Max Aub e l’arte letteraria della beffa

Max Aub

Intorno alla fine degli anni Cinquanta del secolo scorso, lo scrittore Max Aub organizzò a Città del Messico, presso la Galleria Excelsior, una mostra retrospettiva del redivivo pittore catalano Jusep Torres Campalans.

Vi figurava l’opera completa dell’artista, o meglio, tutto ciò che si era potuto recuperare dei suoi dipinti dopo due guerre mondiali e dopo la loro dispersione fisica e culturale.
I quadri, essendo morto sotto un bombardamento un tale H.R. Town che li possedeva, erano finiti in mano, “in circostanze alquanto oscure”, ad un funzionario franchista, un catalano residente a Londra, più amante della tranquillità che dell’arte.
Questi venuto a conoscenza delle ricerche di Aub, glieli aveva fatti avere, probabilmente “per farsi perdonare qualche brutto trascorso”.

Aub aveva conosciuto Campalans a Tuxtla Gutierrez, nel Chapas, subito dopo una sua conferenza sul Don Chisciotte: era stato colpito subito da quella figura magra, dal viso bruno, che camminava svelta appoggiandosi ad un bastone. L’uomo, che aveva dei modi asciutti e diretti, gli si accostò dopo il suo intervento e gli chiese senza cerimonie:

“Usted, di dov’è?”.

“Sono nato a Parigi”.

“Parigi… Esiste ancora Parigi?” E sorrise. Poi aggiunse: “Mi perdoni. Molto lieto”.

Il libraio che aveva ospitato l’evento, alla curiosità dello scrittore nei confronti di quel personaggio, rispose che tutti chiamavano quell’uomo misterioso Don Jusepe,  Jusepe o forse Josè Torres Campalans, e che viveva in montagna, in una specie di capanna.
Il giorno successivo la conferenza venne replicata in un paese vicino e Aub scoprì da un erudito del posto che Torres Campalans aveva fatto il pittore a Parigi, ma che da molto tempo non aveva più voluto saperne di dipingere.
Aub quella sera l’aveva rivisto, in giro per la cittadina, e aveva fatto in modo di scambiare due parole con lui.
Aveva provato a nominargli Picasso. “Perché, vive ancora Picasso?” chiese l’uomo, sorridendo.
Tornato poi alla sua vita ed alle sue consuete occupazioni e trovandosi a Parigi a parlare con un suo amico intellettuale, Aub accennò a quell’incontro in Messico.
L’amico restò di stucco: “No! Jusep Torres Campalans? Ma è fantastico!”. E si precipitò a cercare, trovandoli, un vecchio quaderno di appunti del pittore e un catalogo delle sue opere compilato da Henry Richard Town.

Era entusiasta, gli brillavano gli occhi:

“Chissà che contento, se lo sapesse, Picasso! Peccato che non si trovi a Parigi. Dovresti parlare con Sabartes, con Camps, con Rosellò”.

Questo straordinario riapparire del pittore catalano che aveva fatto perdere le proprie tracce e che era stato amico e sodale di Picasso e di Braque nel movimento che portò alla nascita del cubismo, convinse Aub ad approfondire le sue ricerche.
Trascorso diverso tempo, ricostruito per quel che si poteva il percorso di Campalans e, soprattutto, ritrovate che furono anche le opere, poté infine dedicarsi  all’organizzazione della mostra di Città del Messico. 

L’evento ebbe un enorme successo: le tele ebbero un forte impatto sul pubblico e naturalmente si diffuse una grandissima curiosità sul personaggio del pittore, sulla sua opera e sulle sue vicissitudini biografiche.
Max Aub a questo punto si sentì quasi in obbligo di curare e pubblicare una densa biografia di Campalans, inserendoci anche l’edizione ragionata dei suoi quaderni, ricchissimi di spunti e riflessioni sulla vita e sull’arte.

Max Aub

La critica si mobilitò, molte furono le voci che intervennero nel dibattito, principalmente per sottolineare l’eccezionalità della storia che era riemersa. Alcuni studiosi sostennero che l’opera di Campalans poteva essere considerata un ponte tra la pittura europea e quella spagnola, altri che la riscoperta dell’artista avrebbe potuto chiarire alcuni aspetti, rimasti ancora oscuri, sulla nascita del cubismo.
Spuntarono fuori anche diverse persone che ricordarono distintamente di aver conosciuto l’artista da giovane.

