?”
Dopo una cinquantina di secondi da questa semplicissima domanda, giusto il tempo necessario al Professore per intercettare, dare una caccia serrata e infine abbattere un insetto dalla curiosa morfologia che gli volava intorno, finalmente l’uomo parlò, cantilenando lugubre.
“ Vede, il guaio è che io ricordo tutto Professore, proprio tutto, io ricordo troppo…Se per l’intera vita il mio problema è stata la noia mortale, l’annoiarmi sempre e comunque, è perché, ne sono sicuro, io sono stato un feto triste. Sì, ha capito bene: io sono stato un feto triste. Nessuno si porta dietro la memoria di quei nove mesi terribili, nessuno, perché la natura, generosamente, provvede a cancellare i ricordi spiacevoli. A me invece quella stronza –
Si controlli la prego! intervenne Cervellenstein –
Mi scusi… Dicevo?..Ah sì, a me la natura ha lasciato intatti tutti i ricordi, tutti dico, soprattutto i primissimi. E se è intuitivo pensare che fare il feto non sia una cosa molto emozionante, io purtroppo sono l’unico essere del nostro pianeta che è nella condizione di poterlo confermare, anzi, di urlarlo ai quattro venti!
Due palle così Professore!!
Tutto quell’accidente di tempo solo, al buio, senza nessuno con cui scambiare quattro chiacchiere o farsi una partitina, stando immerso in una brodaglia calda…Così il tempo non ti passa mai e anche i pasti… nemmeno li assaggi perché te li porta il cordone, te li mette sotto il naso e poi fa tutto lui. Non un libro, una settimana enigmistica, un rotocalco di gossip, un saggio di Salvini sulla Scuola di Francoforte: niente di niente!! E se sei, oltre che triste e inattivo, un feto anche sfigato, di tutte le musiche che, unica distrazione concessa, ti possono arrivare, sia pur smorzate, all’orecchio, puoi scommettere che ti beccherai le canzoni singhiozzate dei Negramaro, di cui quella criminale di tua madre è una fan! O ti tocca subire l’eco di quell’insopportabile programma coi pacchi. Il mio problema Professore e che ora mi annoio, mi annoio, mi annoio. Ora mi annoio più di allora, neanche un prete per chiacchierar…”.
Cervellenstein si passò la mano sulla fronte in un gesto di infinita stanchezza, intenzionato, alla prima occasione, ad estirpare un arto inferiore al collega Trancioli, il delinquente che gli aveva rifilato Toscanelli stuzzicando il suo orgoglio professionale…
“A Cervé, ti dico che è un caso fantastico, roba per te. Questo tizio, in sintesi, non riesce a trovare un solo stimolo, che dico, mezzo stimolo, che contrasti una noia abnorme, monumentale. Questo Toscanelli non fa altro che annoiarsi, annoiarsi, si rompe le palle verticalmente, se le scassa orizzontalmente: è un annoiatore professionale ultraspecializzato: dove passa Toscanelli non cresce più l’erba! Accetta il caso, dammi retta, è la sfida per te, perché lui è il Maradona del rompersi i coglioni!”
“E quanto li rompe agli altri…!” biascicò subito dopo a se stesso, pianissimo, perché Cervellenstein non lo sentisse.
Il Professore diede un’altra occhiata rassegnata al faccione di Toscanelli, sospirò piano e pensò che con ogni probabilità Tarallo avrebbe dovuto aspettare un bel pezzo, settimane forse, prima che lui potesse richiamarlo.
Lallo nel frattempo, scortato dai vapori freddi del pomeriggio inoltrato, era arrivato in redazione.
Si bloccò subito sulla porta: tra il fracasso continuo di roba che cadeva a terra, li dentro era in corso una delle peggiori “tempeste di oggetti” che lui ricordasse.
Dalla direzione proveniva un costante e fittissimo lancio di cose, cose di ogni tipo, grandezza e forma.
Si può dire che non passasse secondo senza che dei fermacarte, delle targhe ricordo, quaderni di appunti, stilografiche e biro, pesantissimi annuari della rivista ”Il coraggio del rifiuto” ed altro ancora, piovessero sui redattori.
Accoccolati dietro le loro scrivanie, ribaltate a far da barricata, i cronisti resistevano da valorosi.
Tarallo notò che tra loro erano ricomparsi gli elmetti militari, compresi alcuni di quelli soliti, con le frasche mimetiche.
Il nostro eroe si buttò in terra e, procedendo carponi, giunse nei pressi della trincea di Raffaele Foffo, detto, senza troppi sforzi di fantasia, Foffo. Redattore di cronaca giudiziaria, era un umanoide muschioso, verdognolo, e di rigorosa ortodossia alla linea Frangiflutti.
“Ma che gli è preso oggi a questo, Foffo?” chiese Lallo sconcertato.
“Tutta colpa tua Tarà, accidenti a te!
Dice che l’altro giorno tu gli devi aver fatto qualcosa, non lo sa bene nemmeno lui cosa, ha parlato di ipnosi o roba del genere.
