Dopo che Proto, sorprendente fantino, ebbe pronunciato in sardo antico, quelle strane frasi di argomento ippico, ci fu un momento di generale paralisi. Un silenzio straniato si impose su tutti, perfino sulla ultraloquace Evita.
Nessuno dei taralliani si era mai trovato in una situazione simile: avere dinanzi un santo martire del 300 d.c., scappato da una tela dipinta e rifugiatosi in casa di una specie di diossina umana, che, vestito da fantino, si occupava di un grosso cavallo imprigionato in un cortile così piccolo da renderlo privo di vie di fuga.
No, decisamente quella storia non era una cosa che potesse accadere tutti i giorni!
E, non bastando questa collezione di assurdità, il tizio dipinto parlava di cavalli in sardo antico!
Di quell’attimo di sospensione, approfittò velocemente Porzia, la padrona di casa che, a spintoni e fiatate allo sterco piperito, si fece largo come un caterpillar verso il cortiletto e ne occupò militarmente il poco spazio residuo.
Scarmigliata e urlante si parò con tutta la sua considerevole mole dinanzi a Proto, schermandolo.
“Cleto, non dire una parola!! Se vogliono riportarti in galera, questi signori dovranno vedersela con me! Glielo assicuro, non sto scherzando affatto Professor Cerbiattis!”.
Nel dire questo, tirando indietro e poi buttando di getto in avanti la testa dalla criniera scomposta, diede un ruggito tremendo, pestilenziale negli effetti, che fece venire in mente a Lallo quello, famosissimo, ma meno pericoloso, del leone della Metro Goldwyn Mayer.
La banda Tarallo, sferzata da quel verso animalesco, ripiegò strategicamente, arretrando verso l’interno della casa: pareva infatti che le difficoltà esaltassero la mefiticità dell’alito cacaciano, che era sempre più greve.
Tutte le piante rianimate da Consuelo, infatti, riappassirono all’istante.
Ci furono momenti di esitazione, lo stesso Cervellenstein sembrava non sapere bene cosa fare.
Nel frattempo Porzia seguitava a strillare, con una voce da film horror:
“Cleto l’ho trovato io e io me lo tengo! Non vedevo un uomo da quando la buonanima di mio marito, quel mollusco eternamente in pigiama, mi lasciò, giovane e disperata, ed ora non mi interessa affatto da dove esca fuori Cleto, e potete stare certi che me lo terrò stretto…”
“Si chiama Proto, signora…”, azzardò Tarallo.
“Stia zitto lei, con quella faccia da branzino cocainomane! – gli replicò inferocita la Cacace, bruciacchiandogli col fiato di brace la seconda mascherina – So bene come si chiama ora: l’ho battezzato io!!
In questi pochi giorni, Cleto, proprio perché l’impiego come martire l’ha sempre scontentato (tra l’altro a far quel mestiere si rischia anche di farsi male), ha ritrovato felicità, dignità personale e coscienza di lavoratore.
“Martirio di S. Proto” Porto Torres – Basilica di S. Gavino
Ma che ne volete sapere voi, babbei atomici! Ho scoperto che gli piacevano i cavalli e, nonostante il poco spazio che avevo a disposizione (la mia richiesta di ampliamento dei metri quadrati per edificare un ippodromo domestico, sta a russare negli uffici pubblici competenti), mi sono procurata Bonzo proprio perché lui potesse accudirlo, avete capito?
Anche come uomo ha sperimentato, grazie a me, qualcosina che non aveva mai provato e gli è piaciuto assai, non è vero Cleto? Diglielo al grande Professo Cernobillin e ai suoi sgherri!”.
Molti tra i taralliani rabbrividirono nel pensare a possibili scene amorose tra quella vastissima arpia lanciafiamme ed il povero biondino smarrito.
Tarallo, turbatissimo, scoccò uno sguardo all’amata Consuelo, come per rassicurarsi sulla bellezza e sulla parziale giustezza del mondo.
“Da martire a martire, quel Proto, poveraccio– si disse invece Tressette, per una volta pieno di compatimento – anche se, a ben pensarci – riflettè poi – non dovrebbe sentire nulla che provenga da quella bocca a cloaca. Dubito, infatti, che il pur bravo pittore sia riuscito a dipingergli anche l’olfatto!”.
“Su Cleto, diglielo all’esimio Cerbiatten, come siamo felici io e te, qui nel nostro nido in Via Ninì Rosso! – seguitava a strepitare Porzia – Avanti, diglielo!”.
“Chini sezzidi in cuaddu allenu, ndi calada candu non bolidi”.
