Domenica di lavoro per Lallo Tarallo.
Un sole giugnesco segnalava l’ennesima manifestazione di dilettantismo autunnale in tempi di riscaldamento globale.
Dentro e fuori la redazione del Fogliaccio la gente viveva come sospesa tra due stagioni, entrambe riottose, indecise, e se non poteva disfarsi dei vestiti leggeri dell’estate per via del caldo persistente, contemporaneamente teneva a portata di mano abiti un po’ più pesanti: non si sa mai, in mezzo istante tutto può cambiare.
Le stesse zone verdi, i giardini e i prati, luoghi che abbondavano in città, sembravano vivere qualche difficoltà: le piante, pur perplesse, continuavano a produrre fioriture tardive, gli arbusti simulavano come sempre indifferenza, e gli alberi si consultavano sul da farsi.
La maggioranza di loro per il momento non aveva ritenuto opportuno privarsi di tutte le foglie, concedendone solo alcune all’ingiallimento ed al terreno, e se lo facevano, era solo così, per decenza formale.
Tarallo, confinato nella sua miniscrivania a ridosso della toilette piccola, quella riservata ai redattori, lavorava, sbuffando di noia, ad un’inchiesta che Frangiflutti gli aveva commissionato: roba di scottante attualità, gli aveva detto affidandogliela.
Si trattava, secondo lui, di far emergere un fenomeno socialmente rilevante, quasi un’epidemia le cui proporzioni non erano ancora state sondate a dovere: la febbre del burraco.
Tutti, in città, come ovunque nel mondo cristiano, avevano scoperto il burraco, tutti ci giocavano nelle case, negli hotel, nei loculi del cimitero e nelle cantine, tutti parlavano continuamente del burraco e tutti partecipavano a tornei di quel gioco, molti dei quali clandestini.
“Capisce Tarallo? C’è un mondo imburrachito che non aspetta altro che di essere raccontato!”, diceva il capo con un’enfasi che solitamente non gli apparteneva.
Lallo, che da sempre riteneva noiosissimi i giochi di carte e che per questo non riusciva a calarsi nei panni di chi ne ricava emozioni forti, o addirittura letali, provò a scaricare l’incombenza di quel lavoro sul collega Taruffi, che, stagnante come una muffa tossica, occupava la scrivania più prossima alla sua.
Il vantaggio sarebbe stato duplice per Tarallo: non avrebbe sprecato tempo dietro ad un argomento che riteneva più insipido della Pausini e, sopratutto, si sarebbe liberato per un po’ dell’oppressione olfattiva generata da Taruffi, l’uomo più sgradevolmente odoroso dell’emisfero.
Aruspico, quello che si occupava degli articoli finanziari, gli aveva detto una volta che durante una gita in montagna fatta insieme, aveva visto un caprone, avanti con gli anni e aromaticissimo, fuggire, rapido come il vento tenendosi uno zoccolo premuto sulle narici per non dover annusare l’aria taruffata.
Tarallo aveva in cambio proposto a Frangiflutti, tornato Direttore Unico, di fare un’intervista con Artemio Pozzanghera, ex dirigente di una importante azienda di smaltimento rifiuti, che, pentito dei traffici illeciti e pericolosi ai quali aveva preso parte, era diventato collaboratore di giustizia.
Pochissimi, e Tarallo era tra questi, erano al corrente della nuova identità di quel poveretto, che all’epoca del suo ravvedimento aveva collezionato più minacce che respiri.
Lallo non ne aveva fatto cenno col Direttore per proteggere quell’uomo e tenere coperte le sue fonti di informazione, ma sapeva che Pozzanghera, viveva da tempo nell’Eremo di S. Onofrio a Sulmona.
Aveva assunto il nome di Frate Pozzanghera, pseudonimo più che inappropriato consigliatogli da un loschissimo funzionario dei Servizi Segreti.