Il libro, a causa degli ingredienti spettacolari che erano all’origine della sua stesura, non poteva non destare un vivissimo interesse.
Impossibile non appassionarsi alla storia e a all’opera di Campalans che erano state così ben ricostruite nella biografia, ed alla singolare personalità del pittore.
Il pubblico subiva l’effetto di naturale mitizzazione che scaturiva dalla vicenda misteriosa di uno degli iniziatori del cubismo, riportato all’attenzione che meritava, ed era affascinato da quei diari che ne sottolineavano i tratti profondi. Il personaggio del pittore, riconosciuto e apprezzato, era talmente cresciuto nella considerazione generale da essere ormai fuori controllo, anche per Aub che lo aveva  evocato. 

A due anni di distanza dalla famosa mostra e dalla prima uscita del libro, nel presentare alla stampa l’edizione francese, pubblicata dalla prestigiosa Casa editrice Gallimard, lo scrittore decise improvvisamente di vuotare il sacco.

Dinanzi a giornalisti, critici e a un folto pubblico confessò il “misfatto”:

“Jusep Torres Campalans non esiste, non è mai esistito: l’ho inventato io”.

Lo sconcerto fu così totale ed  acuto che in un primo momento l’attenzione, tutta accentrata sul pittore e sulla questione della sua esistenza, coprì l’altro nodo della questione, prima che a qualcuno venisse in mente di fare a Max Aub l’irrinunciabile domanda:

“E i quadri? Chi ha dipinto quei quadri?”

Lo scrittore non ebbe difficoltà a rispondere:

“Bueno, li ho fatti io e  allo stesso modo ho inventato anche il vecchio catalogo”. 

La clamorosa faccenda di Jusep Torres Campalans fu, secondo la stampa francese, la più bella beffa del secolo, uno dei migliori esempi mai visti di scherzo che si fa letteratura.

Ricordare questo episodio significa mettere in luce doverosamente la personalità inquieta e bizzarra di chi ne fu artefice, uno dei meno conosciuti scrittori spagnoli del Novecento, un grande talento non nuovo a colpi di genio. Un autore che potrebbe convenire leggere e conoscere meglio.

La prima particolarità biografica di Max Aub poteva già ricollegarsi alla sua nascita, avvenuta a Parigi nel 1906: era figlio di padre tedesco e di madre francese, di due paesi, cioè, divisi all’epoca da una spiccata rivalità, una tensione che non per caso pochi anni dopo li vedrà contrapposti nel Primo Conflitto Mondiale.
Proprio nell’anno dello scoppio della guerra, il 1914, la famiglia Aub si trasferì in Spagna, a Valencia, decidendo successivamente di prendere la cittadinanza iberica.
Nel 1927 Max si laureò in letteratura europea e tra il 1935 e il 1936 diresse il teatro universitario “El búho” (Il gufo), distinguendosi tra i giovani scrittori che vennero accostati alla “Revista de Occidente” di José Ortega y Gasset.

Allo scoppio della guerra civile spagnola, Aub si schierò decisamente con i repubblicani, collaborando anche con André Malraux alla sceneggiatura del film “Sierra de Teruel”, che venne distribuito clandestinamente nel 1938.
Nel 1937 era stato nominato addetto culturale presso l’Ambasciata spagnola a Parigi. Già sotto la lente del regime spagnolo per le sue idee socialiste, venne arrestato nel 1939 con l’accusa di comunismo e messo in un campo di concentramento.
Sicuramente anche il fatto di aver scritto in pieno franchismo un racconto dal titolo: “La vera storia della morte del generale Franco” non aveva contribuito ad alleggerire la sua posizione agli occhi delle autorità.
Nel 1942, dopo tre anni di prigionia, riuscì fortunosamente ad evadere, rifugiandosi in Messico. Nel paese di adozione diede inizio ad una densissima attività di scrittore occupandosi anche di teatro e di cinema.

Il Passaporto di Max Aub


Fu estremamente prolifico: ad opere di grande serietà ed impegno affiancò sempre una brillante produzione umoristica e satirica, che in più di un caso si spinse fino al falso letterario, alla burla dotta.
Nella prima tipologia di scritti, quella che definiremmo “seria”, rientrano senz’altro i romanzi imperniati sulla guerra civile spagnola, riuniti sotto il titolo “Labirinto magico”, alcuni libri sulla vita e sul costume madrileno ed il dramma teatrale “San Juan”, che rievocava la terribile odissea di quella nave carica di ebrei che in fuga dalla Germania nazista nessuna nazione volle accogliere.
Vagò quindi di porto in porto, di speranza in speranza, fino a che non venne riportata indietro, da dove era salpata, consegnando quei poveretti ad un destino fatale.

