Si dice che i cani, ma qualcuno parla anche di altre bestiole, ricomprendendo nel novero perfino le poco perspicaci galline, avvertano l’avvicinarsi dei terremoti, manifestando segni di particolare eccitazione e nervosismo nel caso in cui ne sentano arrivare uno buono, di scrollone.
In generale tutte le creature viventi, che ne abbiano o meno coscienza, mostrano di percepire certi segnali della natura, come, ad esempio, il mutare delle stagioni, e reagiscono di conseguenza.
Con l’arrivo della primavera, è faccenda nota, in tutti gli animali del pianeta, con l’eccezione di Giovanni Lindo Ferretti, si desta lo spirito vitale, premessa indispensabile per la loro perpetuazione.
Anche gli ornitorinchi, dei piccoletti tutto pelo, coda e becco, avvertiti dai sensi dell’arrivo della bella stagione, si fanno improvvisamente languidi.
Prendono a scoccare lunghi sguardi, intensi ed allusivi, alle loro femmine, che, turbate, sotto la fascinazione di quegli occhietti vogliosi, sentono di colpo forte la voglia di avventure eccitanti e quella, conseguente, di accasarsi, farsi un nido e sfornare mucchi di graziosi ovetti.
Non so quali imbellettamenti adottino le graziose pelosette beccute per adescare dei soggetti già così ben disposti: non è una mia lacuna, perché sulla cosmetica ornitorinchica non sono stati effettuati finora studi approfonditi.
Giusto il Professor Heathcliff Nibelunghen, Ordinario di Pinnipedia Romanza presso L’Ateneo di Vaduz, al termine di una bicchierata coi colleghi, un giorno aveva buttato lì un’osservazione sul fatto che qualunque possa essere il belletto usato dalle ornitorinche per destare l’attenzione dei maschi, questo debba essere necessariamente roba buona, magari anche costosa, non importa, in quanto dei prodotti scadenti non durerebbero molto in acqua, elemento caro a quegli animaletti, particolari al punto che, pur essendo mammiferi, depongono le uova.
Tra tutti gli esseri viventi, gli umani sono gli unici ad aver introdotto una nota romantica nelle faccende biologiche: l’innamoramento, il gradimento amoroso, sono stati psicologici che hanno favorito il consolidamento di un gran volume di indotto, fatto di cose e di comportamenti sconosciuti agli ornitorinchi.
Il corteggiamento nell’essere umano è qualcosa di complesso: non te la cavi con una danza rituale o mettendoti addosso cose molto colorate.
Sì, è vero che c’è gente che la sfanga con una atroce serata di ballo cubano, ma di solito per questa via ci si procura solo un semplice accoppiamento senza molto futuro, senza che si instauri l’estasi d’amore.
Anche sul colorarsi, poi, non si può esagerare indossando capi dai colori troppo vistosi, senza essere tacciati di pacchianeria, ben lo testimoniano certe camicie finto hawaiane che infestano le balere.
Si dovrebbe, semmai, prendere esempio dallo Svasso maggiore, la cui livrea nuziale si basa su tinte molto sobrie, un panna e cioccolato, diremmo, che risulta piuttosto elegante, tant’è che le svasse ne vanno pazze.
Al contrario dello Svasso maggiore, noi, una volta che ci siamo dati quello che reputiamo un adeguato tono formale, mettendoci “in livrea” da acchiappo, in realtà non siamo neanche alla metà dell’opera: per conquistare la donna prescelta occorrono infatti anche poesia, fantasia e anelli, ovvero degli articoli che il resto del mondo animale ignora.
Il solo anello che si veda circolare tra gli Svassi o tra altri volatili, è, infatti, quello di riconoscimento che a volte gli ornitologi gli piazzano intorno alla zampa.
Quando questo accade, tra l’altro, i pennuti, lungi dall’emozionarsi come fanno le ragazze quando li ricevono, insultano chi glielo infila l’anello, e gracchiando forte tentano di prenderlo a beccate.
