Una storia di musica e Hi-Fi nei favolosi anni ‘70

Erano i favolosi anni ’70

Eravamo ragazzi a quel tempo e tutte le domeniche mattina ci recavamo a Porta Portese dove, oltre al mercato delle pulci, se ne svolgeva un altro particolare: la vendita e lo scambio di dischi usati.
Il posto dove si trovava questa vendita/scambio era situato precisamente sotto al ponte della ferrovia della stazione di Trastevere, ossia un centinaio di metri prima dell’inizio del mercato nella zona sud.
In pratica si portavano i dischi che si volevano dar via, non troppi però perché non c’erano bancarelle e si doveva quindi tenerli in mano. Di solito ci si incontrava abbastanza presto, di prima mattina.

Il mercato domenicale di Porta Portese

Quello era un bel sistema per ascoltare nuova musica senza spendere una fortuna: i dischi si vendevano e compravano a cifre ragionevoli e questo fatto ci incoraggiava anche a sentire qualche disco che non saremmo mai andati a comprare in un negozio normale. Se gli affari andavano male, al termine della mattinata i dischi si scambiavano.

A quel tempo non c’era tutta  l’informazione musicale che al giorno d’oggi è fornita dalle radio private e più ancora da internet.
Gli unici modi per tenersi aggiornati erano frequentare concerti e i mercatini, leggere le riviste musicali e ascoltare musica a casa di amici.
All’ora di pranzo si tornava a casa, ognuno col proprio bottino di dischi “nuovi” da sentire.
Non vedevo l’ora quando arrivavo a casa di mettere sul piatto Thorens i vinili che avevo preso e sentirli spaparanzato sul divano.
A casa mia gli Lp da un poco tempo si sentivano su un bel impianto stereo che mio padre aveva acquistato  e del quale tutti andavamo molto fieri.

Ma non era sempre stato così:

alla fine degli anni 60, ero piccolo ed avevo pochi dischi che riproducevo su un giradischi portatile Panasonic, uno come quello nella foto, di quelli che andavano di moda allora.

Il Panasonic portatile con il mio povero disco dei Rolling Stones “Their Satanic Majesties Request” mono

Inutile dire che, anche se esteticamente e funzionalmente era estremamente accattivante per quell’epoca, i dischi li riduceva a carne di porco per colpa del braccetto e della puntina molto rozzi.

La svolta avvenne quando cambiammo casa.

Ci eravamo trasferiti dalla zona Eur Marconi a una zona con poche case nuove, contigua a villa Pamphili, fra il quartiere di Monteverde e l’Aurelio.
Per arredare il soggiorno dovemmo comprare, fra le altre cose, un nuovo divano.

Il negozio Benedetti al Testaccio

Quando lo andammo a scegliere nel negozio Benedetti a Via Marmorata, la scelta ricadde su uno di forma ad elle di legno rossiccio con i cuscini colorati di bianco beige e marrone ad onda, prodotto dalla Bernini Italia.
Mia madre e mio padre se ne innamorarono: una ficata!
Per poche centinaia di mila lire in più c’era anche la versione che incorporava un piccolo impianto stereofonico.

Il divano a elle comprato da Benedetti oggi, rifoderato, nella casa di mio padre.
Nell’angolo si possono notare i buchi per lasciare passare il suono degli altoparlanti incorporati

Cominciai a cercare di convincere mio padre a prendere quello che aveva anche lo stereo visto che il trabiccolo che avevamo mi rigava tutti i dischi.
Lui espresse subito dei dubbi:

“Ma costa di più, magari in futuro ne prenderemo uno esterno…”

Capii che quello era il momento per infilzare la spada: con tutte le spese che stavano sostenendo chissà quando lo avrebbero preso. 

Ora o mai più, quindi!

Il mio martellamento cominciò ad essere come la classica goccia cinese (chissà poi perché è cinese ‘sta goccia) che alla fine ha scavato la roccia (anche il Gran Canyon fu scavato dai cinesi? bah).

Lo scrausissimo piatto Dual e il disperato ampli Augusta

Lo stereo consisteva in un piatto Dual con annesso amplificatorino Augusta e due piccoli altoparlanti che erano incassati nel mobile.

Per l’epoca quel divano era veramente fico ma di li a poco tempo mi resi conto che l’impianto stereo lasciava parecchio a desiderare.
Sentivo benissimo che non andava ma tacevo perché temevo che mi rinfacciassero il fatto di essere stato io a convincerli a prenderlo:
dopo tutto era meglio di niente.
Passò del tempo e una sera vidi mio padre rientrare a casa da un viaggio a Milano con un sacco di riviste di alta fedeltà.

