Effettuato uno scalo a Lusaka, nello Zambia, per riportare in patria i “negher”, dopo avergli peraltro elargito un certo gruzzolo per iniziare una nuova vita, Omar Tressette diresse verso la città di appartenenza il suo aereo privato, stipato da tutti i componenti della banda Tarallo.
Il miliardario intrattenne i suoi amici con una serie impressionante delle sue censure ad abitudini diffuse, quelle che da sempre stuzzicavano la sua inarrestabile potenza di biasimo, alcune delle quali già abbondantemente conosciute, alle quali se ne aggiunsero altre, del tutto inedite.
La lista, che suscitò accanite discussioni, comprendeva atteggiamenti che ai più sarebbero apparsi banalissimi, ma che al sanguigno Omar provocavano un fastidio paragonabile a quello suscitato da i Maneskin in qualsiasi una persona in possesso di un paio di orecchie.
L’elenco, in ossequio ad una celebre canzone di Jannacci e Beppe Viola, venne ribattezzato “la lista di “Quelli che…” e comprendeva:
Quelli che ruotano la tazzina di caffè prima dell’ultimo sorso;
Quelli che d’estate portano canottiere colorate, magari col logo di fantomatiche università americane, e le accoppiano a calzoncini corti dai colori fluorescenti e ciabattacce da passeggio;
Quelli di sesso maschile, che nella stessa stagione, foriera di intollerabili abusi estetici, indossano calzature aperte di stile fratesco che mettono in mostra i piedoni, soprattutto i sandali, di rara bruttezza, di una nota marca teutonica;
Quelli che nel bel mezzo della messa, con un sorriso innocente ed estatico, ti danno la mano e sussurrano entusiasti “pace” e poi, un quarto d’ora dopo, davanti al TG, col sangue agli occhi, propongono di cannoneggiare le barcacce malconce dei migranti rimasti in vita;
Quelli che guidano le Smart;
Quelli con l’orecchino e il codino, soprattutti gli inforforati;
Quelli che in autostrada ti si incollano dietro impazienti mentre stai superando qualcuno e fanno segnalazioni frenetiche coi fari, incapaci di pazientare venti secondi;
Quelli che “Quando c’era lui…”;
Quelli che “E’ brava per essere una donna…”…. E molte altre voci…
Il tempo di terminare gli accesissimi dibattiti provocati dalla lista, ed eccoli toccare il suolo patrio.
Su uno dei taxi che stava riportandoli in città, Tressette trovò il modo per attaccar briga con Eufemio Trastulli, il conducente, che teneva in sottofondo un programma di canzoni di Mika, ottenendo che cambiasse stazione finendo su un notiziario locale recitato da analfabeti di ritorno.
Per vendetta, e senza arrossirne, il tassista, che aveva messo in azione un congegno segreto che manometteva il tassametro, gli presentò poi un conto spropositato, manco avesse guidato per sette ore.
Nell’altra vettura, quella con l’aromaticissimo Taruffi a bordo, nonostante un freddo davvero himalayano, si viaggiò a finestrini aperti, tanto che alla Signorina Cleofe si gelarono anche i pensieri, così che all’arrivo si trovò privata delle funzioni più elementari.
Dovetterlo scongelarla in un bar per sentirla pronunciare la prima parola, che, per la cronaca, fu un’espressione di rara oscenità che, vomitata fuori da una distinta signora così in età, fece arrossire i numerosi magnaccia presenti che, tornati dal recupero mattutino delle loro “ragazze”, stavano bevendo i loro cappuccini e scambiandosi informazioni di lavoro.
Due giorni dopo il termine dell’avventura nepalese dei tarallisti, Ognissanti Frangiflutti se ne stava rinchiuso nella sua stanza, rimirandosi allo specchio e corteggiandosi con garbo.
D’un tratto sussultò: la sua immagine, quella di un ben portante cinquantenne dalla coltivatissima zazzera sale e pepe, foderato in un abito serio ma non funereo, che gli conferiva anzi un’aria spigliata, era scomparsa! Lo specchio non lo rifletteva più.
Un sudorino gelido gli salì fino al collo, ad onta della potenza di un riscaldamento che in quella stanza avrebbe favorito la schiusa di mille uova di struzzo, e un’angoscia senza nome lo afferrò alla gola.
