Natale… e la politica di Babbo Natale

Il clima natalizio credo sia il più suggestivo dell’anno, lo dico senza addentrarmi nel significato religioso della festa, è un discorso puramente laico.
Ciascuno, in un retaggio d’infanzia, conserva memoria di atmosfere natalizie, dell’emozione fremente d’attesa, tipica di chi ripone grandi aspettative in qualcuno, così come capita nella prima fase di un innamoramento, e che si tratti dell’idillio con l’amato/a o con il leader politico di turno, fa lo stesso.
La prospettiva di vedere esauditi i propri desideri, riaccende ogni barlume di speranza per un nuovo inizio, in cui il mondo diverrà più buono proprio per effetto della magia del Natale. Probabilmente è questo il motivo degli auguri scambiati pure tra sconosciuti a ogni angolo di strada, che ricominciano puntuali a fluttuare, come fiocchi di neve artificiali, nell’aria natalizia… così si compie il rito.
Credo che ciascuno di noi abbia scritto almeno una volta la letterina a Babbo Natale, e che ci abbia creduto fino a quando la verità, nuda, non è emersa dalla notte stellata, per rivelare con crudezza che Babbo Natale non è mai esistito.

Ciò nonostante, di Natale in Natale, come per ogni festa comandata, un malcapitato ha atteso la luce di una stella e, vuoi per tradizione o per scaramanzia, per fede o per amore, ci ha creduto ancora.
Che sia Babbo Natale giusto o solo il meno peggio? Barba posticcia, cappello e stivaloni, le frasi da sondaggio suggerite per accattivarsi le simpatie di grandi e piccini, non ci resta che annegare la ragione tra uno spumante e un panettone.
La metafora di un cambiamento possibile alberga in tanti cuori, con le vesti di un Babbo Natale riciclato per bene impersonare l’idea salvifica che finalmente qualcuno arrivi, passando dal camino, e che riesca a raddrizzare un’ingiustizia, a restituire senso a un cammino oscuro, a regalarci un che di consolatorio, un’idea di riscatto dove regna l’oppressore: l’uomo giusto al momento giusto.
Ma un’idea finché resta un’idea è soltanto un’astrazione e come canta Gaber : “se potessi mangiare un’idea avrei fatto la mia rivoluzione…”; peccato però che le idee vivano una stagione e poi diventino gli abiti smessi di una festa finita, perché la realtà richiede una mimesi diversa, un’omologazione.

Giorgio Gaber

E poi va detto, il clima natalizio, col suo retrogusto di infanzia e di speranza, reca anche in sé, per una sorta di contrappasso, tutta la contraddizione degli opposti e, come fa ogni festa, acuisce solitudine e maltolti, disuguaglianze e illusorietà di luci, una lunghissima sequela di speranze ridotte a lumicino, col paradosso dei buoni propositi inframmezzati da un innaturale oblio indotto dalle bollicine e dai tappi esplosi in aria.
Siamo dimentichi davvero, o per finzione, di chi s’ammazza e fa Natale in guerra, di chi di lavoro muore per mano di chi lo sfrutta o peggio si fa paladino dei deboli… di chi, politicante, si innalza al ruolo del bene per missione.
Così, dal proprio io ingombrante, costruito ad arte con cartapesta originale, e per divina provvidenza, dell’eletto ci narrano le imprese eccezionali, grazie alle quali s’irradierà a pioggia, per la cittadinanza tutta, come manna biblica, la grazia del signore che, in nome del Signore, l’altro, o di un indistinto meritocratico senso del primato, si porrà predicante e benedicente, sempre nel segno dell’amore.
Che sia amore per la città, per la nazione, per la giustizia o la giustezza degli affari propri, poco conta, fa comunque presa sulla folla e non la molla.
S’invoca il senso delle Istituzioni, valori manomessi, mentre valigette di soldi passano di mano in mano in quel di Bruxelles, patria di umane sorti e progressive; sono tutti regali di Natale, per noi qualsiasi cittadini, dominati dal consumismo che impera e ci trasmette il suo più grande spot commerciale, che tutto si può comprare, in questo grande mercato dove persino la fabbrica del bene ha la sua merce da piazzare.

In questo guazzabuglio creato apposta per confondere e regnare, tra luci posticce e intercettazioni da evitare, Natale non è che il grande assente nell’afasia diffusa anche a Latina, piccola città nell’infinito spazio di una perenne campagna elettorale, che ha riaperto il sipario più triste e disillusa, nonostante le autorità e gli abiti di gala schierati in pompa magna, con le novanta candeline appena spente, poco entusiasmo e partecipazione, spenti sul nascere anche quelli, e un Babbo Natale che ancora le promette di arrivare.

Fino a poco tempo fa mi sono nascosta dietro l’eteronimo di Nota Stonata, una introversa creatura nata in una piccola isola non segnata sulle carte geografiche che per una certa parte mi somiglia.
Sin da bambina si era dedicata alla collezione di messaggi in bottiglia che rinveniva sulla spiaggia dopo le mareggiate, molti dei quali contenevano proprio lettere d’amore disperate, confessioni appassionate o evocazioni visionarie.
Oggi torno a riprendere la parte di me che mancava, non per negazione o per bisogno di celarla, un po’ era per gioco un po’ perché a volte viene più facile non essere completamente sé o scegliere di sé quella parte che si vuole, alla bisogna.
Ci sono amici che hanno compreso questa scelta, chiamandola col nome proprio, una scelta identitaria, e io in fin dei conti ho deciso: mi tengo la scomodità di me e la nota stonata che sono, comunque, non si scappa, tentando di intonarmi almeno attraverso le parole che a volte mi vengono congeniali, e altre invece stanno pure strette, si indossano a fatica.
Nasco poeta, o forse no, non l’ho mai capito davvero, proseguo inventrice di mondi, ora invento sogni, come ebbe a dire qualcuno di più grande, ma a volte dentro ci sono verità; innegabilmente potranno corrispondervi o non corrispondervi affatto, ma si scrive per scrivere… e io scrivo, bene, male…
… forse.
Francesca Suale

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