Penso poi che non si possa essere smentiti se affermiamo che mai nessuno ha avuto modo di leggere una poesia d’amore dedicata ad una svassa o ad una ornitorinca dal loro compagno: anche questo segna una linea di demarcazione netta tra il loro ed il nostro risvegliarci alla vita, quando ci immettiamo nelle stagioni dolci.
Per tornare, tuttavia, alle nostre abituali faccende, un simile risveglio dei sensi lo stava vivendo il signore assoluto della redazione del Fogliaccio Quotidiano, il Direttore Ognissanti Frangiflutti.
Naturalmente essendo egli un soggetto a sangue di diversi gradi più freddo di quello di un crotalo, di una vipera cornuta, e, tanto meno, di quello di un ornitorinco, la sua agitazione di tarda primavera, non prendeva mai la strada del romanticismo.
Gliene mancava il temperamento.
Le sue avventure sentimentali, non avendo lui gran talento per il corteggiamento, e non essendo oberato dal peso di un solo grammo di fascino, erano di norma regolate da tabelle prestabilite, sempre le stesse, un po’ logore.
Due o tre inviti a cena in ristoranti che facessero sufficientemente colpo, erano considerati l’investimento minimo necessario a sbrigare la pratica, sforzo corroborato anche dalla esibizione della sua vicinanza ai salotti buoni della città, gli acquari in cui nuotavano i più emeriti tra i farabutti di zona, gli squali della società.
Ben altro appeal ai suoi occhi aveva l’unico appuntamento che faceva davvero vibrare la sua natura anaffettiva: quello dell’avvicinamento al voto.
Quando iniziava una campagna elettorale, Frangiflutti mutava quasi fisicamente sotto la spinta di una titanica pulsione orgasmica, che gli tirava fuori proprio quello che gli era ignoto in altri campi, come spesso lamentavano le poverette che avevano avuto a che fare con lui.
Tarallo aveva assistito varie volte all’impressionante fenomeno: pur essendo il Direttore impegnato col suo Fogliaccio in una perpetua campagna elettorale strisciante, le elezioni, soprattutto quelle amministrative cittadine, quando davvero si facevano vicine, avevano su Frangiflutti un effetto strabiliante.
Era roba da fare impallidire la danza del ragno pavone, la livrea dello svasso maggiore o i languori degli ornitorinchi: Lallo, guardando il Direttore sotto elezioni, era sempre sul punto di avvertire David Attemborough e gli altri documentaristi della B.B.C.!
Frangiflutti pareva il Dottor Jekyll: si irrobustiva, gli si ingrossava la giacca, millantando spalle improvvisamente più larghe; gli spuntava dal taschino la puntina di un fazzoletto dal candore abbacinante ed i capelli, che di solito ricadevano grigi, lisci ed inerti, come spaghettini scotti, ai lati del volto piccolo e tondo, gli si ingrillavano più vaporosi e il loro colore, di norma smorto, virava verso un allegro tono sale e pepe.
Anche il suo piglio, normalmente pencolante tra l’autoritario ed il mellifluo, andava facendosi più sgradevole, ne erano testimoni i redattori: cessava per loro ogni possibile autonomia giornalistica, mentre si infittivano i contatti e gli incontri del Direttore con personaggi di quel mondo sfumato che viveva della mediazione con la politica, fatto di gente in grado di surclassare una lumaca gigante per produzione di materiali bavosi.
Inutile dire che l’equilibrio della linea editoriale del Fogliaccio, solitamente già piuttosto malconcio, più affettato che praticato, nel periodo elettorale andava definitivamente in pezzi.
Se Frangiflutti nel corso di una consiliatura si barcamenava, appoggiando di volta in volta chi tra i furfanti della politica, gli pareva al momento prevalente, quando la campana suonava, si schierava quasi sconsideratamente con chi si annunciava vincitore e che gli prometteva di più, ovvero le peggiori carogne dello schieramento conservatore.