Si spostò più volte, allontanandosi e riportandosi dinanzi a quel dannato specchio, ma ad ogni suo tentativo di ricomparire, la sua assenza perdurava all’interno di quella superficie dispettosa.
“Avrà a che fare col Natale?” arrivò assurdamente a chiedersi, pensando confusamente a scenari dickensiani, poi, al suo ennesimo piazzarsi davanti allo specchio, sobbalzò: al posto della sua, nello specchio stazionava la figura di Peppino Cicciafico, il finanziere bancarottiero che era stato il suo mentore, travestito malamente da Babbo Natale, nero d’abito però.
“A Frangiflù, nun me dì che te sei preso un colpo! Nun te riconosco più: ‘na vorta nun te spaventava manco scrive che Jovanotti era ‘ntonato, si te pagavano pe dì ‘na stronzata come quella, Ah ah ah!”
Il Direttore del “Fogliaccio, persa ogni baldanza, era crollato sulle ginocchia, ritrovandosi inginocchiato come un penitente davanti a quella grottesca icona, che su di lui esercitava ancora un gran rispetto ed altrettanta gratitudine.
In quell’ufficio lo spirito di Dickens pareva essersi ispessito.
“Mio maestro, cosa vuoi dirmi? – balbettò Frangiflutti, tenendo malamente a bada un insorgente senso di colpa.
“Er rosso nu me avrebbe donato, manco come Babbo Natale, nun trovi?
Che te vojo dì, me chiedi? Che avete fatto un pateracchio, ecco che te voio dì! Nun sei stato capace de superà la fatidica soglia delle tremila stronzate giornalistiche elettorali, minimo calunnioso necessario pe impedì a un communista come er civico de ripijasse la poltrona de sindaco!!
Hai fatto ‘n pastrocchio Frangiflù, e mo ce sta er rischio che qualcuno de li tua se venda pe ‘na poltrona come i broccoletti ar mercato de ‘sti tempi: cojone!
E hai pure mannato du deficienti a molestà le palle a un galantuomo come Ermenegildo Spampalon. Bel lavoro Direttò: è questo che t’ho ‘nsegnato?”
“Ma li ho mandati in Nepal per punizione, per levarmeli di torno. Pensavo che Spampalon li desse in pasto alle tigri”, biascicò Frangiflutti, giustificandosi.
“Tu nun hai ancora capito che devi sapè tutto de li cronisti tua, devi da conosce ogni loro segreto, anche il più nascosto: li devi tenè pe le palle, mi spiego? Ar posto tuo, prima der voto avrei organizzato ‘na grande cena co tutta la redazione, ‘na cena co una sola portata: a paijata!
Così potevi sta a vedè chi se la magnava e chi no, capì da chi sei veramente circonnato: chi nun se la magnava era sicuramente un communista: te devo ripete ancora quanto è importante ‘sto trucchetto?
Ora te trovi spiazzato, nun sai nemmeno a chi devi spolverà er deretano co la lingua o de chi devi parlà male sul giornale, così ogni giorno ondeggi come uno che de notte, de colpo se ritrova davanti la faccia griggia de Bruno Vespa.
Te lo sei meritato Frangiflù: sta più attento la prossima volta, stai più sul pezzo”
“Ma più sul pezzo di così! – si lamentò il Direttore, congestionato dall’impulso di difendersi – ho scritto almeno tredici falsi al giorno sul conto dell’Usurpatore civico! Ho stabilito il nuovo record europeo di inattendibilità: non mi pare di non aver lottato, ho rischiato di buscarmi più denunce di Travaglio! Ho fatto tante di quelle schifezze da…”
Frangiflutti si rese conto di star parlando a se stesso: ora era tornato, infatti, a stabilirsi nello specchio, mentre l’immagine del Babbo Natale nero frattanto era scomparsa.
Incapace di muoversi, restò ancora per qualche minuto fermo, poi, quando le ginocchiette ossute iniziavano a dolergli, si rialzò, ferito più nel morale che nelle ossa.
Cazziato dal fantasma del suo mentore!
Era stato maltrattato proprio da chi lo aveva letteralmente tirato fuori dal mucchio indistinto di immondizia giornalistica cittadina e portato a quel modesto successo di provincia a cui teneva morbosamente, alla impolverata parvenza di autorevolezza che nelle piccole realtà significa pur qualcosa.
Stette a compatirsi ancora per un bel pezzo, mentre dalla redazione giungeva solo il ticchettìo dei pc dei redattori al quale il solerte Levalorto dava il ritmo, come un aguzzino delle galere romane.
