Gli effetti di una crisi nascosta tra le paure
In Europa, nel 2013, la spesa derivata dalla depressione e da malattie stress-correlate aveva raggiunto quota 617 miliardi di euro.
Era stata di 114 miliardi di euro nel 2005. Ma i dati subirono controverse interpretazioni e quelli del 2013, solo due anni dopo vennero ridimensionati a 91 miliardi.
Tuttavia secondo l’attendibile report prodotto da Matrix, Economic Anaylisis of workplace mental health promotion and mental disorder prevention porgramme and of their potential contibution to EU health, social and economic policy objective pubblicato nel 2016 quel conto di 617 miliardi era la somma reale di fattori plurimi: dalla perdita di produttività (242 miliardi di euro), ai costi sanitari (63 miliardi di euro), ai costi di assistenza sociale (39 miliardi di euro). Per non parlare dei decessi che furono registrati in Spagna come altrove, i suicidi bianchi.
“Solo” 84 miliardi di dollari la spesa degli Stati Uniti nello stesso anno!
Infatti già nel 2015 una analisi condotta dal ministero del lavoro francese aveva messo in relazione la situazione economica delle imprese europee ed i fattori di rischio parasociale dei lavoratori esposti.
Ed in particolar modo quelli delle imprese in “crisi”.
Una crisi finanziaria ed economica che da almeno due decenni attraversa buona parte dell’Europa e molti paesi occidentali.
Contemporaneamente l’analisi condotta nello stesso anno dall’Agenzia europea per la sicurezza e la salute sul lavoro, analizzò i casi di molti paesi, nel dettaglio tra questi quelli di Francia, Germania, Canada ma non l’Italia.
L’anno successivo però – un report pubblicato in occasione del Forum ‘Un Viaggio di 100 anni nelle neuroscienze’ all’Accademia dei Lincei sui costi derivati dalla spesa per la depressione – fornì una interpretazione più ristretta mettendo in chiaro altri fattori di rischio correlato: un italiano su cinque colpito da depressione. E costi medi per ricoveri, specialistica ambulatoriale, farmaci e trattamento pari a 4.062 euro/paziente.
Lo studio sosteneva che “la depressione colpiva il 12,5% della popolazione – pari a circa 7,5 mln di italiani – con solo il 34,3% dei pazienti che però assume farmaci.” Fattori cui venivano aggiunti dati relativi all’impatto sociale che teneva conto come per ogni paziente vengono coinvolti almeno 2-3 familiari, tradotto in una cifra pari a 4-5 milioni di persone coinvolte indirettamente dal disturbo depressivo.
Ma anche in questo caso i dati furono molto fluttuanti visto che nel 2018 i depressi in Italia scesero improvvisamente a 2.8 milioni di persone. Ciò che invece sembra essere certo è che solo un malato su tre aveva ricevuto assistenza adeguata.
“Per il 57% di loro le principali cause di depressione sono rintracciabili nello stress fisico e psico-emotivo, accentuato oggi dal profondo cambiamento del ruolo multitasking femminile (aumento della quantità di lavoro, maggiori carichi di responsabilità associati a ruoli professionali apicali, conciliazione e acquisizione di abitudini di vita scorrette)”. Scriveva lo studio. Perché di depressione sembrano soffrire più le donne degli uomini. Ma sarà poi vero?
Ieri l’ultimo segnale d’allarme è stato lanciato da una delle categorie più sensibili al tema del grave fenomeno sociale. Il Consulcesi, gruppo di riferimento per 100 mila medici, sottolinea che secondo un’indagine condotta in 12 Paesi dall’European General Practice Research Network, i camici bianchi italiani hanno un livello di stress quasi doppio (43%) rispetto alla media europea (22%).
Ma se il medico in corsia è malato chi curerà i suoi pazienti?
Presto anche questo sarà un interrogativo cui occorrerà dare una risposta.
Infatti, all’indomani della decisione dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, d’inserire la sindrome di “burnout” (lo stress appunto), tra le malattie che si configurano come “esaurimento da lavoro”, mercoledì scorso, l’autorevole quotidiano il Sole 24 Ore ha dedicato un’importante articolo di primo piano alla situazione del lavoro in Italia.
E più esattamente alle centinaia di tavoli aperti presso il MISE (Ministero dello Sviluppo Economico) con cui si certifica lo stato di crisi di migliaia di imprese italiane.
210 mila gli addetti legati ai 150 tavoli di crisi in cui, nei prossimi mesi, si deciderà il futuro di altrettante famiglie.
Famiglie che tuttavia oggi possono ancora godere della Cassaintegrazione: la cosiddetta CIGS.