“Com’è che hai tutte queste riviste?” – gli chiesi
“Me le hanno date in aereo”, rispose cercando di nasconderle ai miei occhi.

Feci finta di aver mangiato la foglia.

Sempre più spesso vedevo mio padre che tornava a casa con riviste di impianti stereo.
Capii che qualcosa si stava muovendo.
Scoppiò il click nella sua mente.
Io naturalmente ero eccitatissimo e mio padre, che da sempre non ci capiva nulla, cominciò a diventare un esperto di Hi-Fi, di quelli che ti parlano di impedenze e di ohm.

Stereoplay, una delle riviste preferite da mio padre

A me tutte queste cose non interessavano affatto, a me interessava la musica.
Cominciai così a dare spago a mio padre e ad assecondarlo, ricordo ancora noi due sdraiati sul lettone a sfogliare riviste e cataloghi specializzati.
Lui mi parlava di ohm e impedenze, io di Black Sabbath e Rolling Stones!
Non c’erano moltissimi punti di incontro ma andava bene così.
Acquisita una certa conoscenza, (ci vollero mesi) si arrivò finalmente alla decisione:
Avremmo comprato un impianto stereo Hi-Fi nuovo.
Cominciammo a girare negozi su negozi

Un negozio di Hi-fi negli anni ’70

e alla fine la nostra scelta ricadde sul negozio Musicarte a Via Fabio Massimo al quartiere Prati, vicino al Vaticano.
Un negozio grandissimo con tantissime casse, amplificatori, pre, finali, piatti, registratori, tuner…
Uno dei posti più belli dove sia mai stato nella mia infanzia.
Ricordo ancora l’emozione quando ascoltammo della musica uscire dalle gigantesche casse Klipschorn, delle montagne, roba che per costruirne un paio avevano dovuto disboscare mezza foresta nera!

Le gigantesche Klipschorn: 140 cm di altezza per 80 Kg di peso

I colpi di basso ti facevano smuovere le budella e il suono era di una nitidezza cristallina.
Ma erano troppo per noi, non sarebbero nemmeno entrate nel nostro soggiorno. E costavano anche quasi quanto il nostro appartamento.

Dopo varie visite a quel negozio, discussioni, domande e consultazioni, si arrivò alla scelta del primo impianto Hi-Fi della nostra famiglia.
Tornammo a casa con: Amplificatore Scott A-436 da 40 watt/canale, Tuner Scott, piatto Thorens TD 145, e casse JBL L26 Decade!

Insomma, avrei sperato meglio, ma le finanze familiari potevano permettersi quello.
In ogni caso eravamo già su un altro pianeta rispetto al vecchio Dual che ormai avevo smontato dal divano e sistemato nella mia camera, inserendo gli altoparlanti in due vecchie cassette di vini.
Intanto un pezzo eccezionale lo avevamo preso: il miticissimo piatto Thorens! wow!

Il Thorens TD 145, elegantissimo

Passarono non più di due anni e la febbre del Hi-Fi ormai rosicchiava anche il mio cervello, non solo quello di mio padre.
Continuavano a circolare riviste specializzate che ormai trovavano posto in ogni angolo della casa: nelle camere, in soggiorno, in cucina, nei bagni, sul balcone e qualcuna anche in cantina.

Ormai il cambiamento era impellente: non si poteva più resistere: le nostre orecchie avevano assaporato piatti raffinatissimi e non si potevano più accontentare di una minestrina sciapa e riscaldata.

Due cose non andavano bene come volevamo che andassero: intanto le casse JBL, che erano le entry-level della nota casa americana, e poi l’amplificatore, che sin dall’inizio aveva cominciato a darci qualche problema e non era così potente come ci aspettavamo che fosse.
La seconda volta che ci recammo da Musicarte correggemmo il tiro.

Così, una coppia di splendide casse JBL L100 century a tre vie con i woofers bianchi, un amplificatore Yamaha CA 810 90+90watt, un gioiello giapponese da urlo e una super testina Shure v15 Type IV per il nostro amato Thorens, cambiarono rapidamente padrone e luogo di soggiorno e si trasferirono a casa nostra.

Si poteva ben dire che la musica fosse cambiata.

E tutto il condominio sentì che la musica era cambiata!

La mattina del giorno dopo era domenica, mi alzai come un fulmine dal letto, era già da alcune settimane che avevo adocchiato a Porta Portese un disco: non conoscevo il gruppo perché aveva un nome lungo che neanche ricordavo, ma ne ricordavo perfettamente la copertina.
Mi aveva colpito, la trovavo bellissima e anche tutto il fumetto disegnato all’interno mi piaceva moltissimo, somigliava a quello della famosa copertina di Cheap Thrills di Janis Joplin.