Sta di fatto che, secondo lui in stato di incoscienza, ha fatto passare quel tuo articolo molto critico sui 350.000 euro spesi fuori bilancio dalle giunte precedenti per l’acquisto di dieci dissuasori umani del traffico[¹].
La Proprietà non ha apprezzato.
Gli strilli al telefono li abbiamo sentiti tutti.
E una volta assaggiato il sangue, questi della Proprietà non si sono fermati più e gli hanno pure chiesto a bruciapelo a quanto fosse venduta la rivista “Il coraggio del rifiuto” in Papua Nuova Guinea.
Frangiflutti non lo sapeva, ha risposto una cosa così, a caso, e quelli per ritorsione gli hanno revocato la Tessera Gold del Club delle Giovani Marmotte che lui sfruttava tutti gli anni scroccando ingressi gratis a Gardaland.
Per la cronaca Tarà, quel’immondizia di rivista costava trentacinque Kina, dovessero mai chiedertelo…”.
La presenza di Lallo, che si era messo in trincea con Foffo, venne a quel punto notata da una esperta, navigatissima redattrice e altrettanto celebre delatrice, che dopo aver schivato un micidiale portapenne in peperino, strillò in direzione del capo:
“Direttore, c’è Tarallo! E’ arrivato Tarallo!! Direttoree mi senteee!”
Lallo sbalordì dinanzi alla vergognosa e vile spiata, ma venne immediatamente circondato da tutti i redattori, ringalluzziti dalla possibilità di regalare una preda all’Orco.
E i loro sguardi, notò il giornalista, non promettevano nulla di buono.
“Consegnatemi immediatamente quel bandito di Tarallo – ordinò il Direttore con la voce deformata dall’odio – che venga avanti con le mani alzate!”.
Costretto a spintoni da quell’accolita di vigliacchi, Lallo, a braccia alzate, si avviò riluttante verso la stanza della direzione.
Il fuoco era cessato e dalle macerie si levava ora un silenzio assordante.
Il plotone dei viscidissimi redattori, alcuni dei quali per prudenza indossavano ancora gli elmetti mimetici, seguiva col fiato sospeso il percorso di Tarallo.
Frangiflutti, scarmigliato e con gli occhi spiritati, all’apparire di Lallo proruppe in una risata folle e cattiva.
Imbracciava una fiocina da pesca subacquea arrugginita, un reperto che giaceva in redazione da tempi remoti e la cui presenza costituiva un mistero rimasto sempre irrisolto.
“Kina.
Si chiama kina la fottuta moneta papuana!
Lo sapevi tu mascalzone sovversivo?
Mi hai fatto pubblicare una cosa inaudita, dare voce ad una critica assurda: che cazzo c’è in fondo di più utile di un dissuasore umano di traffico? Niente, naturalmente, ma a quel genio di giornalistucolo di Tarallo non sta bene che si spendano soldi pubblici per i dissuasori umani!
Critica lui, e mi induce, Dio solo sa come, a pubblicare il suo delirio!
Mi hanno revocato la Tessera Gold delle Giovani Marmotte, se ne rende conto pezzo di stronzo comunista?
Ma io ora la faccio finita con lei Tarallo: una bella fiocinata e non ci si pensa più!
Che mi perseguiti pure la P2 di suo zio, non me ne frega niente!”.
Il cervello di Lallo nel frattempo lavorava velocissimo, doveva ricordare, riandare con la memoria alla conversazione di qualche giorno prima, individuare subito la parola che aveva steso d’amore Frangiflutti.
Non c’era tempo.
Il Direttore intanto, sempre con un ghigno pazzo stampato in volto, aveva alzato la fiocina, puntandola in direzione del petto di Tarallo.
A quel punto il pensiero disperato di perdere Consuelo lo afflisse più della paura di perdere la vita e qualcosa gli si accese nel cervello, folgorandolo:
“Neurorecettori” disse.
Frangiflutti, abbassò la fiocina guardandola come se la vedesse per la prima volta.
Poi fissò Tarallo mentre un sorriso civettuolo gli invadeva il volto, raddolcendolo.
Scuoteva il capo, divertito.
Alzò poi la testa e con le labbruzze di botto corrucciate, scoccò a Lallo uno sguardo maliardo
“Bricconcello che non sei altro, neurorecettori mi dici, sapendo a cosa mirare!
Tarallo, micione mio, come si fa a resisterti?”…..
[¹] Sono dette “Dissuasori umani del traffico” alcune persone, generalmente di buon carattere e di modi cortesi, che, sostituendo i dissuasori classici, ovvero i pioli a scomparsa che impediscono l’accesso a determinate aree cittadine, svolgono più o meno la stessa funzione, solo spiegando, verbalmente e molto gentilmente, l’impossibilità di accedervi. L’uso dei dissuasori umani del traffico si è tuttavia rivelato antieconomico perché venendo molto spesso malmenati da un’ utenza grossolana e manesca, altrettanto frequentemente si deve procedere alla loro riparazione presso i locali ospedali e centri di pronto soccorso. Alcune amministrazioni, in seguito alla distruzione fisica e morale dei dissuasori umani del traffico, hanno sospeso l’esperimento tornando all’uso dei pioli mobili.