Erano soggetti che più che dei politici avrebbero potuto essere definiti meglio quali “commensali”: erano infatti il terminale, periferico ed insaziabile, di forze più potenti ed occulte, incarnate da personaggi che il Direttore di rado frequentava di persona, ma dei quali avvertiva costante la pressione, come un perpetuo memento, un fiatargli dietro che in qualsiasi stagione gli riscaldava le spalle.
Eppure perfino Ognissanti Frangiflutti, che al di là delle apparenze sempre più striminzite, ora si schierava con il panorama politico più reazionario, in gioventù era stato colpito anche lui dalla stessa febbre rivoluzionaria di tanti.
Verso i vent’anni, infatti, soffrì di una sciagurata infatuazione idealistica che mal conciliandosi con il suo esprit de revanche sociale, gli durò una trentina di secondi in tutto, trascorsi i quali il ragazzo, archiviata con sollievo l’impossibile rivoluzione, fece un gran bagno di realismo, senza usare, tuttavia, troppo sapone.
Si sfilò dunque gli scomodissimi zoccoli olandesi, mise via eskimo e tascapane in cuoio, e si tuffò alla corte di un potente mentore, nientemeno che “il bancarottiere senza collo” Peppe Cicciafico, allora proprietario di cliniche e giornali, a dimostrazione che la salute fisica non sempre si accompagna a quella morale.
Il futuro Direttore doveva tutto a quell’uomo tozzo e testardo, fatto di pragmatismo, ma anche di nostalgismo littorio, un capo che vedeva in una bella porzione di pajata, l’unità di misura delle inclinazioni umane:
“Si nun se magna ‘a pajata, ar novanta per cento, è un comunista, Frangiflù, tiettelo pe’ certo!”.
Ogni tanto, soprattutto nei momenti difficili della quarantena, Ognissanti era stato visitato da quei ricordi lontani, ci si era perso dentro, incantandosi.
In redazione quei giorni, più che dal ricordo recente del virus che aveva tenuto a casa tutti i giornalisti, tranne Tarallo e Taruffi, erano agitati dall’incipiente frenesia elettorale del Direttore, che era percorso da una strana vivacità.
Accantonando il preteso aplomb, che nella realtà si confondeva con la sua innata mellifluità, pareva più vitale che mai, rinvigorito.
In quel periodo, tra l’altro, erano ricominciate le interrogazioni settimanali della Proprietà, dei test nel corso dei quali Ognissanti Frangiflutti doveva rispondere a quesiti basati sulla sua conoscenza perfetta degli articoli de “Il Coraggio del Rifiuto”, la rivista ufficiale dei gestori di discariche.
Erano una sorta di esercizi spirituali, volti a far sì che la coscienza degli obiettivi e la sua fede nella missione politica del giornale, si rafforzassero.
Lui era molto ben messo.
L’aria delle elezioni gli faceva bene.
Le narici gli vibravano come pale di ventilatore e sentendosi in gran forma, non si spaventava per quelle domande difficilissime, come pure gli era capitato in passato: al contrario, le imbroccava tutte.
Sgargarozzi, appena rientrato, finalmente negativo, dall’isolamento casalingo, aveva subito messo in giro la voce che durante l’ultima interrogazione, il Direttore avesse steso il portavoce della Proprietà, Dimitrios Svanzica, azzeccando una risposta da pazzi su quanto costasse in rubli russi la loro rivista, “Il coraggio del rifiuto”, se venduta nelle edicole di Sukhumi, capitale della Abcasia, una repubblica autonoma della Georgia, riconosciuta solo da quattro stati membri dell’Onu.
Senza nemmeno pensarci Frangiflutti aveva sparato: “Sette rubli e sedici copechi!”.
Fenomenale: era proprio così!!
Col vento in poppa, quindi, aveva ripreso a martoriare quotidianamente i nemici politici della Proprietà con trucchi giornalistici di tale bassezza da suscitare l’entusiasmo dei membri del suo Consiglio di Amministrazione, gente che si era impossessata di tutti e tre i gradini del podio, alle recenti Olimpiadi della Meschinità di Kuala Lampur.
L’aria in redazione si era fatta così pestilenziale da infastidire perfino l’aromaticissimo Taruffi che insieme con Tarallo aveva sentito il bisogno di un break.
