Non era stato un rientro indolore, quello di Ognissanti Frangiflutti nella redazione del suo Fogliaccio. Tutti i giornalisti erano da giorni al corrente del fatto che lo si poteva considerare ormai un direttore dimezzato, messo sotto tutela, affidato alle cure melliflue dell’altra e preponderante metà del vertice direttivo: l’umidissimo Lello Rapallo.
La mattina del suo ritorno Frangiflutti sapeva perfettamente quanti mormorii, quanti pettegolezzi, quante illazioni, quante ipotesi e quante previsioni fossero già intercorse tra i redattori, tutti personaggi eccelsi nello sciogliere la lingua nei tempi giusti, nell’usarla ora per blandire i potenti, ora per dare il colpo di grazia a chi stava cadendo, a chi perdeva l’appoggio degli dei.
Solo uno di loro, a pensarci adesso, era troppo eccentrico per piegarsi a quelle inflazionate attitudini morali, troppo alieno per accodarsi a qualsiasi canone, a qualsiasi potere: quel Lallo Tarallo che proprio per questa sua indipendenza lui aveva sempre detestato.
Lo stravagante giornalista lo irritava perché funzionava con lui come uno specchio dell’anima, come il ritratto di Dorian Gray: gli rimandava la sua immagine interiore costringendolo a guardarsi per quello che era, e quel che gli si presentava davanti agli occhi non era davvero un bel vedere, tanto che ogni volta doveva sbrigarsi a rimuoverlo dalla coscienza.
L’ex direttore camminava come se la strada, percorsa infinite volte, gli fosse sconosciuta, come se vedesse per la prima volta i negozi che vi si affacciavano, come se le facce di quelli che tutti i giorni la percorrevano gli fossero estranee.
Frangiflutti procedeva camminando con le gambe molli ed il nodo della cravatta che sembrava gli azzannasse progressivamente la gola.
Un gran caldo si era insediato di botto in città, arrostendo le vie, i palazzi e le piazze, rendendo l’ombra preziosa come l’oro per i residenti e non, reduci da una lunga stagione di piogge.
Il ricordo dell’ultima esercitazione fatta a Tashkent ancora visitava le notti di Frangiflutti, turbandole.
“Sulle orme di San Francesco: dividere il pasto coi fratelli animali”.
Questa era l’untuosa formula usata per uno degli ultimi esercizi spirituali che avevano dovuto affrontare lui e Monsignor Bertoni.
In realtà, insieme con altri penitenti, tutta gente che era lì per reati commessi contro il marketing, lui e il gesuita esuberante erano stati condotti bendati in una radura che si apriva inaspettatamente tra uno spettrale bosco di alberi, inceneriti da chissà quale incendio.
Sul posto li attendevano varie gabbie, non proprio grandissime: dentro vi oziavano svariate bestie, da tempo impiegate con regolare contratto dal Ministero degli Interni uzbeko. I coordinatori spirituali, tutti scelti tra crudelissimi cantanti neomelodici, spiegarono che per garantire imparzialità, per ciascuno dei penitenti era stata sorteggiata una gabbia e il relativo animale col quale fraternizzare dividendo il cibo.
L’affermazione parve subito poco credibile ai nostri due connazionali perché il sorteggio non era stato fatto in pubblico, sicchè l’esito di quella lotteria lasciava pensare ad un festival dei favoritismi.
Tra i penitenti partecipanti, infatti, a qualcuno, casualmente di nazionalità uzbeka, era toccato dividere i semi di girasole con un criceto inappetente, altri avevano dovuto fraternizzare convivialmente con delle galline dal temperamento ilare, trangugiando un mucchietto di miglio, altri ancora, un po’ meno raccomandati, avevano spartito, (si fa per dire perché non erano riusciti a toccar cibo) fish and chips con politici locali, gente voracissima, in gabbia per malversazioni varie. E se è pur vero che questi ultimi penitenti avevano appunto digiunato, quel che era toccato a lui e a Monsignor Bertoni era stato un impegno di ben altra portata, un vero incubo.
Un brivido gelato gli percorse la colonna vertebrata nel ricordare il momento in cui, appena condotto nella sua gabbia di pertinenza, gli fu concesso di togliersi la benda: un ammasso enorme di carne sanguinolenta era l’unico divisorio tra lui e Mario, il decano dei leoni dello Zoo di Tashkent, soggetto noto tra gli inservienti per il carattere fortemente impulsivo e per la prepotenza dei modi.
Quello di Mario non si poteva dire un temperamento riflessivo, e per di più la belva non si era mai vista contendere del cibo in vita sua.
Così, con un ruggito che arricciò la chioma del direttore riportandola al color biondo smorto della sua giovinezza, il leone proclamò al pover’uomo tutta la sua distanza dagli ideali francescani: nemmeno un frammento di quel cibo sarebbe stato spartito.
Frangiflutti, da sincero democraticò, non fece a Mario una colpa per avere concezioni di vita che del resto non erano troppo distanti dalle sue, e per i sessanta secondi successivi, confinato nell’angolo più distante della gabbia, si limitò ad assistere tremando forsennatamente al pasto del bestione. Sconvolgente per lui, sul piano nervoso, fu anche, subito dopo, l’entità del “ruttino postprandiale” del leone.