(Chi monta un cavallo altrui, deve scendere quando non vuole).
Così, ancora una volta parlò Proto, con gli occhi spenti, e poi aggiunse:
“So fuidu dai su fumu, et rutu que so in su fogu”
(Sono fuggito dal fumo e sono caduto nel fuoco)
Il Professor Cervellenstein, a quel punto non si trattenne e si rivolse alla Cacace in tono duro:
“Lo sente, signora Porzia? Lei lo capisce il sardo antico? Lo sa cosa ha appena detto? Dice che per evitare un guaio è finito in un guaio peggiore! Riesce ad immaginare a cosa si riferisca?”.
Pronta, la donna ribattè:
“Sicuramente lui crede che siate VOI il guaio peggiore! Ne sono sicura: con me Cleto è un agnellino, anche nell’intimità”.
“Non ne dubito davvero!” .
Così replicò, ironico, lo psicologo, immaginando la passività terrorizzata del martire dipinto dinanzi alle manovre erotiche di quel donnone.
“E meno male che non era in grado di sentire gli odori, perché altrimenti avrebbe subito l’ennesimo martirio, poverino….”.
Spintonato nel frattempo, e fatto riemergere dalle retrovie da un Ducco spiritato di rabbia, finalmente Don Oronzo fu messo a tiro di vista e di voce della Cacace.
Se ne stette tuttavia tremebondo e muto per qualche minuto, finché Evita, che si era spazientita, strattonandolo per la tonaca, gli sibilò in faccia rabbiosa: “
“Muestra algunas pelotas, sacerdote! No tengas miedo de reunirte con Nuestro Señor!”
(Mostri un po’ di palle prete! Non abbia tutta questa paura di ricongiungersi a Nostro Signore!).
L’invito della bionda argentina parve sortire un qualche effetto, perché, subito dopo il suo garbato invito, il parroco fece finalmente sentire la sua voce, trasportata fuori dal suo corpo terrorizzato, da un flebilissimo belato:
“C…c. Cara… f..f.. figliola, ti ..p.. preghiamo.. di.. di rendere il nostro v.. venerato m.. martire alla sua s..s.. Sacra Sede. Te ne p.. prego come uomo di fede e t.. tuo p.. parroco. Ciò che appartiene a Santa Madre Chiesa non p..può tornare nella v…vile disposizione d… d.. dell’uomo..”
“E infatti non ci torna mai nulla”, pensò polemicamente Lallo, senza però dirlo, per non aggravare la difficoltà della trattativa.
“P.. per questa santa finalità, e i..i..in q..qualità di tuo conf… conf… fessore, ti ch… chiedo di dimostrare il t.. tuo pen… pentimento, permettendo al s..s.. Santo Martire di rientrare nella s..sua s.. sacra te..tela”…
Asciugandosi il sudore che gli scorreva sulla fronte a torrenti, Don Oronzo ritenne concluso il suo lavoro e, temendo di venir gasato da una perfida fiatata, arretrò prontamente in attesa della reazione della sua terribile parrocchiana.
E la reazione, come ci si poteva aspettare, non tardò ad arrivare, forte e vibrante di sdegno:
“Non mi stia a dire lei, Don Oronzo, quello che devo o non devo fare! So io ciò che va fatto, è chiaro? Poi, manco me l’avesse chiesto un santo eremita, uno senza peccato!! Lei però può comprendermi bene, Padre, se in questa misera vita da vedovella (quel diminutivo mosse tutti ad un’ilarità che non fu tuttavia possibile esprimere) il mio Cleto ha portato un po’ di luce. Anzi lei è proprio la persona più giusta per farlo. Crede che qui a Strappoli non si sia saputo e mormorato su di lei e Addoloratina, eh? ..”
Al parroco cedettero di schianto le gambe: sarebbe caduto se Abdhulafiah non lo avesse afferrato, ma la sua pena non era ancora finita:
“Ma non si agiti così, Don Oronzo, io, appunto, l’ho sempre capita e sempre giustificata: siamo povere creaturine fallibili e bisognose di calore! Non c’è da meravigliarsi che lei, Padre, inteso con la P maiuscola, in questa naturale ricerca di umano conforto, abbia rischiato per mesi di diventare padre, ma con la p minuscola, visto che Addoloratina aveva pelo ed età per concepire”…
Il tono di Porzia nella parte finale della sua risposta al parroco si era fatto insinuante, sottile, mellifluo come il sibilo di un crotalo e Don Oronzo, che aveva sfiorato uno svenimento, a quel punto perse la testa e si diede a urlacchiare tutto all’intorno, quasi pigolando, agitatissimo:
“Non sa quel che dice! E’ pazza, o posseduta! Non so nemmeno a cosa alluda, come si può crederle? In lei parla il demonio! Non cadete nella orrenda trappola della maldicenza..”.