Entrambi, quindi, avevano chiesto qualche giorno di ferie ad un Frangiflutti felicissimo di levarseli dai piedi, approfittando di un invito del Professor Cervellenstein per un weekend marinaro da trascorrersi sulla sua nuova e comodissima barca, “Il complesso di Edipo”.
“Sì Lallo – si sfogò Taruffi, sollevato – scappiamocene: per quanto io possa essere poco pulito fuori, rispetto al direttore, dentro sono un albino! E grazie, grazie mille per l’invito”.
Lallo, in accordo con l’illustre Psicologo, aveva esteso l’invito ricevuto ad Abdhulafiah, a Taruffi e a sua sorella Trudy, permettendo così al suo amico consulente di rincontrare la donna dei suoi sogni.
Si ritrovarono così tutti all’imbarco, nel porticciolo di… , in un’atmosfera festosa.
Consuelo da sola rispondeva da par suo allo splendore del sole, abbacinandolo; Cervellenstein, che si era presentato avvinghiato a Pandora, una matura commercialista creola, pareva raggiante: non vedeva l’ora di inaugurare “Il complesso di Edipo”.
Mancavano ancora i due Taruffi:
Arrivarono circa venti minuti dopo gli altri.
Marzio, trafelato per il ritardo, spiegò che era stato causato dalla sua ricerca di qualcosa di adatto da mettersi addosso.
Così com’era apparso, con la maglietta dei Tarantolati di Tricarico e un paio di calzoncini fantasia, era sensazionale: uno spettacolo inaspettato che impegnò gli occhi e mise alla frusta le narici dei turisti presenti.
Quando infine Abdhulafiah si accorse della presenza di Trudy, più algida e meravigliosa che mai, spalancò la bocca più volte a vuoto, come un pescione palla, mancò con un piede l’asse di imbarco e finì in mare, tra l’agitarsi frenetico di tanti suoi piccoli colleghi.
Lallo Tarallo, giovane sin dalla nascita, è giornalista maltollerato in un quotidiano di provincia.
Vorrebbe occuparsi di inchieste d’assalto, di scandali finanziari, politici o ambientali, ma viene puntualmente frustrato in queste nobili pulsioni dal mellifluo e compromesso Direttore del giornale, Ognissanti Frangiflutti, che non lo licenzia solo perché il cronista ha, o fa credere di avere, uno zio piduista.
Attorno a Tarallo si è creato nel tempo un circolo assai eterogeneo di esseri grosso modo umani, che vanno dal maleodorante collega Taruffi, con la bella sorella Trudy, al miliardario intollerantissimo Omar Tressette; dall’illustre psicologo Prof. Cervellenstein, analista un po’ di tutti, all’immigrato Abdhulafiah, che fa il consulente finanziario in un parcheggio; dall’eclettico falsario Afid alla Signora Cleofe, segretaria, anziana e sexy, del Professore.
Tarallo è stato inoltre lo scopritore di eventi, tra il sensazionale e lo scandaloso, legati ad una poltrona, la Onyric, in grado di trasportare i sogni nella realtà, facendo luce sulla storia, purtroppo non raccontabile, di prelati lussuriosi e di santi che in un paesino di collina, si staccavano dai quadri in cui erano ritratti, finendo col far danni nel nostro mondo. Da quella faccenda gli è rimasta una sincera amicizia col sagrestano del luogo, Donaldo Ducco, custode della poltrona, di cui fa ampio abuso, intrecciando relazioni amorose con celebri protagoniste della storia e dello spettacolo.
Il giornalista, infine,è legato da fortissimo amore a Consuelo, fotografa professionista, una donna la cui prodigiosa bellezza riesce ad influire sulla materia circostante, modificandola.
Lallo Tarallo è un personaggio nato dalla fantasia di Piermario De Dominicis, per certi aspetti rappresenta un suo alter ego con cui si è divertito a raccontarci le più assurde disavventure in un mondo popolato da personaggi immaginari, caricaturali e stravaganti