LA BANCA COMMERCIALE
Roma anni Trenta.
La vita in banca era dura e monotona per mio padre Alberto, classe 1897.
Orario di ingresso: 8,30; alle 13,30 di corsa a casa per un breve pranzo con pennichella annessa.
Alle 15,30 di nuovo in ufficio, fino alle 19,30.
Poi c’era la vita che si faceva, per forza di cose morigerata: solo casa e famiglia perché la scarsa privacy di allora permetteva alla banca di ricorrere ad agenzie private di investigazione per controllare la rettitudine del dipendente.
Il Galateo del perfetto impiegato di banca imponeva, nelle ore di lavoro, un’estrema cortesia verso il Cliente, visto che “ha sempre ragione”, e massimo ossequio verso i vari Direttori.
Naturalmente il sogno di mio padre Alberto era quello di uscire all’aperto, di respirare aria pura e magari di indossare una bella divisa, che faceva sempre il suo bell’effetto (specialmente sulle donne), e comandare uomini sempre pronti, una volta tanto, ad obbedire ai suoi ordini.
Questi erano i pensieri che andavano frullando nel cervello di mio padre, fino a che il sogno si poté realizzare grazie al fascismo, del quale non gli fregava niente, ma che gli fornì tuttavia una soluzione: quella di arruolarsi nella milizia.
Come ex capitano di complemento nell’esercito e mutilato di guerra per le conseguenze dello scoppio di una granata nella prima guerra mondiale, riuscì ad ottenere lo stesso grado di capitano che aveva avuto nell’esercito e fu così destinato, nei pomeriggi del sabato, all’istruzione dei premilitari, ovvero i giovani che avrebbero dovuto assolvere al servizio militare dopo circa un paio di anni.
Mia madre, che era fortemente antifascista, venne a patti con mio padre.
“Io quella schifezza di divisa non la voglio neanche vedere, quindi tutte le necessità connesse sono solo fatti tuoi: quella roba nera li non la voglio toccare e non la voglio neanche vedere in giro per casa!”
E fu così che da allora fummo noi figli quelli costretti a collaborare.
Mio padre provvedeva a tutte le mansioni del caso per non intercorrere nelle ire della sua temutissima moglie.
Una volta stirò perfino il pesante cappotto d’ordinanza: dopo averlo diligentemente inumidito me lo fece indossare per stirare le maniche e ci passò il ferro bollente.
Lanciai un urlo!
Per la prima volta udii mia madre prendere le mie difese:
“Disgraziato, per quella schifezza di divisa hai rovinato mio figlio!!”
e giù cappottate, inseguendo mio padre per tutta casa.
Io sotto sotto ridevo ma con le lacrime agli occhi per la paura delle ustioni che mi aveva provocato.
Nulla di grave, però.
LA TRAGEDIA DI FIUME
Negli anni 1937-38, con il beneplacito della banca e a seguito di una sua richiesta, la milizia inviò mio padre a Fiume per un lungo corso di aggiornamento.
Per mesi e mesi ebbi notizie di lui solo tramite le rare lettere che ci inviava da laggiù.
Qualche tempo dopo il suo ritorno a casa, mia madre notò che il lato anteriore del marmo di uno dei due comodini della camera da letto risultava leggermente sollevato.
Mia madre era molto orgogliosa della sua camera da letto e in particolar modo di quei comodini di legno scuro intarsiato e sormontati da pregiato marmo rosa.
Nel sistemarlo rinvenne una busta, l’aprì e…
Apriti cielo!!!
La busta conteneva molte fotografie di mio padre in compagnia di una piacente giovane donna, vedova e padrona della casa che lo ospitava, scattate sulla spiaggia di Fiume in costume da bagno e, diciamolo, i due sembravano molto vicini fra loro.
Come al solito, tornando da scuola, mi fermavo a giocare con gli amici e venivo regolarmente sgridato per il ritardo.
Quel giorno il ritardo era particolarmente rilevante perché fuori dalla scuola c’era lo gnaccino e avevo perso tempo a giocarmi 2 soldi per una fetta di castagnaccio, ma, rientrato in casa, nessuno si interessò a me.
C’era un grande scompiglio e tutti seguitavano a correre nervosamente da una stanza all’altra.
Mia sorella girava con le pezze di acqua fresca, mio fratello piangeva con un bicchierino di rosolio in mano non sapendo bene cosa farne, mentre mia madre sdraiata sul letto si disperava e gridava:
“Vai via, disgraziato non ti voglio più vedere, mi fai schifo!!”
Mio padre era trasparente e dopo aver tentato un’improbabile riconciliazione, preso dal panico, si rivolse a noi figli e invitò mia sorella Silvana a correre dal parroco, Mons. Cunial, quello che divenne in seguito arcivescovo e vicegerente di Roma, perché svolgesse opera di pacificazione.
Il Monsignore si precipitò a casa e parlò lungamente con mia madre disperata e poi fece una lunga ramanzina a mio padre, che annuiva con la testa bassa come un cane bastonato.
Ci volle del tempo, molto tempo, ma alla fine tutto si rimise a posto e mia madre dimenticò.
I BATTAGLIONI M
Verso la fine della guerra mio padre non seppe resistere alla tentazione e di nuovo si arruolò nella milizia, questa volta nei battaglioni M, che rappresentavano il meglio dei soldati italiani.