Troppo severa era stata con lui l’anima nera di Sua Eccellenza Cicciafico!
Lui aveva fatto l’impossibile per evitare il disastro: aveva oltrepassato nuove frontiere nella definizione di illecito a mezzo stampa.
Aveva sparso veleno come un aereo che irrora i campi con diserbanti così tossici da far nascere bambini minuscoli con la testa di Massimo Giletti: no, non era giusta l’accusa che gli era stata ringhiata addosso!
E poi che ne sapeva il suo mentore di Tarallo e Taruffi, che, per quanto era lecito supporre, in quel preciso momento potevano essere già divenuti mucchietti di feci di tigre, sparsi a guadagnare un paio di ciuffetti d’erba in più in una sterminata landa nevosa?
Quell’immagine, che lui, lungi dal ritenere truculenta, arrivava invece a trovare poetica, lo consolò per buoni dieci minuti e Frangiflutti ci si bamboleggiò ancora a lungo.
Già componeva a mente il testo dell’ipocrita articolo che avrebbe pubblicato in prima pagina, che tesseva l’elogio di quei due rompicoglioni, definendoli “umili servitori della verità che nel compiere il loro dovere di cronisti, di testimoni di una realtà lontana, si erano imbattuti nell’eroismo, sacrificando le loro vite al mestiere che tanto amavano”.
Pensando a quel testo arrivò addirittura a commuoversi, a versare un indizio di lacrima da coccodrillo.
E proprio mentre cercava con la sua limitata fantasia altre parole di commiato per i due scomparsi, fu riportato in terra da Levalorto, che irruppe in ufficio gesticolando, incapace di articolare un abbozzo di discorso.
Disse solo: “Direttore! Direttore” Ecco…. dunque… ecco… Direttore… dunque, ecco..”.
Poi, dalle sue spalle emersero, facendosi largo, due figure più assurde e spaventose di Cicciafico Babbo Natale: Tarallo, con la barba lunga, e Taruffi, con una canottiera con Drupi stampato sopra e dei calzoncini con l’immagine di Kabir Bedi, si assestarono sulla soglia della stanza, guardandolo storto, come a sfidarlo.
Fu solo allora che il Direttore Frangiflutti perse i sensi.
Lallo Tarallo, giovane sin dalla nascita, è giornalista maltollerato in un quotidiano di provincia.
Vorrebbe occuparsi di inchieste d’assalto, di scandali finanziari, politici o ambientali, ma viene puntualmente frustrato in queste nobili pulsioni dal mellifluo e compromesso Direttore del giornale, Ognissanti Frangiflutti, che non lo licenzia solo perché il cronista ha, o fa credere di avere, uno zio piduista.
Attorno a Tarallo si è creato nel tempo un circolo assai eterogeneo di esseri grosso modo umani, che vanno dal maleodorante collega Taruffi, con la bella sorella Trudy, al miliardario intollerantissimo Omar Tressette; dall’illustre psicologo Prof. Cervellenstein, analista un po’ di tutti, all’immigrato Abdhulafiah, che fa il consulente finanziario in un parcheggio; dall’eclettico falsario Afid alla Signora Cleofe, segretaria, anziana e sexy, del Professore.
Tarallo è stato inoltre lo scopritore di eventi, tra il sensazionale e lo scandaloso, legati ad una poltrona, la Onyric, in grado di trasportare i sogni nella realtà, facendo luce sulla storia, purtroppo non raccontabile, di prelati lussuriosi e di santi che in un paesino di collina, si staccavano dai quadri in cui erano ritratti, finendo col far danni nel nostro mondo. Da quella faccenda gli è rimasta una sincera amicizia col sagrestano del luogo, Donaldo Ducco, custode della poltrona, di cui fa ampio abuso, intrecciando relazioni amorose con celebri protagoniste della storia e dello spettacolo.
Il giornalista, infine,è legato da fortissimo amore a Consuelo, fotografa professionista, una donna la cui prodigiosa bellezza riesce ad influire sulla materia circostante, modificandola.
Lallo Tarallo è un personaggio nato dalla fantasia di Piermario De Dominicis, per certi aspetti rappresenta un suo alter ego con cui si è divertito a raccontarci le più assurde disavventure in un mondo popolato da personaggi immaginari, caricaturali e stravaganti