Alla produzione di Aub destinata al divertimento invece, oltre a Jusep Torres Campalans, appartengono senza dubbio l’Antologia, completamente simulata, di poeti e scrittori stranieri da lui tradotti e commentati e soprattutto “Delitti esemplari”, una raccolta di false confessioni di crimini, esempi di un esilarante umorismo nero. Uno dietro l’altro, i colpevoli raccontano i propri delitti, azioni dai moventi disparatissimi che stanno a dimostrare l’estrema fragilità dei nostri freni inibitori, pronti a saltare in aria per qualsiasi motivo che sia in grado di stuzzicare la fulminea reattività delle nostre patologie psichiche latenti.
Dal complesso di tutte le opere umoristiche di Aub emerge una specie di allergia a qualsiasi forma di società, una sorta di anarchia veicolata dalla risata, un sentimento che è difficile non accostare alla sua natura di esiliato, di persona senza fissa patria.

“Signos de ortografía” 1968 breve opera tra aforismi e grafica, mai tradotta in italiano

Lo scrittore morì a Città del Messico nel luglio del 1972.

In Italia “Jusep Torres Campalans” e “Delitti esemplari” sono stati pubblicati da Sellerio, il dramma “San Juan” da Einaudi.


Da “Delitti Esemplari”:

Meglio morta – mi disse. E l’unica cosa che desideravo era di darle soddisfazione!

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Era scemo. Gli spiegai e rispiegai tre volte la strada da fare, in modo chiarissimo. Era molto semplice, non aveva che da attraversare il Viale della Riforma all’altezza della quinta traversa.
E tutte e tre le volte si confuse nel ripetere la spiegazione. Gli feci una piantina perfetta. Restò là a guardarmi con aria interrogativa: – E poi… Oddio, non ho capito.
E si strinse nelle spalle. C’era da ammazzarlo. E io lo feci. Se mi dispiace o no è un’altra faccenda.

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Lo uccisi perché era idiota, perfido, scemo, tardo, stupido, mentecatto, ipocrita, ignorante, burino, buffone, gesuita, a scelta. Una cosa si accetta, due no.

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Parlava, parlava, parlava, parlava e parlava e parlava. E seguitava a parlare. In casa mia la padrona sono io. Ma quella domestica grassa non faceva che parlare, parlare ed ancora parlare.
Dovunque io fossi, quella arrivava e cominciava a parlare. Parlava di tutto, di qualsiasi cosa, per lei era lo stesso. Licenziarla per questo? Avrei dovuto darle i suoi tre mesi di paga.
Inoltre sarebbe stata capacissima di buttarmi addosso il malocchio. Veniva persino in bagno: e questo e quest’altro, e quest’altro ancora.
Le ficcai un asciugamano in bocca perché la smettesse. Non morì mica per questo, ma perché non riusciva più a parlare. Le scoppiarono le parole dentro.

Piermario De Dominicis, appassionato lettore, scoprendosi masochista in tenera età, fece di conseguenza la scelta di praticare uno sport che in Italia è considerato estremo, (altro che Messner!): fare il libraio.
Per oltre trent’anni, lasciato in pace, per compassione, perfino dalle forze dell’ordine, ha spacciato libri apertamente, senza timore di un arresto che pareva sempre imminente.
Ha contemporaneamente coltivato la comune passione per lo scrivere, da noi praticatissima e, curiosamente, mai associata a quella del leggere.
Collezionista incallito di passioni, si è dato a coltivare attivamente anche quella per la musica.
Membro fondatore dei Folkroad, dal 1990, con questa band porta avanti, ovunque si possa, il mestiere di chitarrista e cantante, nel corso di una lunga storia che ha riservato anche inaspettate soddisfazioni, come quella di collaborare con Martin Scorsese.
Sempre più avulso dalla realtà contemporanea, ha poi fondato, con altri sognatori incalliti, la rivista culturale Latina Città Aperta, convinto, con E.A. Poe che:
“Chi sogna di giorno vede cose che non vede chi sogna di notte”.

  

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