In virtù di questa ambigua imbeccata, l’uomo, nonostante la protezione, e a causa di quell’insufficiente cambio di identità, viveva in una situazione non meno precaria di quella precedente, e solo la sua incredibile buonasorte lo aveva preservato dal soccombere ad una serie spettacolare e fantasiosissima di attentati, tiri dei quali, distratto com’era, non si era nemmeno accorto.
Nella sua nuova vita da pentito Pozzanghera, fratizzato dalle circostanze, ogni giorno assisteva i fedeli che giungevano all’eremo, nel rito della litoterapia, aiutandoli a percorrere strisciando lo strettissimo cunicolo che portava alla nicchia miracolosa, la cavità di pietra scacciartriti nella quale si dovevano accovacciare, traendone immensi benefici.
Frangiflutti non si era lasciato incantare dalla richiesta di Tarallo e seccamente lo aveva confermato quale titolare dell’inchiesta sulla burracomania.
Lallo si era messo in moto sbuffando e per prima cosa aveva chiamato Abdhulafiah, che nel suo inesauribile giro di consulenze curava anche gli affari di moltissimi clienti del tutto persi nel tunnel del burraco.
Si erano incontrati in una pasticceria del centro perché Abdhul, avendo dato al proprietario, Giacomo Bistrot, una dritta dalla precisione acuminata, sulle prospettive delle Zerosfiatix Privilegiate, azioni di una società farmaceutica liberiana quotata a Wall Street, si era guadagnato un credito illimitato in meringhe da sfruttare in quel negozio.
“Lallo, c’è poco da prenderla sottogamba – esordì l’amico – il sottobosco dei burrachisti è qualcosa di tremendo, un ambiente da prendere semmai con le molle.
Fanatici monomaniaci di entrambi i sessi finiscono in quell’imbuto di carte, perdendo interesse per ogni cosa il cui nome non inizi per B e finisca con “urraco” e vanno infine a formare delle sottospecie di sette.
Si frequentano solo tra adepti, si spostano a turno nelle loro varie case fiocamente illuminate, ridotte ormai a quella che per loro è l’essenza del mondo: un tavolo di gioco assediato da materassi, vestiti arruffati, avanzi di cucina e da enormi cumuli di altri oggetti di uso quotidiano in orrendo disordine.
Giocano forte, non c’è da scherzarci su: sgranocchiano distratti delle insalate di pollo freddo, tartine impolverate e vecchie torte di supermercato, bevendo liquori e liquorini a litri, con la stessa naturalezza con cui noi beviamo latte e menta o malediciamo Jovanotti.
E, sai Lallo, il giro aumenta, cresce vertiginosamente: tornei clandestini, con ragguardevoli montepremi in denaro, si svolgono ormai un po’ dappertutto.
Ci cadono dentro soprattutto mogli di imprenditori e di professionisti, qualcuno dei mariti e qualche dirigente di azienda in cerca di fauna femminile.
Ora però il contagio comincia ad estendersi ad altre categorie sociali: due giorni fa un tornitore disoccupato, la cui signora, che senz’altro lo sopravvalutava, lo sospettava di avere una relazione con Angelina Jolie, è stato costretto a confessare di essere nel burraco fino al collo e di aver perso giocando l’intero reddito di cittadinanza.
“Non so come dirlo a mia moglie e a Di Maio”, continuava a ripetere disperato.
La mania, come ti dicevo, è equamente ripartita tra i sessi.
Sere fa la polizia ha beccato trenta casalinghe albine che si burrachizzavano come tossiche nello stanzone per la pastorizzazione della fabbrica di birra del marito di una di loro, un tizio mezzo sordo che non aveva mai sospettato niente.
Il mio amico Terruzzi, un vicecommissario che su mio consiglio ha investito in Buoni del Tesoro del Burkina Faso, mi ha raccontato che lo spettacolo che gli si è presentato agli occhi era terribile: quelle donne non si sono neanche accorte della loro irruzione: continuavano a sorridere inespressive, pescando carte in continuazione e sbocconcellando tramezzini al tonno e calcestruzzo…”.
Tra i due amici si fece un silenzio denso di pensieri.