Il direttore, che per lo spavento si era ritrovato in testa una criniera molto più crespa e folta di quella di Mario, venne estratto dalla gabbia un quarto d’ora dopo, mentre declamava in uzbeko parti intere del libro dell’Ecclesiaste.
Non era andata meglio a Monsignor Bertoni che aveva scoperto di dover fraternizzare e dividere il pasto con il Grande Gatsby, un pitone di fascia A, quella cioè che include serpenti di dimensioni inusitate e inclini agli eccessi della tavola.
Non era stato per nulla piacevole per il gesuita lanciare, prendendoli da quello che avrebbe dovuto essere il desco comune, otto topi al secondo per arginare l’interesse di Gatsby nei suoi confronti e deviarlo sui disgraziati roditori.
Riuscì a reggere quel ritmo di lancio per ben ventisette minuti, fin quando il pitone, finalmente sazio, non si prese i suoi quindici giorni di vacanza digestiva.
Brutti, bruttissimi ricordi per Frangiflutti, che con un certo sforzo tentò di scacciarli, deglutendo vistosamente.
Giunto nei pressi del portone della redazione, l’ultimo del portico, incocciò subito il caporedattore Dell’Ortaggio che portava stampata in faccia la soddisfazione per la consueta colazione, consumata come sempre nel bar sottostante.
“Direttore carissimo!! Che sorpresa!! Come stai? Raccontaci tutto del tuo soggiorno in Uzbekistan: qui, tantissimi che non sono mai usciti dalla nostra povera cittadina, ti hanno invidiato moltissimo!
Stai meravigliosamente, ti trovo dimagrito e in gran forma!”.Sarà stato forse l’effetto della consapevolezza che gli veniva da una lunga conoscenza con lui, ma a Frangiflutti parve quasi di veder agitarsi, roteando dentro e fuori dalla bocca del caporedattore, una lunga e squamosa lingua verde.
Senza rispondere, riuscì ad organizzare un sorriso pallidissimo, poi imboccò le scale a piedi, come aveva sempre fatto, tanto la redazione era al primo piano.
Dell’Ortaggio lo precedette, spalancò la porta e teatralmente strillò: “Tutti qui! Correte! Guardate chi c’è!!”.
Ci fu un istante di ferma: i giornalisti rimasero impietriti dalla sorpresa.
Nei locali della redazione il caldo non era stato arginato a dovere dal vecchio, tossicoloso condizionatore, così l’aria che vi si respirava era tropicale quanto quella di un villaggio delle giungle tailandesi.
Il primo a correre incontro a Frangiflutti, sorridente, festante e con le braccia sollevate in segno di giubilo, fu il condirettore Lello Rapallo.
Dalle sue ascelle criminali, immerse in un umidore malsano, insieme con uno stormo di zanzare tigre rotte a tutto, si levò quel lezzo letale che i suoi redattori conoscevano bene e che sommamente temevano.
“Carissiimooo”, fece Rapallo, e per la prima volta in vita sua Frangiflutti, che pure era sopravvissuto alle crudezze estreme del bagno penale in Uzbekistan, si concesse di svenire.
Lallo Tarallo, giovane sin dalla nascita, è giornalista maltollerato in un quotidiano di provincia.
Vorrebbe occuparsi di inchieste d’assalto, di scandali finanziari, politici o ambientali, ma viene puntualmente frustrato in queste nobili pulsioni dal mellifluo e compromesso Direttore del giornale, Ognissanti Frangiflutti, che non lo licenzia solo perché il cronista ha, o fa credere di avere, uno zio piduista.
Attorno a Tarallo si è creato nel tempo un circolo assai eterogeneo di esseri grosso modo umani, che vanno dal maleodorante collega Taruffi, con la bella sorella Trudy, al miliardario intollerantissimo Omar Tressette; dall’illustre psicologo Prof. Cervellenstein, analista un po’ di tutti, all’immigrato Abdhulafiah, che fa il consulente finanziario in un parcheggio; dall’eclettico falsario Afid alla Signora Cleofe, segretaria, anziana e sexy, del Professore.
Tarallo è stato inoltre lo scopritore di eventi, tra il sensazionale e lo scandaloso, legati ad una poltrona, la Onyric, in grado di trasportare i sogni nella realtà, facendo luce sulla storia, purtroppo non raccontabile, di prelati lussuriosi e di santi che in un paesino di collina, si staccavano dai quadri in cui erano ritratti, finendo col far danni nel nostro mondo. Da quella faccenda gli è rimasta una sincera amicizia col sagrestano del luogo, Donaldo Ducco, custode della poltrona, di cui fa ampio abuso, intrecciando relazioni amorose con celebri protagoniste della storia e dello spettacolo.
Il giornalista, infine,è legato da fortissimo amore a Consuelo, fotografa professionista, una donna la cui prodigiosa bellezza riesce ad influire sulla materia circostante, modificandola.
Lallo Tarallo è un personaggio nato dalla fantasia di Piermario De Dominicis, per certi aspetti rappresenta un suo alter ego con cui si è divertito a raccontarci le più assurde disavventure in un mondo popolato da personaggi immaginari, caricaturali e stravaganti