La copertina del disco di Janis Joplin “Cheap Thrills”

L’avevo più volte preso fra le mani, guardato, rigirato, avevo controllato che non fosse troppo rigato, ma poi l’avevo rimesso giù perché non conoscevo quella band.
Ma ogni tanto mi ritornava in mente.
Quella mattina mi ero svegliato e di colpo avevo preso la decisione:
quel disco doveva essere mio!
Presi al volo i dischi da vendere li misi nello zainetto, scesi le scale di corsa, slegai il mio Corsarino zz50 rosso e partii velocemente, facendo tuonare il tromboncino che avevo messo al posto della marmitta di serie.

Il mitico Moto Morini “Corsarino zz50” rosso

Arrivai al mercato, comincia a girare con i miei dischi in bella mostra, sorretti con le mani e tenuti appoggiati al petto (si faceva così).
Dell’album che mi interessava invece, non c’era alcuna traccia visto che nemmeno il venditore era in giro.
Vendetti alcuni vinili e me ne stavo per tornare a casa quando vidi quel tipo spuntare da dietro il ponte.
Mi avvicinai, era visibilmente “fatto”, non so di cosa, e gli dissi:

“Ma li hai con te i dischi?”
Lui mi disse:
“sì, ho avuto un contrattempo e non sono riuscito a venire prima!”.
“Lo so io che contrattempo hai avuto – pensai –
Fa vede ‘n po’…”

Lui pigramente tirò fuori dalla cartella di cuoio i dischi.
Lo vidi subito, sperduto e con l’aria smarrita, era mischiato ad altri album insignificanti e mi guardava implorante.
Era bellissimo, il colore della copertina era come quello di questo sito di Latina Città Aperta, nero e oro: bellissimissimo.

Lo presi subito

“Quanto vuoi per questo?”
“Tre sacchi e mezzo (3.500 lire)”
“Dai famo mezzo scudo (2.500 Lire)”
“Tre sacchi (3.000 Lire)”
“Ok, vada pe’ 3 sacchi!”.

Lo schiaffai dentro il mio zaino, risaltai sul motorino e partii a razzo per arrivare a casa.
Per la prima volta avevo comprato un disco solo perché mi piaceva la copertina.
Arrivato a casa, puntai dritto verso il nuovo stereo, arrivato solo il giorno prima, e misi il disco, curiosissimo.

Accesi l’amplificatore, i vu meter si illuminarono, attesi il ding che segnalava che era pronto e feci scendere il braccio ammortizzato così che la puntina si accomodasse dolcemente fra i solchi.
Il disco non era bello, era bellissimo: un country scanzonato e travolgente. Non lo sapevo, ma avevo acquistato un gran bel disco, che ancora conservo gelosamente.
Il gruppo era New Riders Of The Purple Sage e l’album si intitolava “The Adventures of Panama Red”

Alzai il volume del potentissimo Yamaha


e chiusi gli occhi…

New Riders Of The Purple Sage – Panama Red
New Riders Of The Purple Sage – Lonesome L.A. Cowboy

Nato lo scorso millennio in quel luogo che, anche da Jovanotti, è definito l’ombelico del Mondo, Klaus Troföbien alias Carlo De Santis è ritenuto un vero cultore ed esperto di filosofia e costume degli anni 70/80.
È un ardente tifoso della squadra di calcio della Roma, ma non di questa odierna semiamericana e magari presto cinese, ma di quella di Bruno Conti, Ancellotti, Di Bartolomei, di quella Roma insomma che allo stadio ti teneva 90 minuti in piedi e 15 minuti seduto; è inoltre un collezionista seriale di oggetti vintage che vanno dalle cartoline alle pipe, dalle lamette da barba ai dischi in vinile.
I suoi interessi sono la musica pop rock blues psichedelica anni ’70/’80, la fotografia, la cultura hippie, i viaggi, la moto, il micromondo circostante.
Grazie ad una sua fantasmagorica visione è nata Latina Città Aperta, della quale è il padre, il meccanico e il trovarobe.
Politicamente è stato sempre schierato contro.
Spiritualmente, umilmente, si colloca come seguace di Shakty Yoni, space wisper di Radio Gnome Invisible.
Odia rimanere chiuso nell’ascensore.
Da qui la spiegazione del suo eteronimo.
Un pensiero criticabile ma libero, una mente aperta a 359 gradi.
Ma su quel grado è intransigente.

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