Ducco, che era cugino di terzo grado della pelosissima Addoloratina, alla smentita di Don Oronzo, alzò gli occhi al cielo, sardonico, ma tacque.
La Cacace, infine, superò con l’ultimo strillo quel trambusto e urlò:
“Cleto non si tocca e se non ve ne andrete via, vi asfissierò tutti, senza pietà: pussate via! Ora! Subito! Marsch!”.
Dinanzi ad una minaccia tutt’altro che teorica, nello scoraggiamento che si stava facendo largo in tutti, fu Consuelo ad avere un colpo di genio e bisbigliò all’orecchio di Tarallo:
“Non è tutto perso: pensaci amore mio, anche noi abbiamo un’arma biologica! Non sappiamo se per potenza sia all’altezza di quella di Porzia, ma a questo punto dovremmo tentare il tutto per tutto, e provarci. Hai capito a cosa alludo? Lei non lo ha neanche visto: lui è rimasto a far non so che cosa qui fuori. Dovrebbe anche essere al massimo delle sue possibilità, perché da quando siamo a Strappoli non ha toccato un goccio. Un goccio d’acqua, intendo, come del resto, virtuosamente, fa da sempre, evitando di lavarsi! Proviamo a convincerlo tesoro mio: è tuo collega, a te darà retta nonostante i rischi”.
Tarallo, al quale si era accesa la luce all’interno della scatola cranica, ammirato, baciò la sua amata, tanto bella quanto intelligente: quella possibilità, infatti, l’unica spendibile, non era venuta in mente a nessuno prima che Consuelo ne parlasse.
Senza farsi notare dalla Cacace che, pronta a far strage con la sua alitosi guerresca, ancora schermava Proto con la possente mole, Lallo sussurrò l’idea di Consuelo all’orecchio del Professor Cervellenstein, che sussultò sentendola.
Poi, con altrettanta cautela, Tarallo scivolò fuori, in strada.
Seduto su una specie di colonnina, Marzio Taruffi, più puzzolente che mai, si trastullava mandando messaggini buffi alla burrosa Dorotea Santonorè, l’unica donna sul pianeta che si fosse mostrata sensibile al suo eccentrico tipo di fascino.
“Marzio”
“Eh, Tarà, che c’è?”.
“Devo parlarti, amico mio: debbo chiederti una cosetta”….
Lallo Tarallo, giovane sin dalla nascita, è giornalista maltollerato in un quotidiano di provincia.
Vorrebbe occuparsi di inchieste d’assalto, di scandali finanziari, politici o ambientali, ma viene puntualmente frustrato in queste nobili pulsioni dal mellifluo e compromesso Direttore del giornale, Ognissanti Frangiflutti, che non lo licenzia solo perché il cronista ha, o fa credere di avere, uno zio piduista.
Attorno a Tarallo si è creato nel tempo un circolo assai eterogeneo di esseri grosso modo umani, che vanno dal maleodorante collega Taruffi, con la bella sorella Trudy, al miliardario intollerantissimo Omar Tressette; dall’illustre psicologo Prof. Cervellenstein, analista un po’ di tutti, all’immigrato Abdhulafiah, che fa il consulente finanziario in un parcheggio; dall’eclettico falsario Afid alla Signora Cleofe, segretaria, anziana e sexy, del Professore.
Tarallo è stato inoltre lo scopritore di eventi, tra il sensazionale e lo scandaloso, legati ad una poltrona, la Onyric, in grado di trasportare i sogni nella realtà, facendo luce sulla storia, purtroppo non raccontabile, di prelati lussuriosi e di santi che in un paesino di collina, si staccavano dai quadri in cui erano ritratti, finendo col far danni nel nostro mondo. Da quella faccenda gli è rimasta una sincera amicizia col sagrestano del luogo, Donaldo Ducco, custode della poltrona, di cui fa ampio abuso, intrecciando relazioni amorose con celebri protagoniste della storia e dello spettacolo.
Il giornalista, infine,è legato da fortissimo amore a Consuelo, fotografa professionista, una donna la cui prodigiosa bellezza riesce ad influire sulla materia circostante, modificandola.
Lallo Tarallo è un personaggio nato dalla fantasia di Piermario De Dominicis, per certi aspetti rappresenta un suo alter ego con cui si è divertito a raccontarci le più assurde disavventure in un mondo popolato da personaggi immaginari, caricaturali e stravaganti