Una breve premessa: si è letto in questi giorni sui giornali di un intervento residenziale di 600 persone a Pantanaccio, un quartiere di Latina, contro cui sarebbero insorti i residenti. Le informazioni sono ancora approssimative e non sappiamo se il caso sia assimilabile a quelli imperniati sullo scontro noi/loro.
Supponiamo che lo sia.
Questo ci permetterebbe di sviluppare una riflessione sulla necessità di una rigenerazione urbana che riduca il gap qualitativo fra centro e periferie. Anche alla luce della recente pandemia, che ha fatto emergere la necessità di un abitare diffuso e il più possibile di qualità.
Dunque non più un centro, più o meno storico, quale unico riferimento di interventi architettonici, di mobilità sostenibile e altro.
La sindaca di Parigi, Anne Hidalgo ha lanciato lo slogan “la città dei 15 minuti”: quelli necessari ad ogni cittadino per raggiungere a piedi o in bicicletta i servizi necessari per mangiare, divertirsi, studiare e lavorare.
In questa ottica, ogni caso di qualificazione di una zona degradata diventa emblematico anche per chi intende amministrare, perché si riesce a bene amministrare solo se si rappresenta.
Lo scontro noi/loro avviene sempre in nome di conservazione di un’identità sociologica, per la quale ogni modifica dello statu quo non è accettata.
Sono comportamenti che si tende, spesso, a sottovalutare
“cosa c’è da conservare di questi luoghi più o meno degradati?”
E’ un atteggiamento sbagliato perché non considera che quei luoghi abitativi sono, per molti, l’ultimo involucro che li faccia distinguere.
Lo dimostrano bene le recenti esperienze di alcune borgate romane: più forte è il degrado, più s’innalzano muri.
La miccia che innesca l’incendio è sempre la stessa: l’ingresso di ceti ancora più emarginati che andrebbero a gravare su servizi già insufficienti.
Ma forse c’è dell’altro.
Il nascere, il vivere per tanti anni in una zona crea un comune sentire, una memoria, una nostalgia che diventa parte del proprio patrimonio identitario.
Un romano non si meraviglia espressioni orgogliose del tipo “so’ della borgata xxx”. Sembra la rievocazione dell’antico civis romanus sum, una distinzione da tutelare di fronte al pericolo dell’omogeneizzazione.
D’altra parte, come guardare con occhio critico queste esaltazioni quando l’attuale modello economico ha bloccato le aspirazioni per un cambio di status sociale? Perchè stupirsi o peggio denigrare chi si abbarbica intorno al poco che ha, la cui condivisione crea il branco che protegge?
E il problema non si risolve accusando di razzismo i residenti e magnificando il modello comunitario. Un approccio, quest’ultimo, che inasprisce odi e genera solo più rabbia, alimentando risentimenti che qualche forza politica usa per accreditarsi come amica del popolo contro il falso nemico del radical chic.
Di un altro modo di affrontare il problema parla il libro che hanno scritto Fabrizio Barca e Patrizia Luongo: “Un futuro più giusto”, che suggerisce le coordinate generali per intervenire nei luoghi più lontani dalla zona ZTL.
Gli autori indicano due direttrici per progettare un riequilibrio della qualità dell’abitare su tutto il territorio urbano: il trasferimento dei poteri e l’accesso ai saperi. E individuano negli architetti gli artefici della progettualità della rigenerazione delle periferie.
Per gli autori sarebbe necessario, per prima cosa, mettere a disposizione dei residenti le competenze pubbliche, accademiche, imprenditoriali. Condizione necessaria per creare un rapporto paritario fra programmazione generale e locale.
I saperi locali sono sicuramente meno tecnici, ma sta al progettista saper farli emergere e dar loro forma di proposta fattiva (non a caso, per tornare al libro, Barca e Luongo parlano del progettista, l’architetto, come di uno sviluppatore locale).
Da questa impostazione discende l’altra direttrice dell’intervento, ovvero l’accesso alla conoscenza, che pone l’istruzione come tema fondamentale, il cui fine non deve essere solo la riduzione della dispersione scolastica, ma anche quella della povertà educativa. Carenza, quest’ultima, che ‘marchia’ la zona e induce all’emigrazione verso altri quartieri o verso altre città per frequentare l’Università.
È questa, la riqualificazione dell’istruzione e dell’educazione, una battaglia che la scuola non può vincere da sola, come il nostro Comune ha ben compreso.
Non soltanto le famiglie, ma le associazioni, le forze di sicurezza, le imprese economiche del posto, insomma tutte le forze attive sul territorio devono concorrere a creare una scuola d’eccellenza. Una scuola che sappia recuperare il divario con altre scuole primarie e così per gli altri ordini di scuola e formazione.
Un’opera, questo lavoro di decentramento della qualità, da affidare appunto a uno sviluppatore locale, quale un architetto, che possa prendersi cura del paesaggio e dare “senso e qualità estetica e funzionale agli edifici”.
Serve un architetto per capire cosa si può fare in un territorio, di cosa esso necessiti.
Il loro compito è quello di attivare processi partecipativi che non si riducano solo ad un questionario da trasformare in un dato da interpretare.
E’ necessario un confronto continuo che consenta l’emersione delle istanze più profonde.
Marcello Ciccarelli, in pensione, attivo solo cerebralmente. Una volta docente e amministratore. Ancora appassionato di matematica e politica.