Lallo immaginò che Frangiflutti, quando gli aveva dato quell’incarico, lo avesse fatto solo per bloccarlo, che credesse la burracomania un fenomeno folkloristico, transitorio ed innocuo, senza immaginare nemmeno lontanamente che avesse quella tremenda valenza tossica, contagiosa.
Mentre Tarallo e Abdhulafiah erano intenti a parlare fitto fitto, a distanza di diversi isolati, nella redazione rimasta deserta, il Direttore in persona si avvicinò alla scrivania di Lallo.
Cercava qualcosa che infine individuò: trovò alcuni appunti di Lallo, preparatori dell’inchiesta sullo smaltimento dei rifiuti.
In uno di questi fogli, una scritta dalla calligrafia negligente ma leggibile, indicava l’indirizzo e la nuova identità dell’ex dirigente di una società per lo smaltimento dei rifiuti, il pentito Pozzanghera.
Il Direttore, che a quella società era legato a doppio filo, impresse quell’appunto nella memoria.
Due giorni dopo Frate Pozzanghera ricevette un pacco dono da falsi parenti.
Conteneva un parrozzo, il dolce tipico abruzzese, confezionato apparentemente da una nota pasticceria di Sulmona.
Profondamente convertito alla fratellanza monastica il pentito, a sua volta ne fece dono ai confratelli, compiacendosi del gusto col quale essi lo divorarono.
Qualche ora dopo un allibito primario del reparto di Tossicologia dell’Università de L’Aquila, osservava con il suo assistente che, prima di quel giorno, mai in un ospedale italiano si era visto il ricovero contemporaneo di quindici frati intossicati da un parrozzo velenoso.
Il sedicente Frate Pozzanghera che non ne aveva assaggiato nemmeno un pezzetto, ignaro di tutto, si sdraiò soddisfatto nella nicchia miracolosa dell’Eremo di S. Onofrio: i suoi reumatismi regredivano di giorno in giorno.
Lallo Tarallo, giovane sin dalla nascita, è giornalista maltollerato in un quotidiano di provincia.
Vorrebbe occuparsi di inchieste d’assalto, di scandali finanziari, politici o ambientali, ma viene puntualmente frustrato in queste nobili pulsioni dal mellifluo e compromesso Direttore del giornale, Ognissanti Frangiflutti, che non lo licenzia solo perché il cronista ha, o fa credere di avere, uno zio piduista.
Attorno a Tarallo si è creato nel tempo un circolo assai eterogeneo di esseri grosso modo umani, che vanno dal maleodorante collega Taruffi, con la bella sorella Trudy, al miliardario intollerantissimo Omar Tressette; dall’illustre psicologo Prof. Cervellenstein, analista un po’ di tutti, all’immigrato Abdhulafiah, che fa il consulente finanziario in un parcheggio; dall’eclettico falsario Afid alla Signora Cleofe, segretaria, anziana e sexy, del Professore.
Tarallo è stato inoltre lo scopritore di eventi, tra il sensazionale e lo scandaloso, legati ad una poltrona, la Onyric, in grado di trasportare i sogni nella realtà, facendo luce sulla storia, purtroppo non raccontabile, di prelati lussuriosi e di santi che in un paesino di collina, si staccavano dai quadri in cui erano ritratti, finendo col far danni nel nostro mondo. Da quella faccenda gli è rimasta una sincera amicizia col sagrestano del luogo, Donaldo Ducco, custode della poltrona, di cui fa ampio abuso, intrecciando relazioni amorose con celebri protagoniste della storia e dello spettacolo.
Il giornalista, infine,è legato da fortissimo amore a Consuelo, fotografa professionista, una donna la cui prodigiosa bellezza riesce ad influire sulla materia circostante, modificandola.
Lallo Tarallo è un personaggio nato dalla fantasia di Piermario De Dominicis, per certi aspetti rappresenta un suo alter ego con cui si è divertito a raccontarci le più assurde disavventure in un mondo popolato da personaggi immaginari, caricaturali e stravaganti