L’aumento che registrano i sindacati impegnati nei tavoli di trattativa è preoccupante e comunque sempre inferiore a quel livello sommerso,
in stato di disoccupazione o precarietà lavorativa, del quale non si hanno dati CERTI.
Chi si occupa di Sanità e di lavoro, da tempo mette in relazione i fattori che generano stress.
La sindrome del super-lavoro, non è diversa da quella del non-lavoro, entrambe sono difficilmente placabili, se non con azioni concrete.
Così se le ore di CIG (Cassa integrazione guadagni) straordinaria, nel mese di
Aprile sono incrementate di un massiccio 78% sappiamo anche che nel primo quadrimestre di quest’anno, la quota è salita del 26%.
Un tavolo di crisi in genere non riflette solo la condizione di un settore specifico, ma più in generale è la manifestazione di una scollatura sociale che più generale investe il territorio.
Ragione per cui, oltre a fare appello all’utilizzo di strumenti normativi atti ad avviare percorsi di riconversione, è sempre più necessaria un’azione che punti alla velocizzazione delle riconversioni.
I tempi – ahimé – non aiutano a dimostrare con nettezza il valore di un progetto che, stretto nelle chiuse di una burocrazia farraginosa, può
allungare i tempi di una “naturale” e doverosa risoluzione.
Come se dall’altra parte non vi fossero esseri umani, non vi fossero dignità da rispettare, famiglie da accudire, figli da crescere e istruire, cui dare uno stimolo e una ragione che non si limiti all’attesa per la sopravvivenza.
Solo chi ha toccato con propria mano lo stress da super lavoro e, dall’altra, quello della disoccupazione, può comprendere ciò di cui oggi parliamo.
Non confortano poi i dati comparativi relativi ai livelli di erogazione dei servizi resi dalla Sanità nazionale. Né tanto meno la qualità della vita. Tuttavia più in generale, si può asserire che i nostri territori e le nostre province non rispecchiano a pieno le potenzialità ancora insite in sé stesse.
Ed è nostro malgrado, che anche questo deficit si sta trasformando in un dato comparativo STRUTTURALE.
Così come non conforta leggere che in Italia, 9 milioni di persone hanno chiesto prestiti per ricorrere alle cure mediche. Prestiti che gli italiani non possono più permettersi e che sfiorano i 100 miliardi di euro.
Una montagna di soldi (per la precisione 97.046.720 miliardi di euro al 30 giugno 2018) che gli italiani sanno di dover restituire.
L’indebitamento – soprattutto con il sistema bancario – è infatti in aumento dell’1% sul 2017 e riguarda soprattutto quei 9 milioni di persone che hanno chiesto un prestito per le cure mediche.
Ad aggiungere le statistiche che certificano l’impoverimento della CLASSE MEDIA, servirebbero una dozzina di pagine. Dunque la certificazione dello stato di crisi e la necessità di accelerare i provvedimenti che rimettano in moto l’Italia è più che mai stringente. Da una reindutrializzazione consapevole delle buone pratiche ambientaliste, senza paraocchi, alla riconversione dei territori in chiave sostenibile e produttiva di tutti quei settori di sviluppo che, dal turismo all’artigianato, dall’arte alla cultura, sono stati finora lasciati in balia dell’ignoranza politica di chi avrebbe potuto e dovuto, trarne vantaggio.
Non per sé stesso ma per la comunità amministrata.
Perché in ballo, come del tutto evidente, non ci sono solo posti di lavoro,
ma la stabilità dell’intero Sistema Italia.
H. Lucente Carapaz è nata a a Tenochtitlán. Per molti anni si è dedicata allo studio degli astri. Avendo verificato come Plutone non sia affatto il pianeta più distante dal Sole perché considerato, pianeta nano. Una mattina, dopo essersi alzata, aver fatto il caffè, preso una doccia gelata, ha deciso di concentrarsi anche su Urano che per molti versi è considerato suo gemello ed è molto più fascinoso e ribelle del primo. Tuttavia, dopo anni di effetti nefasti sulla sua visione pragmatica di ciò che causa inimmaginabili rivoluzioni su distanti pianeti, ha deciso di ritirasi a San Juan Teotihuacán. Con il suo telescopio puntato sulla grande cordigliera delle Ande e sulla bassa marea del Mediterraneo affronta temi planetari nel confine dell’umana percezione. Non ama i cani i gatti gli uccelli e le sfingi. Molte volte distrattamente assopita ricorda gli anni della sua convinzione e successivamente quelli della sua redenzione. Ha 117 anni e sembra una bambina.