Il “Campo Battaglioni M” era sistemato a Trastevere, vicino a Porta Portese.
Una volta mio padre a tarda sera mi disse: “Vuoi vedere come si comportano i ragazzi dopo i miei insegnamenti? Andiamo a fare un’ispezione, anche se a quest’ora dormiranno tutti.” Orgogliosamente tirò fuori dall’armadio la sua divisa, me la mostrò facendomi l’occhietto e si vestì di tutto punto.
Calzò gli stivaloni neri, alti, stretti e lucidi. Mentre lo osservavo pensavo già che al nostro ritorno lo avrei dovuto aiutare a toglierli con il classico rito del “calcio in culo”.
Uscimmo dalla nostra casa a Piazza Strozzi e ci incamminammo alla volta di Porta Portese.
Mi ripetè: “A quest’ora sarà tutto spento e staranno tutti a dormire”
Ma più ci avvicinavamo e più distintamente sentivamo della musica.
Quando arrivammo venimmo accolti dal suono di una fisarmonica e da un coro festante.
A fronte del blando rimprovero di mio padre risposero:
“Sentite un po’ se vi piace questa canzone, e quest’altra? Che ne dite?”.
Ci voltammo per fare ritorno a casa senza proferire parola,
guardai papà, che camminava con le mani nelle tasche ed era pensieroso,
con tanta tenerezza.
IL GENERALE
Al primo piano del mio palazzo abitava un generale della milizia e suo figlio Vittorio che era un mio carissimo amico.
Mio padre era chiaramente invidioso e a volte quando Vittorio mi diceva che il suo papà era andato a parlare con Mussolini in persona, commentava:
“Non dargli retta, suo padre è un burattino, uno sbruffone e non conta niente!”
L’addestramento dei battaglioni M, dei quali, come ho già detto, mio padre era capitano, volgeva ormai al termine e già iniziavano i preparativi della partenza per la campagna di Russia.
Una sera papà, facendomi un cenno per chiamarmi in disparte, con un certo imbarazzo mi disse:
“Potresti chiedere al tuo amico Vittorio se per caso fosse possibile parlare con suo padre?”
La richiesta mi sembrò subito un pò strana, ma senza farmi troppe domande, mi precipitai giù per scale e bussai alla porta del mio amico.
Lui mi aprì e io gli riferii la richiesta.
Vittorio mi assicurò che suo padre era sempre disponibile, preferibilmente dopo cena.
Come seppi dopo, naturalmente l’oggetto del colloquio non poteva che essere legato alla “strizza” di dover partire per la Russia.
Come mi riportò il mio amico Vittorio, suo padre rassicurò il mio dicendogli che avrebbe subito provveduto a farlo congedare, aggiungendo però la seguente raccomandazione:
” Caro Alberto, datemi retta: pensate a fare il bancario e non provate a fare il guerriero”
A distanza di tempo, in famiglia, riparlando di quell’avventura, commentammo con molta obiettività, anche in presenza di mio padre:
“Che figura di merda!”
L’ARMISTIZIO
Finalmente venne l’8 Settembre! Il giorno dell’armistizio.
Tedeschi e fascisti, a piedi o con i mezzi più impensabili, si ritiravano cercando di risalire al Nord.
Io con i miei famigliari nel frattempo eravamo sfollati a Magliano Romano.
Quel giorno eravamo insieme a molti paesani, raccolti davanti al monumento ai caduti della prima guerra mondiale, proprio al termine della strada in discesa che portava al centro del paese.
Guardavamo incuriositi quella marea di soldati, diversamente vestiti ed armati, in fuga disordinata.
Ad un certo punto vedemmo fra gli altri alcuni atletici soldati con tuta mimetica e numerosi nastri con proiettili per mitragliatrice incrociati sul petto, staccarsi dagli altri e avvicinarsi a mio padre.
Lo salutarono con calore, facendo naturalmente battitacco e saluto fascista:
“Capitano vi ricordate di noi? Battaglione M, Porta Portese…”
Mio padre, amorevolmente raccomandò:
“Ragazzi la guerra è finita, abbiamo perso. Vi posso dare dei vestiti borghesi, così potete tornare a casa…”
“Capitano, ci sorprende che voi ci diciate certe cose, noi non tradiremo mai e combatteremo fino alla morte!”
“Buona Fortuna, ragazzi.“ rispose laconicamente mio padre.
Tutti i paesani intorno erano rimasti a bocca aperta non conoscendo i trascorsi “fascisti” di papà.
Anche questa volta, ricordando quei momenti, il nostro commento unanime fu:
“Altra figura di merda!”
Tutti nel quartiere Prati a Roma mi chiamavano Lambo, diminutivo del mio nome Lamberto, il Vlà invece deriva dal mio secondo nome: Vladimiro.
Sono nato nel 1925.
Dall’alto dei miei novantatré, quasi novantaquattro anni continuo a scrivere queste righe su questo interessantissimo blog “Latina Città Aperta”, affinché momenti della vita quotidiana mia, e più in generale, dell’Italia di quei tempi, non siano dimenticati o vadano perduti.
Così che i più giovani possano avere la possibilità di apprenderli, magari di sentirli raccontare per la prima volta.
veramente un modo fantastico di raccontare la piccola e la grande storia! complimenti!